L’arte di Robert Irwin, in mostra a Long Beach, trasforma il vedere in un sentire

Negli ultimi 60 anni, Robert Irwin ha creato opere che catturano, imbrigliano, rivestono e rifrangono la luce. Oggi, per la prima volta, la California State University raccoglie i suoi esperimenti.

Rincorro il lavoro di Robert Irwin dal primo momento che l’ho incontrato, al liceo, e ancora non sono riuscito a colmare la distanza. Forse succede perché il suo linguaggio è fatto di domande: la sua opera non esprime mai una forma finale e non si cristallizza in un significato. Le installazioni di Irwin, piuttosto, filtrano e mettono in evidenza le condizioni del cambiamento – luce, ombra, scala – dei rispettivi siti, trasformando gradualmente il vedere in un sentire. Disegnando nel centro focale dell’osservatore Irwin provoca un rallentamento e sfuma temporaneamente la visione periferica, per restituirla poi più intensa e più acutamente conscia dei particolari circostanti.

Fig.1 Robert Irwin, 1° 2° 3° 4°, 1997. Museum of Contemporary Art San Diego. © Robert Irwin. Photo Pablo Mason
Fig.2 Robert Irwin, 1° 2° 3° 4°, 1997. Museum of Contemporary Art San Diego. © Robert Irwin. Photo Pablo Mason

Il primo Irwin in cui mi sono imbattuto era Two Running Violet V Forms (1983), un’installazione con due strutture azzurre, sottili, collegate tra loro, come in uno steccato, appese a quasi otto metri in una macchia eucalipti all’Università della California di San Diego. Il colore veniva dal rivestimento di plastica delle strutture che, sotto i raggi del sole, si rifletteva in ogni sfumatura di blu: dall’azzurro tenue, trasparente della nostra camicia di lino preferita al compatto, lampeggiante e saturo blu del miglior monochrome di Yves Klein, fino al profondo, implacabile blu di una notte illuminata dalla luna. Ogni “steccato” serpeggiava in diagonale giù per la macchia, fino a scattare indietro e quasi sparire al vertice di ciascuna V. L’installazione pareva contrarsi ed espandersi incessantemente come una fisarmonica, in un movimento dettato dalle variazioni dell’azzurro che a volte collassava e si confondeva con il cielo.

Two Running Violet V Forms anticipa la concezione di Irwin di un’arte “condizionata/determinata dal sito” delineata nel 1985 nel suo libro Being and Circumstance: Notes Toward a Conditional Art. Allo scopo di creare un’esperienza fisica inclusiva, Irwin parte da una “lettura del sito intima, concreta”, chiedendosi come le persone entrano ed escono dal sito, quali sono i possibili eventi naturali (neve, vento, sole, acqua eccetera) e quali sono le persone, l’atmosfera sonora e la densità visiva del sito. Questa attenzione alla situazione che circonda l’opera d’arte, l’artista e il pubblico li colloca tutti e tre sul medesimo terreno. Irwin sostiene la necessità di sostituire un’esperienza dell’arte “da-a” con un’esperienza che permetta all’opera d’infiltrarsi nello spazio di ciascun osservatore e invaderlo.

Fig.1 Robert Irwin, Two Running Violet V Forms, 1983. Stuart Collection, UC San Diego. Photo Philipp Scholz Rittermann
Fig.2 Robert Irwin, Two Running Violet V Forms, 1983. Stuart Collection, UC San Diego. Photo Philipp Scholz Rittermann
Fig.3 Robert Irwin, Two Running Violet V Forms, 1983. Stuart Collection, UC San Diego. Photo Philipp Scholz Rittermann
Fig.4 Robert Irwin, Two Running Violet V Forms, 1983. Stuart Collection, UC San Diego. Photo Philipp Scholz Rittermann

L’opera di Irwin si sviluppa sulla base delle argomentazioni del filosofo francese della fenomenologia Maurice Merleau-Ponty, espresse in Il visibile e l’invisibile (1969), dove scrive che il punto di vista in quanto tale si fa tattile e che l’osservatore segue con lo sguardo i movimenti e il profilo delle cose. La visione si fa percezione, e Irwin ci invita a osservare forma, colore, trama superficiale e così via negli oggetti e negli spazi che ci stanno intorno. Irwin scrive che la base assoluta della nostra capacità di percepire è il cambiamento, il susseguirsi di eventi e qualità quasi simili, ma minutamente variabili.

L’opera di Irwin 1° 2° 3° 4° (1997), tre aperture ritagliate in finestre colorate preesistenti che danno sull’azzurro brillante dell’oceano, al Museum of Contemporary Art di San Diego (oggi non visibile), racchiude e sottolinea sottilmente il cambiamento, così come si verifica in natura nel corso del tempo. Le aperture mettono tra parentesi e appiattiscono momentaneamente la veduta dell’oceano in un’immagine che acquista profondità e slancio con il procedere dell’osservatore verso l’opera. Invece di entrare in competizione con la natura, Irwin sceglie un atteggiamento sommesso che imbriglia il fluire del profumo della schiuma marina, il suono delle onde che rompono in basso e la brezza che sfiora la pelle. Irwin mette a fuoco selettivamente l’attenzione dell’osservatore sull’accidentalità degli effetti e delle tracce del cambiamento nel mondo naturale e fisico, in precedenza forse ignorati. 1° 2° 3° 4° ribadisce l’idea di Irwin che un’arte fenomenologica possa esistere solo come reazione a un insieme di specificità, idea che l’artista ha affinato nel corso degli anni – affinato solo per renderla più intima, addirittura eterea, nel suo recente Untitled (dawn to dusk) (2016) della Chinati Foundation di Marfa e nella mostra Drawings (2017) alla Quint Gallery di San Diego.

A Marfa il cielo è un’espansione che si allarga fino a sembrare che lambisca i piedi. Le nubi hanno l’aspetto di ciuffi arabescati, fitti brandelli di qualcosa di fragile. Untitled è costruito a partire dalle strutture di un ospedale militare dismesso dell’ex base di Fort D.A. Russell, acquistata alla fine degli anni Settanta da Donald Judd, le cui costruzioni sono state a poco a poco riconvertite in installazioni permanenti di grandi dimensioni da Donald Judd, Dan Flavin, Roni Horn, Ilya Kabakov e altri. Due estati fa, ho fatto il viaggio fino a Marfa con un autobus, un aeroplano e poi un altro autobus per l’inaugurazione di Untitled, che consiste in due corridoi collegati, fiancheggiati da finestre, divisi al centro da una sequenza di schermi trasparenti.

Robert Irwin, Untitled. Photo Alex Marks
Robert Irwin, Untitled. Photo Mark Menjivar
Robert Irwin, Untitled. Photo Alex Marks
Robert Irwin, Untitled. Photo Alex Marks

Ricordo ancora di essere entrato in Untitled un’ora prima del sorgere del sole. La luce rosso sangue del sole esplose dalle finestre e si materializzò in scaglie vibranti, ineguali e frastagliate sugli schermi, prima di crescere in brillanti, tangibili lastre galleggianti sugli schermi e tra di essi. Il profilo netto della mia ombra si proiettava sulla parete, segno della mia presenza nell’installazione. Le ombre sono ovunque, a segnare la traccia della fisicità, ma raramente si notano o ricevono attenzione. Dopo aver lasciato Untitled mi sono reso conto che le ombre erano il segno non solo del corpo, ma di ogni cosa: sono stampi che contengono tutto quel che è stato in quel luogo.

Se Untitled persegue un sublime naturale, per quanto specifico, gli ultimi disegni di Irwin colgono e celebrano la bellezza del quieto scorrere dei momenti di normalità. Non sono proprio dei “disegni”: sono più prossimi a quel suo tipo di opere che usa lampade fluorescenti spalmate di gel. Qui, comunque, i disegni non hanno cavi elettrici. I tubi sono in realtà dei semplici involucri ma, quando la luce naturale brilla attraversandoli, spiccano ancora con familiare intensità. Parliamo del nucleo fondamentale di Stella Dallas. Due tubi al neon giallo-verdi sono collocati sopra un infisso dipinto al centro con una linea verticale nera larga due centimetri e mezzo. Ai lati dell’infisso due ante, con i bordi pure dipinti di nero, proiettano ombre sottili al bordo dei tubi. Se si guarda al centro, è tutto piatto. L’infisso si proietta in avanti e appare sotto forma di tre vistose, minacciose strisce nere che scorrono al centro, simili alle fasce verticali di Barnett Newman. Ma, seguendo con lo sguardo i tubi, si vedono sporgere i cerchi dei loro terminali, e si nota che le linee nere centrali vi si immergono mentre le curve verdi cercano di filtrare fuori dalla gabbia. Poi si nota un rettangolo grigio, dipinto sulla parete in modo da apparire interrotto dal disegno, che fa affondare l’infisso in se stesso, come ritirandosi. Irwin costruisce la logica percettiva dell’osservatore solo per continuare a farla collassare.

Robert Irwin, Stella Dallas (dettaglio), 2017. © Robert Irwin. Photo Philipp Scholz Rittermann. Courtesy of Quint Gallery
Robert Irwin, Stella Dallas, 2017. © Robert Irwin. Photo Philipp Scholz Rittermann. Courtesy of Quint Gallery
Robert Irwin, Sweet Sweet (side view), 2017. © Robert Irwin. Photo Philipp Scholz Rittermann. Courtesy of Quint Gallery
Robert Irwin, Sweet Sweet (vista laterale), 2017. © Robert Irwin. Photo Philipp Scholz Rittermann. Courtesy of Quint Gallery
Vista della mostra: “Robert Irwin – Drawings”, Quint Projects, San Diego, 2017. © Robert Irwin. Photo Philipp Scholz Rittermann. Courtesy of Quint Gallery
Vista della mostra: “Robert Irwin – Drawings”, Quint Projects, San Diego, 2017. © Robert Irwin. Photo Philipp Scholz Rittermann. Courtesy of Quint Gallery
Vista della mostra: “Robert Irwin – Drawings”, Quint Projects, San Diego, 2017. © Robert Irwin. Photo Philipp Scholz Rittermann. Courtesy of Quint Gallery
Robert Irwin, Cumulus (vista della mostra), 2017. © Robert Irwin. Photo Philipp Scholz Rittermann. Courtesy Quint Gallery

L’opera di Irwin propone un paradosso: offre una bellezza pronta e stimolante, spesso accompagnata da un improvviso inspirare – ma che si accompagna al desiderio di rallentare e di espirare gradualmente. Come scrive l’autore in Being and Circumstance: “L’intento (l’ambizione?) di un’arte fenomenologica consiste semplicemente nel dono di vedere oggi più di quanto si è visto ieri. […] Il soggetto dell’arte è il potenziale umano di consapevolezza (prospettiva) estetica.” Negli ultimi 60 anni e più Irwin ha creato opere che catturano, imbrigliano, rivestono e rifrangono la luce. Che sfumano lo spessore e il peso, il movimento e le tracce. Che s’innalzano orgogliose, ma senza punte di spacconeria. Che partono sempre da un’attenta, accurata considerazione dello spazio in cui esistono. E oggi i piani particolareggiati di questi esperimenti fenomenologici sono stati per la prima volta esaurientemente organizzati a Long Beach in “Robert Irwin: Site Determined”, la nuova mostra allestita dall’University Art Museum della California State University. Fino ad aprile, sono esposti disegni e modelli d’architettura delle installazioni correlate al sito di Irwin, nella loro evoluzione attraverso iterazioni differenti. La mostra si trasferirà in settembre alla Scuola d’Architettura del Pratt Institute.

Fig.1 Vista della mostra “Robert Irwin: Site Determined”. Photo Jason Meintjes
Fig.2 Vista della mostra “Robert Irwin: Site Determined”. Photo Jason Meintjes
Fig.3 Vista della mostra “Robert Irwin: Site Determined”. Photo Jason Meintjes

Ho scritto qui solo di tre gruppi di opere, ma si tratta delle opere che per prime mi hanno avvicinato al modo di operare di Irwin. Sono capitato in Two Running Violet V Forms passeggiando per l’Università di San Diego, senza andare in cerca d’arte o aspettarmi di vederla, e tanto meno di vedere quell’azzurro. Ma forse è giusto così, aver incontrato l’opera di Irwin per caso, intrecciata nella macchia di eucalipto: dopo tutto, il suo fare artistico consiste nello stimolare la consapevolezza di cose che sono già lì, nel far notare le ombre, i riflessi e i lampi di luce generati dal camminare nel mondo. Forse non c’è un “oggetto”, e neppure la rappresentazione di un oggetto da cogliere nell’opera. Mi sta bene così. Vuol dire stare un passo più avanti, signor Irwin.

  • Robert Irwin: Site Determined
  • 28 gennaio – 15 aprile 2018
  • University Art Museum. California State University Long Beach
  • 1250 Bellflower Boulevard, Long Beach