Frank Lloyd Wright è immortale. O perlomeno, ne era così certo che durante una delle due puntate dell’intervista televisiva di Mike Wallace per la ABC del 1957, due anni prima della sua morte, quando il celebre giornalista di The Mike Wallace Interview gli chiese se credesse di essere destinato all’immortalità, rispose eloquentemente: “Sì. Se tu arrivi a chiedermi tanto, rispondo che io sono immortale. Sarò immortale”.
Oggi si ragiona spesso sulle ricorrenze (forse troppo?) e quando in redazione è arrivata notizia dell’apertura della nuova estensione del MoMA di Diller Scofidio + Renfro, inevitabile pensare che fosse un appuntamento da non mancare. All’atto di segnare questo evento sulle nostre agende però, con nostra grande sorpresa, ci siamo resi conto che la data corrispondeva anche ai 60 anni di un edificio che nella storia dell’architettura è leggendario: il ‘taruggiz’ del Guggenheim di New York progettato da Frank Lloyd Wright.
Il grande architetto americano è anche però, e altrettanto profondamente, legato alla storia del Museum of Modern Art: nel 1932 è parte della mostra seminale “Modern Architecture: International Exhibition” di Philip Johnson e Henry-Russell Hitchcock, nonché del catalogo “International Style”. L’architetto, sicuramente non noto per la sua modestia, aveva prima spinto i curatori a inserirlo nella mostra per poi rivendicare per sé “non solo il ruolo di iniziatore, per così dire, dell’architettura moderna, ma anche di autentico interprete del nuovo Zeitgeist che (…) l’avanguardia europea riduceva a mero manierismo formale”(1).
Il MoMA di Diller Scofidio + Renfro, recentemente rinnovato, apre oggi, in occasione del 60° anniversario del Solomon R. Guggenheim Museum di Frank Lloyd Wright
Wright torna a scontrarsi con il MoMA nel 1940, in occasione della mostra “Frank Lloyd Wright, American Architect”, a cui aveva contribuito personalmente. Scrive infatti Kathryn Smith, studiosa di Wright[1]: “He had chosen the material and designed the installation to be, in his words, ‘the show to end all shows’”. Parallelamente era stato concepito un catalogo, pensato in forma di festschrift, con saggi di Henry-Russell Hitchcock, Richard Neutra, Alvar Aalto e Ludwig Mies van der Rohe. Il libro non vede la luce fino al 2004[1] a causa dello scontro insanabile tra il museo e Wright. Quest’ultimo aveva addirittura minacciato di cancellare l’intera esibizione. Tra le cause, in particolare lo scritto di Walter Curt Behrendt, architetto e direttore della rivista Die Form. Dell’unico testo più puramente critico della raccolta, l’architetto americano scrive infatti in un telegramma “Behrendt ha travisato il mio significato, per ignoranza o in modo deliberato, suggerendo falsità riguardanti me stesso e il mio lavoro”.
“Behrendt ha travisato il mio significato, per ignoranza o in modo deliberato, suggerendo falsità riguardanti me stesso e il mio lavoro”
Forse proprio la forma celebrativa del festschrift non era la più adatta a trasmettere l’idea che Wright aveva di sé, che non era certo quella di un architetto che aveva già vissuto il “canto del cigno”. Al contrario, Wright voleva rivendicare il suo successo dopo i nefasti eventi che nel 1914 e nel 1925 avevano segnato la sua vita personale: il massacro della sua famiglia per mano del domestico Julian Carleton nella casa di Taliesin, poi incendiata; e l’incendio accidentale, sempre a Taliesin, che l’aveva portato alla bancarotta.
Nel giugno 1943 si presenta l’occasione giusta, quando riceve la lettera di Hilla Rebay, consulente per l’arte di Solomon R. Guggenheim. È l’inizio della storia di un progetto e di un edificio leggendari: Wright conia ‘taruggiz’, una parola bifronte che descrive la forma dell’edificio, uno ziggurat rovesciato.
Nel 1948, per testare la rampa del Guggenheim, Wright cela dietro a un quasi laconico muro di mattoni al 140 di Maiden Lane a San Francisco, appena dietro Union Square, la stessa rampa per il V.C Morris Gift Store, poi Xanadu Gallery. Quella celeberrima del Solomon R. Guggenheim Museum lui non la vedrà mai: muore ad aprile e il museo inaugura il 21 ottobre del 1959.
Nel 2004, è il MoMA che riesuma i documenti dello scontro sulla mostra del 1940, pubblicandone finalmente il catalogo in una versione che riporta i retroscena delle vicende e parte dell’infuocata corrispondenza tra l’istituzione e Wright. Ma non è finita, perché nel settembre 2012, i vasti archivi dell’architetto vengono acquisiti congiuntamente dal Museum of Modern Art e dalla Columbia University(4): 23.000 disegni architettonici, 44.000 fotografie storiche, grandi modelli, e 300.000 fra manoscritti, corrispondenza e altri documenti, protagonisti poi della grande mostra “Frank Lloyd Wright at 150: Unpacking the Archive” del 2017 (5).
Il 21 ottobre 2019 inaugura l’estensione del MoMA di Diller Scofidio + Renfro e si celebra il 60° anniversario del Guggenheim. Nella seconda parte dell’intervista a Mike Wallace, Wright dice: “Per me, la parola giovane non ha senso, non ci posso fare nulla. Niente di niente. La giovinezza è però una qualità e, se ce l'hai, non la perdi mai.”
- 1:
- Roberto Dulio, “Ricetta di un mito”, Domus n.884, settembre 2005
- 2:
- Kathryn Smith “The Show to End All Shows” in “The Show to End All Shows. Frank Lloyd Wright and The Museum of Modern Art”, The Museum of Modern Art, New York 2004
- 3:
- Manfred B. Steger, Frank Lloyd Wright, Kathryn Smith, “The Show to End All Shows: Frank Lloyd Wright and the Museum of Modern Art”, The Museum of Modern Art, New York 2004
- 4:
- Barry Bergdoll, “Wright Comes approda a New York”, Domus n.978, marzo 2014
- 5:
- Kenneth Frampton, “Frank Lloyd Wright: dentro l’archivio”, Domus n.1015, Luglio-Agosto 2017