Lo studio di design londinese rAndom International, giocando sugli obiettivi, la scala e l’accessibilità delle tradizionali mostre dei musei d’arte contemporanea, crea ambienti digitali immersivi dotati di qualità performative ispirate all’Op Art, all’arte cinetica e al post-minimalismo.
Rain Room
L’ultima e più ambiziosa versione di Rain Room, il diluvio digitale di rAndom international che invita gli spettatori a controllare la pioggia, è ora esposta all’esterno del MoMA di New York.
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- Danielle Rago
- 08 luglio 2013
- New York
Già esposta al Barbican di Londra, l’ultima e più ambiziosa versione di Rain Room, diluvio digitale che invita gli spettatori a controllare la pioggia, è attualmente esposta all’esterno del Museum of Modern Art di New York. Rain Room, parte di EXPO 1: New York, la serie di progetti avviata dal direttore Klaus Biesenbach e dal curatore Hans Ulrich Obrist che analizza i rischi ecologici nel contesto dell’instabilità economica e sociopolitica dell’inizio del XXI secolo, parla delle sfide cui l’ingegneria e le scienze sociali devono far fronte con un’installazione pensata per essere personalmente fruita attraverso tutti i cinque sensi, tatto compreso.
Collocata in un parcheggio adiacente alla sede dell’istituzione Rain Room si trova dentro le pareti di un cubo isolato, che disorienta e sposta il visitatore dalla posizione di osservatore a quella di partecipante. Secondo Hannes Koch, fondatore e direttore di rAndom International, il “senso dell’emergenza” è stato il fattore che ha coinvolto il collettivo di artisti-progettisti ed è stato una delle matrici dell’idea del progetto. Mentre questa sensazione ha indirizzato il processo progettuale, la realizzazione è stata in certo qual modo “una grande sperimentazione”, afferma Koch. Mentre l’idea è nata quasi naturalmente dal clima piovoso di Londra, il problema di come realizzarla ha richiesto anni di lavoro per attrezzarsi e ricrearlo.
L’installazione del MoMA fa compiere un passo avanti alle tecniche di programmazione digitale usate per realizzare il progetto. L’ambiente di cento metri quadrati, il più grande finora realizzato, usa telecamere tridimensionali montate in alto per cogliere forme e corpi sottostanti in modo da aprire e chiudere una per una le valvole che controllano il flusso dell’acqua, che si aprono e si chiudono in fasce di varia intensità. Quasi duemila litri d’acqua sono variamente erogati da 52.000 ugelli a controllo digitale. L’acqua erogata viene poi raccolta da un apposito sistema di drenaggio, filtrata, trattata e pompata di nuovo verso il soffitto per essere di nuovo erogata. La precisa coreografia dei processi e delle tecnologie digitali si comunica dai meccanismi dell’installazione al modo in cui il pubblico è coinvolto e si inserisce nello spazio.
L’installazione del MoMA è collocata in uno spazio completamente estraneo, staccato dall’istituzione, a differenza della versione precedente pensata per il Barbican, che corrispondeva all’architettura dello spazio preesistente. Ciò nonostante la struttura cubica fornisce un ambiente totalmente coinvolgente per il visitatore, che lo assorbe immediatamente rallentando il ritmo della vita attraverso il controllo dell’illuminazione e l’eliminazione dei suoni: cosa ardua in una città come New York. La trasformazione di questo spazio generico dimostra il rigore artistico del gruppo, che va al di là della maestria tecnica. Rain Room, quasi una performance, coinvolge i visitatori all’interno dello spazio espositivo e all’esterno di esso. Istituendo un rapporto chiaro con il pubblico grazie alla sua collocazione, la facciata esterna è nettamente visibile dalla strada e dal relativo marciapiede: il percorso non ha più luogo all’interno dello spazio del museo, fatto di un intrico di piani e di ambienti strutturati, ma assume invece la forma lineare dell’accesso a questa struttura minima e a questa curiosa installazione. Scaturisce anche dall’azione stessa: il modo in cui i visitatori navigano lo spazio una volta entrati.
Pensata per la fruizione di un gruppetto di non più di dieci persone per volta, questa strategia si dimostra felice nell’interpretazione e nella conoscenza dello spazio ortogonale che è dotato di una serie di parametri e di limiti nettamente segnati dalla griglia sovrastante, ma contemporaneamente e per altri versi sembra infinito. Il visitatore entra nello spazio fiocamente illuminato e immediatamente si trova di fronte a uno schermo semitrasparente sul quale sono visibili solo ombre e proiezioni. Un grande riflettore è puntato dritto negli occhi del partecipante, deforma e dilata lo spazio, facendolo sembrare quasi infinito e non ristretto o limitato. Una volta dentro lo spazio dell’installazione la componente teatrale entra in gioco grazie alle interazioni individuali delle persone tra di loro e con lo spazio: danza, salti, meditazione, strette di mano e così via. Ma le reazioni piè interessanti si verificano quando la tecnologia non è all’altezza, dice Koch. Il momento in cui il sistema sbaglia e qualcuno inopinatamente si bagna è un successo trionfale.