Era ora: Leon Golub. In tutta la sua immensità e umanissima gravità. Alla Fondazione Prada di Milano, in una mostra a cura di Germano Celant. Anzitutto, 22 spettacolari acrilici su tela di lino, grandi come affreschi. Poi, una sessantina di fotografie stampate su una certa pellicola trasparente, chiamata Duraclear, pure molto grandi, come l’apertura delle braccia.
Nato a Chicago nel 1922 (morto a New York nel 2004), Leon Golub è artista aggrappato alle cose del mondo, e di un mondo fuori sesto, messo nella luce meno rosea, rivela, con epica grandezza, gli aspetti più drammatici, le tragedie, gli orrori. Giovane adulto negli anni Quaranta del Novecento (si diploma del 1942 alla University of Chicago per poi specializzarsi, sul finire del decennio, alla School of the Art Institute of Chicago), sente la guerra tuonare in tutti i Paesi e i mari del mondo. Sa che la guerra è di tutti i tempi e di tutti i luoghi (ieri era in Vietnam e in Cambogia, l’altro ieri a Babilonia, oggi è in Siria, in Afghanistan, in 29 stati dell’Africa) e la dipinge, non ha mai smesso di dipingerla.
L’umanissima gravità di Leon Golub alla Fondazione Prada
Un unico curatore, Germano Celant, per tre mostre. La scena artistica di Chicago del Secondo dopoguerra è protagonista alla Fondazione Prada con la monografica su Leon Golub e due esposizioni succulente e copiose di opere su H.C. Westermann e la cerchia di artisti di quel decennio.
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- Ilaria Bombelli
- 07 novembre 2017
- Milano
Nella pittura di Golub, l’umanità non è mai in salute, è vuota, meschina. Le invenzioni narrative sono sintetiche e concentrate. Le sue figure “sfigurate”, rigide e ingessate, attinte da un fondo ellenico, sono costruite per via di collage di ritagli di giornale e fotografie. I volti sono lividi, i petti flagellati, i corpi feriti. I pugni sono alzati, i palmi afferrano bastoni o pistole. Le battaglie non sono mai gloriose. Le uniformi si disfano: i poliziotti sono aguzzini, i soldati mercenari. Le vittime sono nude, legate, incappucciate, inermi. Si stagliano su fondi ampi e uniformi, squallidi nel loro silenzio e opacità, che li disancorano dalla storia (non c’è traccia di orizzonte). Sono fondi che hanno il colore tiepido del lino della tela, spesso lacerata e sdrucita, o sono dipinti di un rosso acceso o porporino, più di rado di giallo o di azzurro. Ricordano i cieli squarciati delle pitture del trecento, le campiture piatte delle scene di martirio che tanta parte della tela occupano, dove l’aria tra i flagellatori e il tribolato è collosa, immobile. Robert Browning esortava il pittore monaco Filippo Lippi a “dipingere l’anima, senza preoccuparsi delle gambe e delle braccia”. Golub pittura braccia che brandiscono fucili e gambe massicce infilate in lustri stivali chiodati. La pittura non è oleosa ma di asciutto acrilico, ulteriormente scarnificata da energiche spatolate. La firma è quasi sempre in basso a destra: “Golub” soltanto, in stampatello maiuscolo.
L’autunno batte con le dita i vetri della città, la nebbia risucchia il paesaggio, ed è in giornate come queste che si va in cerca d’immagini – potenti, definitive. La torre d’oro a 24 carati della Fondazione Prada scolora nel cielo lattescente. Un uomo con l’impermeabile e scarpe di vernice percorre con rapido passo gli ultimi metri che lo separano dall’ingresso. Inizia a scendere un leggero piovasco. Nella libreria di fresca apertura del museo troneggia una riproduzione in piccola scala della fondazione (che nell’insieme occupa un’area di 19.000 metri quadrati), con tutti i sette fabbricati preesistenti dell’ex distilleria di inizio Novecento ben riconoscibili, assieme ai tre nuovi edificati, cambiati nei loro rapporti di prospettiva. Le inservienti si affrettano a tirarli lustri con spugne bagnate: la bionda torre aurata ora risplende radiosa sotto le luci al neon. Domando della mostra di Golub a uno degli assistenti di sala che passa in uniforme scura, questi punta l’indice, che pare enorme, sulle due stecche a nord e a sud del modellino, menandolo da una all’altra con movimento di tergicristallo. “Ma le consiglio d’iniziare dalla nord”.
L’esperienza che si riceve nella Galleria Nord, magra di pitture, è quella di un’immersione totale nel grande corpo di medusa pellucida dei lavori su Duraclear. Qui ci sono cinque delle otto serie che l’artista presenta in Europa e Stati Uniti fra il 1991 e 1999: Worldwide (1991, 16 elementi), An Incident (1992, 9 elementi), Violence Report/Prisoners (1993, 12 elementi), Sanguinary (1996, 7 elementi), Partisans (1999, 11 elementi). Sulla porta si legge: “La mostra include rappresentazioni di situazioni violente che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni visitatori”. Come in una grande vasca, queste immagini spettrali, stampate a serigrafia, sospese nel vuoto su binari di alluminio, pescate da fonti fra le più varie (c’è la testa di un guerriero di Delo assieme a quella di Nelson Rockefeller), tutte in bianco e nero se non per alcune virate rosso sangue, flottano e si dibattono ai margini della ragione umana. Se si prova a fotografarle con il cellulare, strizzati in un angolo per metterne il più possibile dentro l’inquadratura, c’è sempre un paio di scarpe (quelle di vernice dell’uomo di prima, per esempio), una testa ricciuta, un braccio che entra, per via del gioco di trasparenze, nella scena, sovrapponendo la viva carne alla foto di un cadavere o un’esecuzione: se è impossibile comprenderle nella loro crudezza, ne siamo inevitabilmente compresi.
“Non è arte politica”, ha detto Golub una volta, “ma un’espressione popolare di repulsione comune”. Per la verità, si esce dalla Galleria Nord non più di tanto urtati nella sensibilità, come avevamo letto. Vero è che ci si prepara al gran veglione di pitture nella Galleria Sud (nella nord ce ne sono solo due, pur enormi, parte delle serie Vietnam, 1974, e Riot, 1987), fra cui i brutali Interrogation I (1980-81) e Interrogation III (1981), in cui si vedono due soldati di ventura torturare prima un uomo e poi una donna, entrambi nudi e legati, lui appeso per i piedi a testa in giù, lei accosciata con il sesso in vista, e poi le più note serie marziali Napalm (fine anni sessanta-inizio settanta) e Mercenaries (dalla metà degli anni Settanta). Eppure, ingerite anche quelle, si resta come in uno stato di armistizio emotivo. Perché Golub è sì artista del realismo, e in questa mostra si insiste nel ricordarlo, che non distilla le forme svigorendole del loro messaggio politico e sociale, come facevano i neoastratti e gli informali (da qui il consenso e l’esaltazione mediatica che la storia ha concesso più ai secondi che al primo), ma è un realismo che ha dentro la guerra e la tortura come i corpi della scultura greca e quelli presi da riviste porno e s/m – da qui la sua seduzione. Come scrive Rosetta Brooks in un numero datato della rivista Artforum (gennaio 1990), “se a prima vista i suoi dipinti non scatenano una reazione scioccante, è perché ad essi non si può far risalire il tipico immaginario mediatico traumatico. Abbiamo la sensazione di avere già visto queste immagini, ma non siamo sicuri dove. Il lavoro di Golub si è sempre interessato agli atti di censura occultati, asserendo così una connessione con il ricordo molto più potente di qualunque pretesa convenzionale che una ‘libertà di informazione’ implica in modo retorico.” Per questa ragione, il colpo della sua arte non arriva mai dritto, e non si esaurisce comodamente.
Golub non può essere ricondotto alla sola scena artistica di Chicago, e viceversa, Chicago nel Secondo dopoguerra non è stata solo Leon Golub. C’era innanzitutto il coetaneo Horace Clifford Westermann (1922-1981), un artigliere di Los Angeles – e acrobata – che, lasciato il fronte, studia design e pubblicità alla School of the Art Institute of Chicago ed emerge poi come raffinato autore di assemblage allucinatori e all’apparenza ludici, per lo più in legno (molti ricordano una bara), che si rivelano essere amaro commento sulla distruttività (imperialista, esistenziale, psicologica) dell’uomo: 53 sue sculture (datate dagli anni Cinquanta agli Ottanta) e 20 inchiostri e acquerelli su carta occupano tutto il primo piano dell’edificio chiamato Podium della Fondazione.
E c’era poi, la si trova al piano di sotto, tutta una cerchia di artisti, agglutinati per movimenti (Imagists, Hairy Who, ecc.), e qui convocati sotto il titolo di “Famous Artists from Chicago. 1965-1975”, che di quel decennio hanno restituito lavori (in mostra ce ne sono 133!) dal figurativismo stralunato e grottesco. Due esposizioni succulente e copiose di opere, visitabili, assieme a quella di Leon Golub, fino al 15 gennaio 2018.
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- “Leon Golub”, “H. C. Westermann” e “Famous Artists from Chicago. 1965-1975”
- 20 ottobre 2017 – 15 gennaio 2018
- Germano Celant
- Fondazione Prada
- Largo Isarco 2, Milano