Fra i nuovi filosofi Italiens de Paris come Michele Spanò o Caterina Zanfi, Emanuele Coccia è il più anticlassico: insegna all’École des hautes études en sciences sociales ma tiene seminari e conferenze sulla moda o sulle piante. Pubblica i propri libri in prima edizione nella prestigiosa collana “Bibliothèque Rivages” diretta da Lidia Breda accanto a quelli di Giorgio Agamben, che è stato suo maestro, e di altri classici (Jean-Luc Nancy, Günther Anders, Hans Jonas) ottenendo subito traduzioni in più lingue. Durante la quarantena c’è stata una sorta di competizione nell’organizzare dirette Instagram con lui da parte di riviste e istituzioni, tanto che riusciamo a parlarci solo di sabato mattina, mentre esce a fare una passeggiata, “è più bello fare un’intervista sull’architettura passeggiando in città che in casa”. Ultimamente ha scritto un saggio dove tratta specificamente il tema della casa. Secondo lui il virus corona “ha costretto l’umanità ad avviare uno strano esperimento di monachesimo globale: siamo tutti anacoreti che si ritirano nel proprio spazio privato e trascorrono la giornata intenti a bisbigliare preghiere secolari. […] Tutto è diventato casa. Il che non è necessariamente una buona notizia. Le nostre case non ci proteggono. Possono ucciderci. Si può morire per eccesso di casa”. Massimo Cacciari è andato oltre, affermando che “la casa è un inferno”, mentre Coccia parla di violenza della casa, spostando l’attenzione sugli oggetti più che sullo spazio interno dell’architettura. “Abitiamo veramente solo gli oggetti. […] Gli oggetti ci impediscono di scontrarci con la superficie squadrata, perfetta, geometrica. Gli oggetti ci difendono dalla violenza delle nostre case”.
In generale in cosa consiste la violenza delle case?
Credo che ci sia un malinteso profondo sulla natura della casa e almeno due forme di violenza. La prima è nell’insistere a voler considerare la casa solo come un fatto spaziale, quando invece è in prima istanza un fatto morale. La casa è l’investimento in una parte di mondo che abbiamo eletto a produttrice di felicità, non è solo un’architettura e non è nemmeno personale perché investe i nostri cari. La felicità non è un fatto psicologico: o cambi il tuo mondo o perisci. L’architettura pensa che sia sufficiente una manipolazione dello spazio per ottenere la felicità, ma non è così. Ad esempio gli oggetti ti ricordano che la casa non è un mero involucro, ma un insieme di ingredienti morali che possono rendere la felicità possibile, di certo non solo un parallelepipedo come ancora viene immaginato e realizzato il 99% delle abitazioni. Rispetto a chi pensa sia solo una questione di geometria euclidea o di funzionalità c’è molta strada ancora da fare.
La dimensione monastica è alla base dell’architettura moderna, visto che Le Corbusier pensò per la prima volta alla machine à habiter visitando nel 1907 le celle in serie della Certosa di Ema al Galluzzo, poco fuori Firenze. Come superare questo modo convenzionale di concepire l’abitare dunque?
È complicato, ma pensiamo al pensiero urbanistico che è così ricco e articolato, la letteratura in merito ormai è enorme, però la riflessione sulla casa cioè sul come vivere insieme ad affetti e ad oggetti che si prendono reciprocamente cura gli uni degli altri, insomma la riflessione sull’eros come legame che struttura il mondo materiale e non solo quello sociale è pari a zero secondo me. Il grado di grossolanità con cui questo tema viene affrontato, quando non viene totalmente eluso, diventa violenza. Ad esempio, chi ha deciso che c’è bisogno di una sola stanza da letto per una coppia e perché? Perché dobbiamo adeguare gli affetti alle geometrie piccolo-borghesi delle case e non disegnare le case in funzione degli affetti, senza smettere mai di cambiarle mentre le abitiamo? Il problema delle nostre case è che riflettono un universo morale passato ormai divenuto impossibile (l’ideale romantico ottocentesco). Le alternative a queste violenze convenzionali non sono molte: Charles Fourier con i suoi falansteri, qualche utopia sociale realizzata come, in parte, i kibbutz. Ma si sbaglia a pensare che sia una questione di utopia: per migliorare le case serve soprattutto una nuova educazione sentimentale, che permetta di pensare che l’amore per gli altri e per le cose è una forma di studio che deve durare anni. Il nostro problema è che ci fermiamo all’innamoramento e non proviamo mai a immaginare che cosa significa condividere una vita con qualcuno per anni. Ma senza questo è difficile rendere le case e le città dei posti davvero vivibili. Siamo analfabeti sentimentali, magari con una valida educazione sessuale, ma totalmente sbilanciati.
Io penso che la crisi della socialità fosse presente già da prima dell’emergenza del virus, penso agli assurdi divieti di giocare a pallone nelle piazze italiane o di mangiare un panino ai giardini comunali... è un discorso lungo, ma certo la vita nelle città è sempre meno tollerata ovunque.
Sì, l’urbanistica si trova a dover comporre situazioni mostruose perché le persone non riescono più a stare insieme, la città, specie quelle più piccole, diventano lo scarico delle frustrazioni personali. Per questo ogni metropoli è bella, perché è sempre disponibile ad accoglierti e assorbirti, salvandoti dall’inferno della casa.
Mi sembra di capire che l’architettura sta ora entrando al centro dei suoi interessi.
Sì, è così, l’anno scorso ho collaborato con i LAN (Benoit Jallon e Umberto Napolitano), ora sto curando un libro di Stefano Boeri che uscirà in francese, sto scrivendo sull’opera del paesaggista Bas Smets e anche un nuovo libro per Einaudi sulla casa. In realtà quando avevo 14 anni andai a trovare una mia zia architetto e in casa sua in Sicilia ho scoperto e letto tutto Bruno Zevi, un’esperienza fondamentale, ricordo ancora la copertina con la casa sulla cascata, l’architettura organica, il codice anticlassico e tutto il resto.
Nel 2015 nasce sua figlia. Da allora qualcosa nella sua produzione cambia, comincia una indagine del mondo nei suoi aspetti più mondani come l’architettura e l’universo delle piante.
Certo la nascita di mia figlia è stato un momento importante, però non è che prima rifiutassi il mondo, diciamo che pensavo fosse necessario guardarlo da più lontano. Ho trascorso tanti anni nelle biblioteche e negli archivi, che sono una sorta di soffitte, o di pattumiere se preferisce, piene di scampoli, di resti di vite altrui di cui vestiamo gli abiti… in fondo nasciamo tutti in queste soffitte piene di abiti usati, libri e mappe incomprensibili, dopodiché a un certo punto troviamo la porta per uscire. Passiamo tutti molto tempo in questi spazi (i pregiudizi sono in fondo forme orali di questi archivi) perché è solo cosi che ciascuno trova la sua strada.
Il suo ultimo libro invece, Métamorphoses, mi pare sia quello che più le somiglia biograficamente in questa sua metamorfosi disciplinare e personale.
Sì è senz’altro quello che si avvicina di più a come mi piacerebbe scrivere, in questo senso è quello che mi somiglia di più e dove tutto partecipa di un’unica vita, la filosofia, l’arte, l’architettura, concorrono tutte alla vita che viviamo, per cui il sapere è ovunque e la filosofia si può fare con tutto, anche con la moda e la pubblicità.
In La vita delle piante, lei ringrazia Gilles Clément, con il quale si è confrontato personalmente in più di un’occasione anche pubblicamente: per questo le chiedo quanto è stato travisato Clément come filosofo e lei invece come botanico?
Tantissimo, ma il fraintendimento è naturale: il sapere puro, senza informazioni sulla sua origine o la sua natura, è sempre una sfinge vale a dire un enigma inafferrabile che chiede di essere seguito alla lettera e che promette l’eternità o la morte. Per questo ogni volta si cerca di esorcizzarlo dandogli un volto riconoscibile, per neutralizzarlo e evitare che suoni come terribile. In ogni caso la divisione delle discipline (la differenza tra botanica e filosofia per esempio) è una fede per bigotti.
Ha collaborato anche con istituzioni artistiche prestigiose, come dobbiamo considerare il sistema dell’arte, un mondo di erbacce o di coltivazioni intensive?
Ho collaborato con la Fondation Cartier per la mostra sugli alberi e ora ho due progetti con il Palais de Tokyo, sto scrivendo il catalogo di una mostra di Philippe Parreno e dovrei collaborare anche con Graziani in futuro, leggo però in questa domanda un sottile intento polemico… direi né l’una né l’altra: il sistema dell’arte è una foresta, piena di tesori e di parti meno vitali come tutte le foreste con tutta la biodiversità del caso. Certo ci sono degli eccessi, ma non c’è mai stato nella storia un numero così alto di persone che vivesse di questo mondo, e tutto ciò è anche bello.
Immagine di apertura: Luiz Zerbini, Lago Quadrado, 2010 esposto alla mostra Trees presso la Fondation Cartier, Parigi, 2019