Domus: Ironia del destino, il suo primo grande saggio è stata una monografia su un artista più
che altro architetto e ancor più designer come Marcello Nizzoli. Segno del suo lavoro a venire?
Germano Celant: Il mio percorso è segnato da un'impostazione storica, inculcatami
all'università da Eugenio Battisti, per cui l'attenzione analitica poteva riversarsi su qualsiasi
soggetto artistico, dagli orologi alle streghe, dagli automi a Brunelleschi. Pertanto ho subito
impostato il mio fare su un'indagine a trecentosessanta gradi che poteva spaziare dall'arte al design,
fino all'architettura. Questa visione paritetica è anche conseguenza dell'essere stato, per diversi anni,
il segretario di redazione della rivista Marcatrè, nata nel 1963 a Genova e poi trasferita a Milano,
in cui venivano accostati i diversi linguaggi dell'architettura, dell'arte, del design, della musica,
della letteratura… sotto le direzioni di Portoghesi, Battisti, Carpitella, Calvesi, Eco e Gelmetti,
Sanguineti. L'interesse per la crosspollination tra le arti nasce allora. Quindi la stesura nel 1968
della prima monografia su Marcello Nizzoli – prima artista, poi architetto e designer – risponde
esattamente ai miei interessi di una creatività che spazia su tutto il reale.
Da lì nasce il rapporto con lo Studio
Nizzoli e Alessandro Mendini, che
mi chiama a collaborare a Casabella,
dove per forza contestuale (essendo
una rivista di architettura) mi pongo
il problema di trovare un'osmosi tra
ricerca visuale e progettazione architettonica.
Da quel momento i miei
interessi si intrecciano e il mio lavoro,
sia da storico che da teorico, si
concentra dal 1969 sulla fusione e la
confusione delle arti: dall'Architettura
radicale all'Arte Povera, dalle
analisi tematiche (come "Arte & Ambiente"
del 1976, "Arte & Moda" del
1996, "Arte & Architettura" del
2004), fino a una lettura storica, allargata
e democratica tra le arti come
"Identité Italienne", al Centre Pompidou
di Parigi nel 1981, "European
Iceberg" all'Art Gallery of Ontario
di Toronto nel 1984 e a "Italian Metamorphosis"
al Guggenheim Museum
di New York nel 1994, a "Vertigo,
Arte & Media", al MAMbo di Bologna
nel 2007.
D: Dopo la fase 'calda' dell'Arte Povera
il suo lavoro diviene necessariamente
sempre più complesso, articolato
e 'freddo'. Quali sono i suoi
modelli di comportamento critico
che hanno corrisposto, negli anni,
alle mutate condizioni socio-politiche
dell'arte e della società?
GC: Il mio training di storico dell'arte
è inevitabilmente riflesso nel mio
operare, per cui ho sempre trattato
qualsiasi soggetto d'indagine seguendo
una rigorosa metodologia e
una specifica filologia, così da uscire
da una critica creativa e giornalistica
che non lascia alcun contributo
scientifico e analitico: al massimo un
lavoro autoreferenziale che, sotto
l'ipotesi di scrittura poetica, nasconde
un'assenza di analisi e di interpretazione.
Inoltre mi spinge la coscienza
di un impegno nel 'territorio', trovando
sintonie in un gruppo di artisti
– da Mario Merz a Jannis Kounellis,
da Luciano Fabro a Giulio Paolini,
da Giovanni Anselmo ad Alighiero
Boetti, da Giuseppe Penone a Gilberto
Zorio – per operare su una dimensione
fluida e mobile dell'arte, quella
non irrigidita e statica di una pittura
e di una scultura tradizionali. Al
tempo stesso, il procedere cangiante e instabile dell'Arte Povera, quanto
della Land Art, della Conceptual Art
o della Body Art, su cui organizzo
mostre ed eventi, mi fa comprendere
– stimolato dal lavoro di artisti come
Daniel Buren, Maria Nordman,
Michael Asher e Hans Haacke – che
qualsiasi lavoro in situ o in un contesto
ha una sua logica critica e linguistica.
Da qui nasce il mio contributo
sul linguaggio dell'esposizione
e della mostra: non un piatto display
di oggetti, ma un racconto per immagini
in un determinato luogo e
tempo. Mettendo in pratica quanto
avevo appreso studiando Nizzoli e lavorando
a Casabella, inizio a capire
che il critico o lo storico d'arte – siamo
agli inizi degli anni Settanta –
non sanno 'leggere', né 'gestire' linguisticamente
gli ambienti e le metodologie
espositive: procedono per
frammenti di attenzione agli oggetti
singoli. Comincio allora a collaborare
con architetti, designer e grafici,
per avere un dialogo-controllo sul
"total display" dell'arte. Nel 1976, invitato
come curatore da Pontus Hulten
e da Vittorio Gregotti alla Biennale
di Venezia, insieme a Gino Valle
e Pierluigi Cerri realizzo "Arte & Ambiente".
Da qui dò inizio al mio procedere
espositivo "in collaborazione
con" Gae Aulenti, Jean Nouvel,
Achille Castiglioni, Rem Koolhaas,
Massimo Vignelli, Frank Gehry , Pierluigi
Cerri e Renzo Piano: un passaggio
dall'operare 'caldo' insieme agli
artisti a un esporre 'freddo' insieme
agli architetti. La mostra sul tema
dell'ambiente, dal Futurismo alla
Body art, nasce dal tema della Biennale
– l'environment – per cui la mia
trattazione è nuovamente storica.
Parto dalle ambientazioni dei futuristi
italiani e russi, da Balla a Tatlin
e sviluppo il racconto ambientale
con gli esempi più spettacolari: da El
Lissitzky a Mondrian, da Kandinsky
a Duchamp, da Van Doesburg a Schlemmer
per arrivare agli anni Sessanta
con Fontana, Arman, Warhol e Pistoletto.
Accanto al percorso storico
invito artisti contemporanei come
Nauman, Irwin, Merz, Kounellis, Acconci,
Buren, Asher, Wheeler, Nordman,
Beuys e Palermo a realizzare
un'opera in situ. Tale sistema di presentare
ed esplicare una forte matrice storica al contemporaneo ha segnato
tutte le successive esposizioni
sul tema "Arte & moda, architettura,
media…".
D: Curatore del Guggenheim, direttore
di Fondazione Prada, direttore
per arte e architettura della Triennale
di Milano: come si conciliano questi
ruoli? Quali strutture organizzative
ritiene oggi debba progettare/finalizzare/
utilizzare l'intellettuale
manager, oltre ovviamente al disegno
dei contenuti?
GC: Proprio dal procedere operativo
degli studi di architettura o di design
ho imparato che il lavoro va svolto
in team, che ogni progetto va impostato
e condiviso con una sua specifica
struttura creativa, curatoriale e
produttiva. L'architetto stabilisce le
linee generali del progetto e lo coordina,
controllando il metodo di lavoro
quanto la sua attuazione secondo
la sua visione: lascia al gruppo di
collaboratori il compito di portare
avanti il progetto (con verifiche sistematiche
che comportano a volte
sconvolgimenti dell'idea iniziale) fino
alla sua stesura definitiva e alla
sua concretizzazione. Dal 1989, entrando
come curatore per l'arte contemporanea
nel Solomon Guggenheim
Museum di New York, e dal
1995, diventando direttore della
Fondazione Prada di Milano, ho
sempre applicato questo metodo
'plurilinguistico', in cui le tematiche
e le scelte storiche e artistiche vanno
decise insieme alle persone preposte
all'istituzione: Tom Krens a New
York, Miuccia Prada e Patrizio Bertelli
a Milano, per poi essere concretizzate
attraverso i diversi team di assistenti
curatori e ricercatori. È quanto
succede anche per la Triennale,
diretta da Rampello, per cui ogni
progetto (da Frank Gehry a Milano
a Gio Ponti a New York, oppure alla
Fondazione Emilio e Annabianca Vedova,
da Louise Bourgeois a Emilio
Vedova) si lega a un team di ricerca,
interno all'istituzione, e si espande
a collaboratori specifici per l'allestimento,
la grafica e la comunicazione.
È un'ulteriore messa in relazione
tra linguaggi, che non è praticata nel
mondo accademico e nell'universo
territorio del teorico e dello storico.
L'esperienza del Guggenheim Museum,
diretto da Tom Krens, è stata
determinante perché mi ha insegnato
un allargamento progettuale e
culturale dell'istituzione museale.
Non esiste museo al mondo che riesca
a coprire degnamente la storia
dell'arte contemporanea dal 1968 a
oggi. Il salto di scala, l'entrata in deserti
e paesaggi esterni rendono sempre
più necessario pensare a un allargamento
del territorio museale,
così da includere tanto le sculture
minimal che richiedono ognuna una
sala e le installazioni ambientali,
quanto un ambito espositivo permanente
delle performance. Quest'ultimo
elemento ha ulteriormente allargato,
su stimolo di Marina Abramovic,
il concetto di museo che può
'ripresentare', quindi esporre, gli
eventi corporali: dagli happening alle
azioni gestuali. Detto questo, il
nuovo museo ha bisogno di uno spazio
enorme. Questo si è tentato, all'interno
della strategia del Guggenheim:
'ampliare' il territorio, aggregando
prima Bilbao, poi Berlino
e ora Abu Dhabi. Quest'ultimo museo
raggiungerà un'ampiezza di 50
mila metri quadrati di spazio (vale a
dire cinque Guggenheim Bilbao)
dove si raccoglierà tanto l'arte globale,
includendo le ricerche asiatiche
dal Middle Est alla Cina, quanto
le vicende visive occidentali, dall'Africa
all'Europa e alle Americhe.
Naturalmente esistono alternative a
questo globalismo e gigantismo, che
forse porteranno a una modificazione
dell'identità dei singoli musei,
per farli transitare dalla sua tuttologia
artistica a un proporsi specifico
e unico (come i vecchi musei ottocenteschi
dedicati alle armature, alla
scienza, ai trasporti). Il soggetto dovrebbe
però essere un momento della
storia del contemporaneo, inteso
come spaccato degli ultimi cinquant'anni.
Seguire quindi un filone
e specializzarsi così da diventare la
sede 'assoluta' della Land art, o dei
media, o delle performance o dell'arte
concettuale… Tale focalizzazione
permetterebbe un'unicità che
sarebbe – forse – riconosciuta dal
mondo, senza però dimenticare le
attività temporanee che potrebbero
variare e mantenere attiva l' l'attenzione
sull'istituzione. È quanto si sta facendo
nella Fondazione Vedova, dove
la missione di sollecitare l'interesse
per l'opera di Vedova coincide con
un intreccio di attività che riguardano
i suoi compagni o compagne di
strada, nella storia, da Louise Bourgeois
a Luigi Nono.
D: Dopo la felice definizione di Arte
Povera è diventato molto più difficile
coniare/significare movimenti artistici
con una o al massimo due parole,
come invece accadde per il cosiddetto
Inespressionismo da lei inventato.
Come si orienta nella scelta di
queste definizioni? Quali definizioni
darebbe del momento attuale per le
arti?
GC: A partire dagli anni Novanta, con
la mondializzazione dell'arte qualsiasi
parametro di interpretazione e
di codificazione è saltato, perché le
coordinate si sono dilatate e la conoscenza
in diretta di tutte le ricerche
in corso è diventata impossibile, dovendo
includere, accanto a Europa
e America, la Cina, l'America Latina,
l'India e l'Africa. Pertanto il processo
di divulgazione e di 'registrazione'
che era per 'tendenze' (dalla Pop art
alla Minimal art, dall'Arte Povera alla
Transavanguardia) ha lasciato, a
cavallo del secolo, il passo ai raggruppamenti
nazionali. Ci sono state le
ondate di arte russa, cinese, indiana
e africana, quasi sempre in relazione
all'emergente potere economico del
Paese. Una volta esauriti i 'riconoscimenti'
nazionali, inevitabilmente
l'arte è stata costretta ad affidarsi a
una ulteriore 'valutazione': non solo
astratta, ma concreta e riconoscibile
da tutti, per far emergere i contributi.
Qui i musei e gli storici dell'arte
sono stati esautorati dalle case d'asta,
intrecciate ai valori di mercato, che
nel gioco al rialzo – pilotato o no –
hanno iniziato a dare 'valori' internazionali
che lentamente sono stati
accettati globalmente. La catena dell'arte
è ancora composta da artista,
gallerista, critico e museo, ma la filiera
si è allungata per includere fiere
e aste che 'annunciano' la vera
consacrazione: quella economica.
La 'singolarità' dell'artista, trasformato
in star – da Hirst a Koons a Cattelan
– che, seguendo il pensiero e la pratica di Andy Warhol, è più interessato
ai media e ai business.
È interessante notare che gli stessi
artisti si affacciano ora sul 'mercato',
gestendo le proprie apparizioni in
asta, e speculando sul real estate, come
un agente in borsa, o sull'arte dei
giovani artisti che rappresentano il
futuro della ricerca. Un'autogestione
che dimostra l'estrema lucidità finanziaria
di questi 'investitori' non
solo di immagini, ma anche di fondi
provenienti dall'arte che essi stessi
producono.
All'esplosione individualista dell'arte
corrisponde oggi una pari esaltazione
della personalità del collezionista.
Se prima chi raccoglieva opere
d'arte aspirava a collocarle – come
Rockefeller e Guggenheim, Panza di
Biumo e Lauder – in uno o più musei,
ora gli stessi collezionisti si costruiscono
un museo: che, come Eli
Broad e Dakis Joannou, Pinault e Arnault,
Boros e Rubell, gestiscono curatorialmente
per esaltare le proprie
idee e le proprie scelte, quasi un real
estate dell'arte. La conseguenza è
che i musei cittadini e nazionali subiranno
un depotenziamento sia
economico che patrimoniale, al
punto di non poter sopravvivere senza
il controllo del privato, che li trasformerà
in un'appendice del suo
potere promozionale. I trustee imporranno
allora sempre più i nomi
di artisti che pensano importanti, delegando
ai direttori e ai curatori la
gestione dell'edificio, e la messa in
display delle loro scelte personali, a
volte assolutamente prive di importanza
storica.
In Italia sta succedendo la stessa cosa
in modo meno professionale: il politico
detiene i fondi per la sopravvivenza
e impone sia i direttori sia le
strategie culturali, sempre più locali
perché tese a risultati elettorali, legati
al territorio.
D: Che rapporto ha con le riviste,
non avendo mai voluto dirigerne
una?
GC: Sinceramente ho sempre scelto
di operare in sintonia con le persone
e non con le istituzioni, siano musei
o riviste. Per cui, mettendomi in dialogo
con un referente – col quale
condividere al massimo la passione
o la ricerca – mi è stato difficile pensare
di 'dirigere' una struttura complessa
e articolata come un museo e
una rivista: che richiedono un'attenzione
non solo al progetto, ma all'impegno
quotidiano, secondo tempi
ristretti ed eventi pianificati. Così ho
preferito sempre lavorare al progetto,
cercando di non allargarmi troppo
su mansioni che non conoscevo
e da cui forse sarei rimasto deluso,
perché non corrispondevano alla
mia visione, o meglio alla mia ossessione.
Facendo così, ho potuto esprimermi,
e trovare una mia collocazione
di nicchia: dalle sue diramazioni
ho creato la mia identità, lavorando
in osmosi con direttori di riviste, come
Mendini e Ingrid Sischy, o di musei,
come Hulten e Krens. Al tempo
stesso, la sintonia intellettuale ed
estetica mi ha portato a un intenso
scambio con artisti e architetti con
cui ho condiviso l'aspetto vitale del
laboratorio, soltanto applicandolo al
mio ambito linguistico: la mostra e
il libro costruiti in comune e "su misura"
per ogni singolo creatore.
D: Come interagisce un progettista
d'arte con un progettista di spazi nel
contesto economico di una grande
impresa effimero-culturale (si pensi
al caso Koolhaas-Prada)? E quanto
ha segnato il suo lavoro il rapporto
con un architetto come Gehry, che
per molti aspetti ha contribuito a
lanciare?
GC: Partito da Nizzoli e dall'Arte Povera,
la mia percezione di fare estetico
– sia in architettura che nella fotografia,
nella moda, nel design e
nella fotografia – mi ha portato a essere
'aperto' a tutte le soluzioni plastiche,
funzionali o meno, come a
tutti gli 'strappi' linguistici. Per tale
ragione il mio muovermi è marcato
da personalità come Robert Mapplethorpe
e Piero Manzoni, Joel-Peter
Witkin e John Wesley, Michael
Heizer e Miuccia Prada, Joseph
Beuys e Frank O. Gehry, Emilio Vedova
e Louise Bourgeois, e da giovani
come Tobias Rehberger e Nathalie
Djurberg, Thomas Demand, Tom
Friedman, Francesco Vezzoli, Andreas
Slominski e Carsten Höller. È
sempre stato un intreccio tra linguaggi
e ricerche molteplici. Non
può meravigliare quindi che negli
anni Settanta, vivendo a Los Angeles,
mi sia interessato di Frank Gehry,
per cui ho introdotto e redatto, con
Rizzoli International, la prima monografia.
In Italia ho curato al Museo
di Rivoli la sua prima antologica,
ho collaborato alla realizzazione, insieme
a Oldenburg e Van Bruggen
de Il Corso del Coltello, e a New York
l'ho introdotto presso Tom Krens,
con cui è nata la progettazione del
Guggenheim Bilbao. Frank rappresenta
proprio quella crosspollination
delle forme e delle funzioni, dei
materiali e degli spazi, che si può
considerare l'attitudine fluida con
cui si apre il XXI secolo, ma che ha
anche orientato il mio viaggio di storico
e di teorico, con la soddisfazione
di aver percorso insieme un viaggio,
sul piano dell'amicizia e della
storia.
La familiarità con Gehry e la sua maniera
di 'creare', in sintonia con gli
artisti – da Donald Judd a Richard
Serra a Claes Oldenburg – e di rispondere
alle necessità museali –
con Krens, prima per il Guggenheim
Bilbao, e recentemente anche per
la megastruttura del Guggenheim
Abu Dhabi – mi ha aiutato a entrare
in dialogo prima con Renzo Piano
per la Fondazione Emilio e Annabianca
Vedova a Venezia, e ora con
Rem Koolhaas per la progettazione
dei nuovi edifici della Fondazione
Prada, in largo Isarco a Milano. È
stato un lavoro a mani e a sguardi
incrociati, che comprendono gli
input fondamentali di Miuccia Prada
e Patrizio Bertelli, dove le soluzioni
vengono da uno scambio sulle
reciproche esigenze linguistiche:
che sono le opere degli artisti, la logica
della collezione, la metodologia
espositiva, le risposte progettuali, le
necessità volumetriche e funzionali,
la veicolazione dell'immagine, il
contenimento dei costi, l'innovazione
comunicativa e tutti gli altri elementi
che compongono un risultato
museale, per quanto sperimentale.
Ancora una volta il team funziona,
perché si basa su un'apertura reciproca
ai singoli suggerimenti e alle
specifiche esigenze, per disegnare
un sogno insieme (da una conversazione
con Stefano Casciani)
Germano Celant: Un sogno insieme
Dall'operare 'caldo' con gli artisti all'esporre 'freddo' con gli architetti: un metodo pluri-linguistico.
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- Stefano Casciani
- 09 ottobre 2010
- Genova