A partire dall’Europa, dove si sviluppa nel secondo dopoguerra come linguaggio architettonico in aperta contrapposizione all’estetica del Movimento Moderno, presto il Brutalismo travalica i confini del Vecchio Continente per approdare in paesi lontani e culturalmente molto diversi tra loro esportando quegli elementi concettuali che ne hanno caratterizzato l’immagine originaria, dall’uso di materiali grezzi come il calcestruzzo a vista, alle forme imponenti, alla ricerca della funzionalità piuttosto che dell’estetica. Tuttavia, al di là delle innegabili affinità tra il Brutalismo europeo e quello extra continentale, tra gli anni ’50 e ’70 molti paesi equatoriali vivono – contrariamente all’Europa che si rialzava dalle macerie – un’era di prosperità (America Latina) o di agognata indipendenza dal colonialismo (Asia e Africa), con il risultato di un accentuato entusiasmo creativo forse incentivato anche dalla natura lussureggiante di quelle latitudini e dal clima decisamente più gradevole di quello della fosca Londra. In America Latina i corposi edifici in cemento grigio, avvolti da floridi giardini, a volte sono insolitamente “morbidi”, accoglienti e luminosi, con una maggiore propensione all’estroversione e al contatto con la natura (Lina Bo Bardi, Paulo Mendes da Rocha, Marcos Acayaba, Clorindo Testa, Biselli Katchborian Arquitetos Associados); a volte sono vivacizzati da tonalità accese in contrasto con la consueta monocromia grigia (Ruy Ohtake). In Asia e in Africa, i maestri a livello internazionale esportano il loro consolidato e riconoscibile linguaggio (Le Corbusier, Oscar Niemeyer) mentre architetti locali si cimentano con soluzioni per contrastare situazioni emergenziali (PRISM) o rispondono ad un insopprimibile “richiamo della foresta”, realizzando interventi in totale simbiosi con il paesaggio tropicale (Patisandhika Sidarta). In tutti i casi le opere dimostrano che le architettura brutaliste non sono solo “pesanti” e cupe come i cieli fuligginosi delle metropoli europee ma sono anche l’espressione di un’energia gioiosa e vitale, soprattutto se accarezzate dal fogliame verdeggiante dei tropici.
13 opere di architettura brutalista tropicale
Sotto il sole dei Tropici, il Brutalismo, seppure in continuità con i principi fondativi del movimento, dismette la sua aura grave per abbracciare un linguaggio euforico e in sinergia con la natura.
Foto Fernando Stankuns da CC
Foto Tenerife Tenerife da CC
Foto OfHouses da CC
Foto OfHouses da CC
Foto OfHouses da CC
Foto OfHouses da CC
Invitato dal presidente Houari Boumedienne a progettare due campus – l'Università di Mentouri e l'Università di Scienza e Tecnologia Houari Boumedienne - per rappresentare la visione di un’Algeria moderna dopo la dichiarazione di indipendenza dalla Francia nel 1961 e per promuovere una nuova generazione di accademici, l’architetto brasiliano di fama internazionale si ferma nel paese per diversi anni. L'Università di Scienza e Tecnologia Houari Boumédiène e la Salle Omnisports, conosciuta come “La Coupole” per i Giochi Meditteranei del 1975, con le masse corpose e i colossali spazi aperti riflettono l’entusiasmo dei principi socialisti del tempo, tesi a rappresentare un capovolgimento dell'ordine secolare.
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- Chiara Testoni
- 15 maggio 2022
Il nido d’amore di Lina e del marito Pietro Maria Bardi in Brasile è un cubo in cemento e vetro fluttuante su sottili pilastri in acciaio, ispirato al linguaggio sobrio e razionale del Bauhaus, di Le Corbusier e Mies van der Rohe e immerso in un giardino che, col tempo, si è trasformato in una lussureggiante foresta privata. Nelle sue forme pulite e semplici, l’opera evoca in toto il pensiero dell’architetto, pioniera di un’architettura profondamente in simbiosi con la natura.
La casa per un abbiente committente indiano è una “summa” in chiave tropicale del pensiero del maestro svizzero: l’impianto dall’evidente semplicità strutturale, la plasticità delle forme, i giochi di luci e ombre, i materiali grezzi a vista e l’attenzione al benessere microclimatico - favorito dai giardini pensili e dalle correnti d’aria incrociate - convivono qui con la tipologia tradizionale delle case indiane con ampi soggiorni a doppia altezza.
In un contesto dove la natura pulsa con tutta la sua selvaggia energia, la casa disegnata per sé e per la propria famiglia da Paulo Mendes da Rocha, Pritzker Prize nel 2006, è un imponente ed essenziale volume sospeso sul suolo e sorretto da possenti pilastri in cemento armato, che evoca un rifugio introverso in bilico tra solidità e accoglienza e a cui una coltre di vegetazione rigogliosa fa da protezione.
La casa dei sogni dell'artista nippo-brasiliana Tomie Ohtake, profondamente innamorata dei colori sgargianti del Brasile, è una vera e propria scultura in cemento dalle forme scarne e minimali immersa in un folto giardino. La diffusa monocromia grigia degli involucri strutturali è appositamente concepita per fare risaltare al meglio la ricca collezione di opere d'arte dai toni vibranti e accesi.
Oggi non più in uso, il centro è un’opera da carattere un po’ sgarbato ma insolito e affascinante. L’ edificio, a metà strada tra una piramide precolombiana e un ponte, è un corposo volume antigravitazionale sospeso a 2 m dal suolo e sostenuto da due macroscopiche torri con scale e ascensore situate ai lati nord e sud della struttura, che ospitava spazi espositivi e una sala proiezioni.
Scavata nell’orografia di un sito in pendenza, la casa è totalmente fusa nel territorio. L’accesso avviene attraverso l'unico fronte non interrato, caratterizzato da un’ampia trave ribassata in calcestruzzo a vista che funge da soglia di passaggio tra esterno e interno. Ampi lucernari lasciano filtrare la luce zenitale negli ambienti ipogei mentre una terrazza in copertura, che si relaziona al contesto grazie alle diffuse piantumazioni e allo strato d’acqua, proietta una vista spettacolare sulla città.
Situata a Cidade Jardim, un quartiere residenziale abbiente nel centro di São Paulo, la casa della famiglia Acayaba è un’esuberante dichiarazione d’amore alla natura ed esprime una concezione di abitare caloroso e accogliente. Una avvolgente copertura ad arco in calcestruzzo protegge gli ambienti domestici e incornicia le viste della piscina e dei giardini tropicali, in una relazione percettiva ininterrotta. L’abitazione è oggi ancora di proprietà della famiglia: del resto, chi se ne andrebbe dal Paradiso?
Disegnata a quattro mani dall’architetto e dal committente, il direttore creativo Dan Mitchell, la casa di 500 metri quadrati con tre camere da letto situata in una valle tra le risaie, nel paradiso dei surfisti di Canggu, con le sue ruvide forme in cemento ispirate alle opere di Paulo Mendes da Rocha, le amache, gli arredi e i tessuti locali, i giardini pensili e la flora lussureggiante evoca un dialogo appassionato con il paesaggio tropicale e suggerisce un’atmosfera famigliare e autentica.
Collocato nel quartiere benestante di Jardins a pochi isolati dal più noto MASP (Museo de Arte de São Paulo), il Museo Brasileiro de Escultura e Ecologia è un unico padiglione ipogeo, protetto da una generosa pensilina che copre parzialmente una grande piazza per le esposizioni esterne. Al suo interno, oltre agli spazi espositivi, si trovano sale per laboratori e un café. Sempre per non dimenticare che in Brasile la natura ha lo stesso “peso” culturale dell’architettura, il progetto del giardino è firmato da Roberto Burle Marx.
L'edificio è stato concepito con particolare attenzione alla salvaguardia dello spazio verde e del patrimonio botanico esistenti, tanto che una corposa parte del fabbricato che ospita i magazzini è interrata mentre gli uffici e le sale di accesso al pubblico sono collocati fuori terra. Volumi a sbalzo, strutture poderose e ampie fasce vetrate animano gli imponenti fronti in cemento a vista.
In un paese afflitto da catastrofi naturali, il programma "Cyclone Shelter" messo in atto dalla ONG "PRISM" ha ideato una soluzione per le aree vulnerabili del paese con abitazioni tradizionali inadatte a sopravvivere alle violente tempeste. I centri di sviluppo comunitario e rifugio anti-ciclone nei distretti di Chakaria, Maheshkhali e Kutubdia offrono un riparo alle comunità locali e al loro bestiame in caso di emergenza e, in altre occasioni, ospitano spazi per l'istruzione, la formazione e l'informazione della comunità, in architetture in calcestruzzo grezzo dall’aspetto massivo che accentuano il carattere rassicurante e protettivo delle opere.
La casa addossata ad un ripido pendio nel quartiere di Santo Inácio è una aggregazione di due volumi rigorosi e minimali: quello inferiore cubico rivestito in pannelli di zinco e quello superiore parallelepipedo, in forte aggetto e con superfici cemento a vista, proteso come un cannocchiale ottico verso la foresta circostante.