India urbana: gestire l’impazienza del capitale globale

L’osservazione della forma fisica delle città indiane è lo strumento adottato da Mehrotra per esemplificare lo scontro tra due retoriche politiche contrapposte: costruire una città globale oppure equa e sostenibile.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1054, febbraio 2021.

La situazione urbana contemporanea in India simboleggia le due transizioni che sono in gioco nel panorama politico: uscire dal socialismo ed entrare nel capitalismo, ovvero dall’immaginazione della città controllata dallo Stato alla produzione dell’ambiente costruito basata sul libero mercato. Esito di transizioni che spesso sono in gioco da decenni in India, l’ambiente costruito è semplicemente un pasticcio nel quale le problematiche di ciascuna condizione trovano espressione nella forma fisica della città. Fratture nel tessuto e accostamenti sorprendentemente bizzarri caratterizzano la città, che evolve mentre queste narrazioni si scontrano nello spazio urbano. Le due narrazion o retoriche politiche che si contrappongono sono “costruire una città globale” (assecondare cioè l’impazienza del capitale globale) e sviluppare una città basata sulla promozione di una società civile equa in termini di accesso ai servizi. Nel primo caso, il motore è l’impazienza del capitalismo, mentre sono gli interessi privati di multinazionali e imprenditori del settore e, sempre più spesso, dello stesso Stato indiano, a definirla. La seconda narrazione deriva dalla società civile: gli intellettuali, le organizzazioni non governative, le fondazioni, le istituzioni, i sindacati e tutte le associazioni in cui il capitale è paziente, così da consolidarsi e svilupparsi in modi più inclusivi.

Anche l’armamentario materiale di queste opposte aspirazioni urbane è profondamente diverso. Nel primo caso, è necessario preparare il terreno per consentire al capitale un atterraggio morbido e sicuro. Ciò si traduce nella predisposizione di un kit di strumenti standard: aeroporti, autostrade, hotel a cinque stelle, centri congressi, metropolitane e sistemi ferroviari sopraelevati, cui fa seguito la conservazione degli edifici storici (per affermare l’identità locale) e il riordino generale del paesaggio stradale. In questa configurazione, i ricchi si ritirano in comunità recintate possono prendere la forma di torri verticali in centro o di complessi suburbani sempre più estesi. In realtà, in entrambi i casi, finiscono per isolarsi dalla città.

Peter Bialobrzeski, Mumbai 2017, immagine tratta dal libro No Buddha in Suburbia, Hartmann Books, 2019

L’architettura prodotta da questo atteggiamento mostra spesso un totale distacco dall’ambiente circostante, nonché dal luogo e dalla comunità in cui si colloca. Inoltre, la sua qualità tettonica e i suoi materiali spesso non tengono conto delle risorse e delle consuetudini edilizie locali. Tale produzione architettonica di solito è una risposta rapida alla richiesta di progetti infrastrutturali su larga scala (come alloggi per la fascia ad alto reddito, ospedali, scuole, college e aree commerciali) che consentono la partecipazione privata in settori altrimenti ampiamente controllati dal Governo. Cosa ancora più importante, questa forma di architettura globale prospera basandosi sulla sua presunta capacità di fornire servizi prevedibili e stabili per un capitalismo impaziente alla ricerca di un terreno in cui investire per realizzare rapidamente il proprio valore. L’altro paesaggio che sta emergendo in India è un progressivo vuoto, conseguenza del venir meno dell’intervento pubblico.

Questa città è il risultato della rinuncia da parte dello Stato alla responsabilità di proiettare una “idea dell’India” attraverso l’ambiente costruito o fisico. Oggi, i principali progetti di infrastrutture controllati dalla pubblica amministrazione – autostrade, cavalcavia, aeroporti, reti di telecomunicazioni e reti elettriche che collegano i territori urbani – non contribuiscono a determinare o guidare la conformazione fisica delle città come, invece, i piani generali avevano fatto nell’economia (socialista) diretta dallo Stato, i quali almeno aspiravano a creare il diritto all’alloggio e la vicinanza al lavoro. Lo spazio del quotidiano è diventato così il luogo dove si manifestano le difficoltà economiche e culturali della maggioranza della popolazione; la forma fisica che assume è quella di un bazar o di una città informale. Questi sono i paesaggi degli insediamenti autocostruiti – spesso identificati con il termine di baraccopoli – o delle periferie che crescono fuori dal limite urbano formale controllato dallo Stato. Allo stesso modo, le oltre 400 città indiane che nei prossimi due o tre decenni sono destinate a diventare centri urbani con quasi un milione di abitanti (e forse di più) stanno producendo forme di urbanistica che esulano dal dibattito generale sull’architettura o sulla pianificazione.

Peter Bialobrzeski, Mumbai 2017, immagine tratta dal libro No Buddha in Suburbia, Hartmann Books, 2019

Questo paesaggio emergente è l’immagine della condizione urbana in India. Le processioni, i matrimoni, i festival, i venditori ambulanti, le bancarelle e gli abitanti dei bassifondi creano un paesaggio stradale in continua trasformazione: una città in movimento dove il tessuto fisico è caratterizzato dagli elementi cinetici. Rappresentarsi non dipende dall’architettura: in questa “urbanistica cinetica”, essa non è l’unico ‘spettacolo’ su cui la società fa affidamento per esprimere le proprie aspirazioni, e non comprende nemmeno l’immagine dominante della gran parte delle città indiane. Al contrario, festività come Diwali, Dussehra, Navratri, Muharram, Durga Puja, Ganesh Chaturthi sono emerse come spettacoli rappresentativi dell’India di oggi. La loro presenza nel paesaggio quotidiano pervade e domina la cultura visiva popolare delle città e dei paesi indiani.

A questa immagine si contrappone un nuovo panorama di derivati globali o immagini della globalizzazione. È un’ironia che sia stata la collusione tra mercati fondiari consapevolmente disfunzionali, progettazione e pianificazione esclusive su più scale a creare il tessuto profondamente contestato dell’India urbana contemporanea: è interessante notare, infatti, come in questa condizione sia le comunità ricche sia quelle povere siano riuscite non solo a sopravvivere, ma a prosperare. Tuttavia, questa realtà è messa alla prova dall’immagine ideale di città di livello mondiale e libera da baraccopoli. Il Governo e le istituzioni finanziarie spesso promuovono questa visione sulla base di un apprezzamento poco informato di realtà come Singapore, Dubai e Shanghai – i paradisi dell’impazienza capitalista calati in paesaggi politici autocratici, città in cui gli esseri umani, in particolare i poveri, non sono nemmeno considerati nel disegno della superficie fisica che abiteranno. In una democrazia, i cittadini devono al centro di ogni immaginario della città.

Una città umana e sostenibile deve basarsi sull’accesso alle infrastrutture di base e ai modelli di mobilità che determineranno il modo in cui essa cresce. Nelle democrazie, le città devono essere giudicate in base a come trattano i loro abitanti meno abbienti. L’atteggiamento che si adotterà nei confronti della costruzione della città sarà centrale nella discussione sul futuro dell’India urbana: costruire città eque o essere vittima del’impazienza del capitalismo.

Rahul Mehrotra (New Delhi, 1959) è architetto, urbanista e docente. Nel 1990 ha fondato RMA Architects. Si divide tra il lavoro a Mumbai e Boston e l’insegnamento alla Graduate School of Design dell’Università di Harvard, dove è presidente del dipartimento di Pianificazione e progettazione urbana e John T. Dunlop Professor in Housing and Urbanization. Il suo libro più recente Working in Mumbai (ArchiTangle, Berlino 2020) è una riflessione sulla sua pratica di architetto e urbanista.

Immagine di apertura: Peter Bialobrzeski, Mumbai 2017, immagine tratta dal libro No Buddha in Suburbia, Hartmann Books, 2019