Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 965, gennaio 2013
Il Parrish Art Museum di Herzog & de Meuron tratteggia un'immagine forte: due tetti a doppia falda uniti, forme estruse di un'inconsueta lunghezza, si stagliano contro un pittoresco sfondo campestre. Avvicinandosi in diagonale lungo la Montauk Highway a Southampton, nello Stato di New York, la struttura appare come una stridente astrazione, tanto che risulta difficile non essere d'accordo con Jacques Herzog quando afferma che il Parrish ha più a che fare con "la morfologia tradizionale del terreno" che con l'architettura contemporanea.
L'immediatezza dell'immagine ha portato alcuni commentatori, che non hanno visitato l'edificio, a ritenere che si tratti di un progetto frettoloso e a concludere che non meriti un'analisi più approfondita. Tuttavia, il modo in cui il Parrish accoglie e insieme rovescia le reazioni più superficiali — il che senza dubbio accade, quando è visto di persona — rappresenta, invece, uno dei suoi aspetti più sorprendenti. Come racconta Herzog, il Parrish Art Museum "sembra inizialmente un readymade": una forma iconica vernacolare, arruolata al servizio dell'architettura. Secondo l'architetto svizzero, se le sue foto "fanno sorgere la domanda: 'È o non è convenzionale?'", una visita all'edificio "fornisce la risposta: 'No, non lo è'".
Il Parrish mette in discussione "le costruzioni esageratamente iconiche: quelle pensate per apparire sulle riviste, dove conta solo la forma". Ancora più notevole è il fatto che — nonostante lo scetticismo di Herzog riguardo al modo in cui l'architettura incontra la carta stampata — lo stesso ribaltamento delle attese abbia luogo attraverso un attento esame delle piante del museo.
Parrish Art Museum
Il nuovo museo di Herzog & de Meuron accoglie — e poi ribalta — le prime superficiali impressioni, esprimendo così un'implicita critica all'assillo dell'architettura contemporanea per le forme decisamente iconiche.
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- Matthew Allen
- 28 gennaio 2013
- Water Mill
Avvicinarsi a un edificio attraverso le sue riproduzioni prevede naturalmente una sorta di attività investigativa, un'attenta lettura di foto, disegni, sezioni e così via — il che, per alcuni progetti, rappresenta uno sforzo maggiore di quanto non meritino, e non deve perciò sorprendere che molti non vi s'imbarchino, se non adeguatamente stimolati. Il Parrish fa decisamente poco per consentire una naturale transizione dall'immagine complessiva dell'edificio a una valutazione dell'organizzazione dei suoi spazi interni. Gli manca, per esempio, l'aggancio' materico delle pareti di sassi della Dominus Winery (altro contenitore basso e allungato) che richiama, anzitutto, l'occhio del lettore ai dettagli della facciata e, solo in un secondo tempo, all'interno, per scoprirne le ripercussioni. Questo senso della misura è, a tutti gli effetti, una delle migliori qualità del Parrish: sia all'interno sia all'esterno, il suo minimalismo formale è sottolineato da una tavolozza di materiali soggetta a un controllo talmente preciso da non aver bisogno di alcuna 'finitura' supplementare. Una conseguenza di questa essenzialità è che corre il rischio di essere (mal) interpretato come un edificio riducibile a un'icona formalista, una struttura agricola bella e pronta.
Converrebbe, perciò, trascurare le aspirazioni degli architetti e provare a vedere il museo come una serie di decisioni progettuali, o anche come parte di una conversazione sull'architettura e la sua storia. Supponiamo che si decida di progettare il Parrish come una forma estrusa ancora più semplice: se, per esempio, l'edificio avesse un singolo tetto a spioventi? Ci potrebbero essere delle ottime ragioni per adottare una simile soluzione — ed esiste uno schizzo che suggerisce come questo sia stato il primo impulso. Passando a una prospettiva storica, Colin Rowe ha osservato come, mentre a metà del secolo scorso l'architettura emergeva dal modernismo ortodosso, si sia manifestato il bisogno psicologico di spazi ampi, singoli e centralizzati — come, per esempio, cupole e volte —, soluzioni concepite per bilanciare la supposta 'neutralità' della pianta libera con la sua selva di colonne. Tuttavia, la pratica ha dimostrato che tali spazi singoli spesso si sottraggono alla funzione. Nel caso di un'estrusione — una singola 'cellula' spaziale lineare—, i problemi potrebbero essere l'impasse di una composizione ridotta a un'infilata di spazi espositivi, o suddivisioni maldestre, tali da violare la forma a timpano della copertura.
Il Parrish Art Museum unisce un tetto di produzione industriale a spazi finemente modellati
La mossa successiva potrebbe essere il raddoppiamento del tetto, per creare due estrusioni adiacenti. Ciò consentirebbe di suddividere gli spazi in stanze della misura appropriata sul lato minore, ma non di ottenere la circolazione lungo quello maggiore senza sottrarre spazio sotto uno dei due tetti. A questo punto del processo progettuale è stata introdotta una soluzione ingegnosa: permettere alle coperture di sovrapporsi al centro per dare origine a una terza campata e, trasversalmente, al ritmo complessivo a-b-a. Il risultato sono due identiche campate all'esterno, con uno stretto corridoio centrale, che percorre l'intera lunghezza dell'edificio, e suddivisioni localizzate in ambienti di lunghezze diverse. La scelta, inoltre, dà luogo a una certa ambiguità riguardo all'idea di centralità. Centri locali vengono a crearsi nei punti di minore altezza, in cui le falde dei tetti s'incrociano, ma tali nuclei sono indeboliti dalla forza di attrazione dello spazio verso le campate esterne più alte. In questo modo, il Parrish fluttua tra l'essere spazialmente lineare, centralizzante e periferico.
In pianta, la sua organizzazione è, allo stesso modo, un'abile combinazione tra la singola cellula spaziale e la plasticità della pianta libera. Il volume sotto il tetto risulta modellato da un'alternanza di pieni e vuoti, creando così una serie di punti focali: ingresso, gallerie, uffici. A un certo punto, raggiunto l'auditorium, la massa solida della partizione si stacca dal tetto a rivelare la logica separazione dei due sistemi formali.
Dovremmo, forse, leggere il desiderio degli architetti di "concentrarsi sull'esperienza" come un approccio non dogmatico e formalmente promiscuo al progetto. Il Parrish, infatti, non aderisce a un singolo sistema formale: sembra piuttosto un'accorta combinazione di sistemi studiata ad hoc. È lineare e centralizzato e periferico. Sfrutta le singole cellule spaziali e la plasticità della pianta libera. Combina un tetto di produzione industriale e, sotto, episodi spaziali finemente modellati.
Nella pratica, concentrarsi sull'esperienza si traduce, di solito, in pura e semplice irregolarità. È stata un'importante scoperta del pittoresco: edifici simili a collisioni di volumi irregolari producono una visione varia e piacevole. Il principio è non consentire una lettura in chiave Gestalt di una forma forte, che intralcerebbe un dispiegarsi non predeterminato dell'esperienza.
Herzog & de Meuron, invece, fanno affidamento su una strategia più rischiosa: il progetto ha bisogno di un'iniziale lettura in chiave Gestalt — l'estrusione iconica collocata nel paesaggio — allo scopo di sovvertirla, creando un senso di sorpresa alla scoperta di un'architettura che non è riducibile a una semplice figura. È insieme una forma forte e un'esperienza che non possono essere ridotte solo a questi termini. Questa sorpresa, di certo, si ha visitando il museo. Ma è doppia quando nasce dalle pagine di una rivista e dai disegni — ed è qui che il Parrish Art Museum colpisce veramente nel segno.
Matthew Allen. Architetto e scrittore