MASS Design Group racconta i suoi dieci anni di pratica e ricerca in occasione dell’uscita della monografia “Justice is Beauty”. Tutto è iniziato quando un gruppo di studenti americani di architettura si sono recati in Ruanda per progettare un ospedale nel distretto di Butaro. Il loro primo edificio è presto diventato il modello di riferimento per tutti gli altri ospedali distrettuali del Ruanda. Gli autori Michael Murphy e Alan Ricks hanno parlato con Domus della necessità di ripensare la pratica architettonica e della loro filosofia di un’architettura portatrice di giustizia e dignità.
Nel 2008 eravate un gruppo di giovani studenti di architettura alle prese con le mutevoli condizioni economiche e sociali causate dalla grande crisi economica. Che cosa vi ha portati a Butaro, in Ruanda, e cosa vi ha spinto a continuare a lavorare lì per i dieci anni successivi?
MM: In quel periodo, la figura dello “starchitect” aveva raggiunto il suo apice: l’architettura veniva lodata e replicata, e se ne parlava in un certo modo. Quando abbiamo iniziato a lavorare in Ruanda non avevamo chissà quale intenzione di fondare uno studio o di rivoluzionare l’architettura: abbiamo semplicemente risposto a una disperata richiesta di servizi. Mentre cercavamo di affrontare questo problema attraverso un’unica organizzazione, abbiamo messo in luce una condizione strutturale della nostra industria e del nostro mondo: l’architettura si mette al servizio di pochi, eppure c’è sempre più bisogno di un’architettura che serva una porzione molto più ampia della società.
MASS Design Group: “L’architettura deve essere il luogo della ricostruzione della comunità stessa”
Michael Murphy e Alan Ricks parlano della monografia “Justice is Beauty”, la prima realizzata da MASS Design Group, in cui mostrano la loro ricerca e la filosofia di un’architettura basata su giustizia e dignità.
Foto Iwan Baan
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- Patricia Theron
- 17 gennaio 2020
In quanto studenti, non avevate una grande esperienza, ma questo appare nel libro come un punto di forza: il fatto di non dipendere da dei precedenti architettonici vi ha permesso di guardare più in là della solita tipologia ospedaliera. Lo descrivete come un processo di “disapprendimento”.
AR: Aree come quella dell’assistenza sanitaria sono viste come contesti in cui si può intervenire solo se si possiede un’esperienza approfondita, maturata nel corso di decenni, e che segue l’evoluzione del design sanitario occidentale. Ci si deve però interrogare su questa evoluzione, e chiedersi se questa sia la soluzione migliore anche per dei luoghi, tempi e climi diversi dai nostri. E anziché ripartire da zero, bisogna chiedersi quale potrebbe essere la prossima evoluzione.
Fin dall’antichità si discute di conoscenze architettoniche. L’architetto è il responsabile del progetto edilizio, e lavora assieme a degli artigiani. A Butaro non disponevate di un catalogo di prodotti, ma avete lavorato in stretta collaborazione con una rete di artigiani, i quali conservano e trasmettono le loro conoscenze attraverso le corporazioni locali. Che cosa vi ha dato in più questo modo di agire?
AR: Penso che avere meno opzioni ci abbia permesso di soppesare più attentamente le nostre decisioni, e questo ci ha portati a vedere più chiaramente tutto il processo: da dove provengono i materiali? Dove vengono estratti? Come vengono prodotti, fabbricati, trasportati? Chi li assembla? Quante decisioni vengono prese nel corso dell’intera catena di fornitura, e come possiamo sfruttare al meglio queste opportunità?
MM: È tanto tempo ormai che si sta lottando contro questa feticizzazione dell’architettura e del nostro “lavoro” in senso marxista. L’iper-ottimizzazione è ormai diventata un obiettivo in sé. Il mercato neoliberale del capitale dell’architettura ci costringe a considerare l’entità dei nostri lavori solo in base all’efficienza e all’ottimizzazione, mentre in Ruanda e in altri progetti ci siamo accorti che il ruolo dell’architetto sta più nell’iper-attenzione e nell'attenuazione della narrazione del luogo. Questo ci ha portati a chiederci che cosa le decisioni prese in un luogo iper-localizzato possano insegnarci riguardo alla mancanza di attenzione verso l’ambiente edificato in tutto il mondo.
Dobbiamo cambiare il modo in cui lavoriamo, per mettere il beneficio pubblico di nuovo al centro delle nostre attenzioni, invece della massimizzazione del profitto o del capitale
Subito dopo aver riconosciuto la necessità di nuove modalità di pratica, avete sentito il bisogno di progettare la vostra. Avere un’azienda di architettura no profit vi ha permesso di fare le cose in maniera diversa?
MM: Il business dell’architettura è nel pieno di una sorta di riconsiderazione esistenziale. È chiaro che non si sta facendo abbastanza per tutti quelli che necessitano di aiuto, c’è un sacco di design scadente nel nostro ambiente costruito, ci sono implicazioni ambientali e sociali derivate da una mancanza di attenzione nei confronti del nostro ambiente costruito e sempre meno architetti vengono assunti poiché le carenze nei sistemi di ottimizzazione coordinata limitano sempre di più la figura dell’architetto. Tutto ciò sta avendo degli effetti particolari sul nostro ambiente costruito. E quindi dobbiamo cambiare il modo in cui lavoriamo, per mettere il beneficio pubblico di nuovo al centro delle nostre attenzioni, invece della massimizzazione del profitto o del capitale. È per questo che stiamo suggerendo agli studi di effettuare dei cambiamenti, e abbiamo trovato anche un modo per farlo.
AR: Una delle cose che più ci preoccupano è la quasi mancanza di attività di Ricerca e Sviluppo all’interno del settore dell’architettura, e perché è così? Perché non ci sono soldi con cui sovvenzionare la R&S, che è quindi limitata al mondo accademico, dove si stanno studiando nuove tipologie e tecnologie, che però possono essere usate nella pratica perché sono ancora puramente teoriche. Quindi tutti I lavori che riusciamo a finanziare filantropicamente sono un modo per fare quella ricerca necessaria a dimostrare il valore che l’architettura può ancora creare.
La prima scuola di architettura in Ruanda è stata fondata più o meno nel momento in cui MASS ha iniziato a lavorare nel paese. Quali sono i cambiamenti a cui avete assistito, mentre contribuivate alla crescita della comunità architettonica in Ruanda? Questo ha avuto un impatto più ampio?
AR: Io andrei ben oltre l’architettura: negli ultimi dieci anni moltissimi giovani talenti creativi hanno dato vita a nuove industrie, non solo per quanto riguarda il campo dell’architettura, ma anche per quanto riguarda l’arte, il teatro, la musica, la moda, la fotografia, il cinema e il cibo. E tutto ciò estremamente stimolante, soprattutto se pensiamo che la maggior parte di queste persone hanno meno di 25 anni. Proprio negli ultimi cinque anni tantissimi di questi artisti, architetti e registi hanno cominciato a viaggiare in tutto il mondo per fare conoscere il loro lavoro, e c’è un mercato sempre più internazionale anche nel settore del design: vengono organizzati concorsi internazionali in Asia, in Europa, in diverse parti dell’Africa e degli Stati Uniti, e tutti vogliono lavorare in Ruanda. David Adjaye e Norman Foster si trovano in Ruanda in questo momento – Questo è il tipo di opportunità che stiamo offrendo alla gente del posto: il Ruanda è diventato una fonte di innovazione, un luogo dove si continuerà a costruire per i prossimi 50 anni.
Questa monografia è una riflessione su dieci anni di progetti, e anche su dieci anni di attività pratica in Ruanda. Il Ruanda è in ricostruzione da 25 anni. La narrazione che sta guidando lo sviluppo della più grande città del Ruanda, Kigali, per renderla una città pulita, verde, futuristica e intelligente, ha un approccio molto diverso rispetto al modo in cui i vostri progetti sono concepiti – Queste due visioni differenti sono mai entrate in conflitto?
AR: Penso che la costruzione di edifici e il pianeta siano necessariamente in conflitto. È qualcosa di semplicemente intrinseco. È praticamente impossibile lasciare un’impronta positiva sul clima e sul pianeta, quindi penso qualsiasi progetto di rapido sviluppo, che sia a Kigali o in qualsiasi altro luogo, porti con sè una tensione significativa. È facile farsi un’idea di quanti danni hanno causato le società occidentali in tutto il mondo, per poi attribuire tutta la colpa ai paesi in via di industrializzazione e in rapido sviluppo – perciò sono molto riluttante a farlo. I governi che propongono iniziative basate su dei principi “sani”, che mirano a una riqualificazione e a una riforestazione che sia ecologicamente sostenibile, stanno cercando di mettere in atto alcune di queste politiche molto prima rispetto agli Stati Uniti, quindi non mi sento assolutamente nella posizione di criticarli.
La monografia si conclude con un’immagine della Grande Moschea di Djenné in Mali e un’altra della Capanna del Re in Ruanda. Avete usato queste immagini per dimostrare che, rivelando la vulnerabilità dell’architettura, se ne esplicita la dipendenza dalla società.
MM: La Grande Moschea e la Capanna del Re ci rivelano un modo di costruire che è indissolubilmente legato alle persone che lo realizzano; infatti la loro architettura e la loro forma dipendono anche dal processo di costruzione e di ricostruzione. Più ottimizziamo e rendiamo efficiente il bisogno di architettura, più fingiamo che l’architettura possa vivere in modo permanente, congelata nel tempo. Invece, la Grande Moschea di Djenné richiede una manutenzione regolare e rituale ogni anno: la sua bellezza non risiede solo nella forma, ma anche nel processo di ricostruzione che vi è dietro. L’atto collettivo di ricostruzione rafforza l’identità della comunità. Le comunità e le loro infrastrutture sono necessariamente collegate, e quando le scolleghiamo, quando diciamo che si può disegnare un progetto senza considerare anche le persone che abitano quel luogo, dimentichiamo tutta la profonda conoscenza storica che ci abbiamo alle spalle, dimentichiamo il modo in cui sono nate le società. L’architettura deve essere il luogo della ricostruzione e della ritualizzazione della comunità stessa.
Cosa volere trasmettere alle future generazioni di giovani architetti che vogliono ripensare questa professione?
MM: Il modello di business dell’architettura deve essere costantemente ridefinito e ridisegnato per sfidare il suo modo di operare. In quanto architetti, è nostra responsabilità servire il beneficio pubblico. Direi che quasi tutti gli architetti che ho incontrato hanno scelto di fare questo lavoro perché vogliono fare qualcosa di buono per il mondo: influenzare la società che li circonda, essere parte della condizione mutevole ed evolutiva della sfera pubblica. E penso che questa pulsione debba essere presente nel cuore di chiunque voglia diventare architetto. Abbiamo bisogno di più persone come loro, per influenzare positivamente il mondo dell’architettura e trasformarlo in qualcosa di nuovo.
- Justice is Beauty
- Michael Murphy e Alan Ricks, MASS Design Group
- Chelsea Clinton
- Iwan Baan
- The Monacelli Press
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Butaro Hospital, Butaro District Hospital.
MASS, Butaro Doctors Sharehousing.
MASS, GHESKIO TB Hospital.
MASS, Umubano Primary School.
MASS, Mubuga Primary School.
MASS, Maternal Waiting Village.
MASS, UGHE (University of Global Health Equity).