Sono arrivato a Roma nel capodanno del 1956: adesso che ci penso, mi sembra un viaggio antico. L’Italia del Rinascimento vuole dire Europa, addirittura vuole dire Occidente, e io volevo esattamente questo: avrei potuto proseguire la mia strada, ma non era necessario andare altrove e, anche per il mio carattere, era impensabile tornare indietro. Molto presto ho trovato degli amici artisti, con cui parlare di arte non solo contemporanea: si discuteva nelle trattorie fino a tardi anche di pittura antica, non in modo accademico, ma come se i protagonisti fossero presenti al nostro tavolo. Così ho coltivato la considerazione che l’antico, in realtà, facesse parte di un’identità irrinunciabile, e che il Moderno non sia un esercizio modernista, ma si collochi all’interno di una logica diffusa. L’Italia degli anni Sessanta aveva una sua centralità culturale. Era il tardo Dopoguerra, c’era un cinema neorealista di grandissima importanza e drammaticità; io e i miei amici non risparmiavamo gli sforzi per capire e leggere il futuro, per scoprire, oltre ai quadri di Fattori, anche la grandezza di Van Gogh.
In Italia si erano capite molte cose: per esempio, l’importanza della pittura americana. L’artista Marca-Relli scriveva a Plinio De Martiis – fondatore della galleria La Tartaruga a Roma – che in America stava nascendo una nuova pittura con una libertà sconosciuta, che dava alla scena americana una centralità che la Francia, forse stanca della guerra, non aveva più. Non posso dimenticare la grande mostra di Jackson Pollock del 1958 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, diretta da Palma Bucarelli: fu un’apertura sorprendente. Pollock viveva lo spazio non come un pittore, ma come un ballerino. Ecco, il nostro desiderio di libertà ci faceva accostare a quell’arte americana, ma non alla Pop Art. Nel 1956 non era ancora iniziata la speculazione edilizia a Roma e quindi si viveva in una città bellissima: sono stato fortunato. Dopo i primi due o tre mesi, ho capito che era quello il mio posto: era l’Europa del Dopoguerra, con tutti i suoi dolori e le sue responsabilità segrete. Ancora oggi non riesco ad accettare quello che è successo agli ebrei: non una semplice atrocità di guerra, ma una cosa molto più grave, che coinvolge l’Europa intera. Bisogna riprendere sulle spalle anche il peso di questa immoralità, se si vuole liberare l’intuizione per formalizzare un nuovo quadro. Ecco perché non sono rimasto in America – dove avevo fatto un soggiorno nel 1958 – e sono tornato in Italia.
Gli antichi avevano la sacralità del fare, il dogma: non mancavano le figure, ma, in realtà, erano come il quadrato di Malevič, dipinte in uno spazio infinito; mancava la prospettiva, che prese corpo nel Rinascimento. Come si può però non parlare di drammaturgia davanti alla Conversione di San Paolo di Caravaggio nella Basilica di Santa Maria del Popolo a Roma? Noi apparteniamo a questa famiglia degli ombrosi. Il pittore è un uomo solo. Una volta, quelli che facevano icone andavano in un monastero e, alla fine, avevano la possibilità di diventare santi. Il pittore di ieri cercava di parlare a un piccolo pubblico di un teatro d’avanguardia per un discorso che riguardava la vita o la morte. Oggi si dice che serve una riflessione sulla forma, con la speranza che riporti alla superficie il dramma, dunque l’Uomo. Bisogna avere il coraggio di conoscere prima e affrontare la realtà del dominio dell’economia di oggi, per quanto questo non aiuti di certo alla nascita di un’opera come Demoiselles d’Avignon. Ai nostri giorni si vuole un artista che, da protagonista, si appropri del passato e offra delle immagini sorprendenti per dare ossatura e credibilità ai nuovi lavori. Abbiamo sempre voluto precisare la forma, ma mai ridurla a formalismo: noi siamo nati rifiutando lo stile. Come tutti, anch’io ho una memoria che non voglio dimenticare.
Questo testo è tratto da una conversazione tra Jannis Kounellis e Nicola Di Battista che ha avuto luogo nel novembre 2015, nello studio dell’artista.