Dalla notte dei tempi il rapporto con la morte è un tema che attraversa trasversalmente le varie culture. In Europa è con l’editto di Saint Cloud, che dispone la collocazione delle sepolture al di fuori delle mura urbane e ne impone la regolamentazione, che lo spazio cimiteriale diventa una questione di architettura.
Da qui, molti sono i percorsi intrapresi. C’è il cimitero come “città” che, alla stregua delle “città e i morti” di Calvino nelle Città Invisibili, duplica un paesaggio urbano fatto di strade, case, piazze a immagine – o ombra – del mondo dei vivi (Rossi e Braghieri, Chipperfield, CN10 architetti, Scarpa). C’è il cimitero che subordina l’opera costruita al processo di rigenerazione della Natura per cui la morte non è una fine ma un passaggio verso una nuova dimensione (Asplund e Lewerentz, Celsing).
Ci sono i crematori, luoghi che concretizzano il concetto di trasformazione in polvere (KAAN, Ito, Larsen) e i memoriali dove il ricordo trascende il confine individuale per farsi memoria universale (cimitero di guerra).
In ogni caso, resta il comune denominatore di foscoliana memoria per cui, al di là di qualsiasi credo religioso, la morte cede alla vita solo attraverso il ricordo. Perché in fondo, proprio come scrive il romanziere giapponese Haruki Murakami, “la morte non è l’opposto della vita ma parte di essa”.