La ricerca che Favelli porta avanti da anni si articola principalmente attraverso sculture, installazioni e collage, e si concentra su un'analisi dei meccanismi simbolici e combinatori della memoria: sulla natura dei ricordi intimi, sulla loro potenza allusiva, sul loro rapporto con la storia pubblica e collettiva.
Il titolo della mostra alla Cardi Black Box deriva dall'insegna di un night club (con errore ortografico) che Favelli ha intravisto attraversando l'entroterra siciliano; e la poetica della mostra è già tutta lì, nelle associazioni che evoca quel Manatthan Club: un paese provinciale che si apre a un immaginario d'importazione, tanto più carico di significato quanto più, appunto, immaginario; un sogno di trasgressione ricondotto ad alcuni stilemi trash, il rosa e il porpora, i neon e il laccato nero; il boom economico che ricade sui costumi tingendoli di un misto fra il tenero dilettantismo e una sguaiata felicità: di questo si parla.
Flavio Favelli: Manatthan Club
Alla galleria Cardi Black Box sino a fine gennaio 2012, è in mostra la prima personale milanese di Flavio Favelli.
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- Vincenzo Latronico
- 28 dicembre 2011
- Milano
Lo spazio principale della galleria ospita una serie di mobili e sculture che richiamano, nell'atmosfera, proprio l'immagine di un club come questo, negli anni Settanta: librerie, tavoli e consolle in apparenza omogenei, ma in realtà ottenuti mediante un collage di parti di altri mobili, reperiti da Favelli in una caccia al tesoro che lo accompagna da anni. Nelle linee, nei materiali, i mobili richiamano il gusto degli anni Settanta, quel tardo modernismo che cominciava a snaturarsi nella ricerca della variazione o dell'impatto visivo; molti di essi sono trasfigurati da applicazioni di neon, che ne sottolineano la valenza scultorea e la natura di "collage". Alcuni di questi neon derivano evidentemente dalle insegne di marchi caratteristici dell'epoca del boom – privati delle lettere eppure chiaramente riconoscibili. L'effetto complessivo degli oggetti è familiare e straniante al tempo stesso: certo, si riconoscono quei mobili, quegli oggetti, eppure a ben vedere sono composti di pezzi eterogenei; certo, si riconoscono i colori delle insegne, appartengono a un paesaggio della memoria, eppure non si riesce a dire esattamente cosa manchi o cosa sia insolito nella loro disposizione.
Questo effetto è rafforzato dalla presenza imponente di una tenda, impiegata come divisorio nella stanza e ripresa in un quadro a parete. A prima vista potrebbe sembrare un pesante lembo di tessuto rossastro drappeggiato da soffitto a pavimento, colpito da luci fortissime così da sottolineare il gioco di luci e ombre delle pieghe; quest'alternanza di chiari e di scuri è però impressa nel tessuto, originariamente nero e scolorito dal sole lungo quel pattern, per aver passato decenni dietro alla vetrata di un piccolo museo senza mai mutare posizione. Non è un semplice gioco ottico, un trompe l'oeil: è il ricordo di qualcosa che prende forma sino ad essere evocata.
Lo spazio principale della galleria ospita una serie di mobili e sculture: librerie, tavoli e consolle ottenuti mediante un collage di parti di altri mobili, reperiti da Favelli in una caccia al tesoro che lo accompagna da anni
Lo spazio superiore della galleria conduce a una brusca transizione di atmosfera; allestito come una piccola quadreria, presenta una vasta serie di collage di cartoline, poster, francobolli, riviste, involucri di cioccolatini, a comporre immagini elegantissime e dolorosamente pazienti nella realizzazione, incisive e al contempo malinconiche. Molti di essi riprendono l'immagine o il nome di Sandokan, il cui film, di straordinario successo, è inscindibilmente associato da Favelli (e dalla sua generazione) al ricordo di quegli anni. Altri accennano a temi erotici, mediante poster o scritte però cancellate e presenti solo in forma di frammento. La superficie giocosa e fantastica delle opere rivela l'elaborazione della memoria di un bambino: che ricollega ossessivamente un'epoca a una passione (Sandokan); che solo a stralci coglie e ricorda qualcosa di affascinante e misterioso (il sesso) che però torna a infiltrarsi di immagine in immagine.
La forza evocativa dei collage – che è duplice: legata tanto al loro alludere a un contesto molto ampio, quanto alla ripetitività dei materiali di partenza, alla quantità necessariamente esigua delle ossessioni da cui scaturiscono – chiude il cerchio con le sculture del piano inferiore, realizzate, in fondo, con un processo analogo (l'assemblaggio di parti eterogenee; la ripetizione di alcuni elementi "di trama"). Il processo del collage – che Favelli ha collocato al centro di questa mostra potente e ricchissima e velata di tristezza – è il processo della memoria: che ricompone un mondo per accostamento, ripetizione e richiami ai medesimi materiali, moltiplicati e variati, in grado di riassumere in sé ogni cosa di un'epoca filtrandola, però, attraverso pochi simboli delle proprie ossessioni. La realtà dei Settanta – vissuti da Favelli bambino e ricordati oggi, passati al setaccio ma al contempo illuminati dal passare dei decenni – è tutta lì: gli anni di piombo, il boom, le figurine, New York, i cinema porno di cui si colgono per strada brandelli di locandina, il Manatthan Club – dietro la filigrana di Sandokan. Vincenzo Latronico