La prima visita al Lightning Field mi ha preso circa dieci anni. È iniziata intorno al 1970, quando Walter De Maria mi accennò il progetto, e si è conclusa, a febbraio, con il sopraluogo, in New Mexico, del lavoro finito. In quest'arco di tempo ne ho sentito la musica, cioè le immagini che si accumulavano nella mente, attraverso le voci e le descrizioni del processo di realizzazione, e formavano ai miei occhi una variante del Bed of Spikes (1969), portata alla macroscala del Mile Long Parallel Walls in the Desert (1961-63). E tempo, musica e immagini sono rimasti l'impianto specifico della mia esperienza. La dimensione temporale è data dalla condizione espansa della esecuzione e dalla permanenza: per essere eseguito il Lightning Field ha richiesto oltre cinque anni, dal 1973 al 1979, ed è previsto come opera permanente. Questa dilatazione, mentre rende esplicita l'analogia, nella land art, tra quantità di spazio e quantità di tempo, rende possibile l'equivalenza tra l'età del lavoro e l'età della Terra. Critica quindi gli interventi, spettacolari ed effimeri, sul territorio e rifiuta l'informazione dei mass-media a favore di un'esistenza continua e di un'esperienza diretta. Non più attimo illuminante e pirotecnico, ma tensione e distensione espanse, dove l'insieme vive sulla presenza e non sul ricordo e sull'illustrazione registrata.
Nel lavoro di Walter De Maria l'accompagnamento dei fenomeni naturali è parte del lavoro, ne è supporto costruttivo e sensoriale.
Questa è un'enorme distesa desertica, situata a circa 2000 metri sul livello del mare, circondata da montagne che, a vista d'occhio, sembrano lontane decine e decine di chilometri. Quasi al centro di questa superficie piatta, ricoperta solo di arbusti, all'improvviso seguendo un bagliore del sole che si rifletteva su una superficie d'acciaio, noto la presenza di uno stelo metallico. Aguzzando la vista, ne scopro altri, finché il numero diventa incontrollabile. Sono infatti 400, disposti a griglia, alla distanza di 220 piedi l'uno dall'altro, e formano un rettangolo di un miglio per un chilometro di lato. Nell'avvicinarmi, comincio a percepirlo come oggetto e, considerata la mia tradizione nel vedere, mi sembra una megascultura, la cui cornice espositiva è data dal pianoro. Quando mi avvio a percorrerne l'intero perimetro (i cui lati sono formati da 25/16/25/16 steli), la relazione muta. La camminata per compiere l'intero percorso prende dalle 2 alle 3 ore, durante le quali il mio rapporto con il lavoro si personalizza. L'altezza del mio corpo si fa misura relativa all'altezza degli steli, mentre la lunghezza dei lati diventa il metro per ipotizzare la dimensione della pianura e la distanza dalle montagne. Rimanendo sempre all'esterno del campo, tento di immaginarmi come fotografarlo. Penso a una ripresa aerea, ma questa mi appare immediatamente irrealizzabile, poiché qualsiasi angolazione dall'alto, farebbe sparire otticamente la presenza degli steli. Perseverando in questa impostazione scultorea, mi allontano per diverse miglia e noto altre caratteristiche. Alla superficie colorata del terreno corrisponde la superficie trasparente ed invisibile che unisce tutte le punte degli steli: è un rettangolo d'aria che trova il suo corrispettivo nella superficie del cielo. Le interferenze tra Lightning Field e natura si rivelano così gradatamente e rendono impossibile la separazione dei dati. Pieno e vuoto, tangibile ed intangibile, superficie terrestre e celeste, immagini verticali ed orizzontali, luce e riflesso, pianura vuota e polarizzata, osservatore e oggetto osservato, steli naturali ed artificiali formano l'insieme dell'opera. Impossibilitato quindi a restarne fuori, ritorno al Lightning Field e mi incammino tra la griglia di steli, così da percepirne i particolari. E, man mano che mi inoltro, l'oggetto si trasforma in situazione.
Siccome la superficie formata dalle punte metalliche è, rispetto alla superficie della pianura, il punto più alto, nell'arco di decine di miglia, e in caso di temporale gli eventuali fulmini tendono ad indirizzarsi e a cadere sul Lightning Field, prendo a considerare le condizioni atmosferiche e faccio attenzione agli accumuli nuvoliformi che, a volte, oscurano improvvisamente il sole. Nel giorno del mio sopraluogo, la temperatura ha oscillato da meno 17 a più 21, con neve e pioggia improvvise, ma niente fulmini, per cui ho sentito il pericolo della mia situazione, ma non l'ho percepito visualmente, come può accadere, tra maggio e giugno, quando i fulmini si scaricano sugli steli, sino a renderne incandescente la punta. Notando però i riflessi solari sulle superfici degli steli, mi sono fatto un'idea del fulmine come di una luce che si riflette, con maggior potenza, sul campo. Tuttavia quest'esperienza mi è mancata, per cui ho deciso per una seconda visita. Germano Celant