A Los Angeles non piove spesso. Quando succede chi ci abita reagisce come se Noè gli negasse l'ingresso nell'Arca: "Addio, mondo crudele! Me ne sto a casa a mangiare scatolette!". In questo senso mi sento fortunata ad aver visitato la mostra Sympathetic Seeing: Esther McCoy and the Heart of American Modernist Architecture and Design in una piovosa mattinata di Los Angeles. Per almeno un'ora ho avuto la fortuna di passeggiare per il MAK Center for Art and Architecture presso casa Schindler (lo spazio che Rudolph M. Schindler si costruì nel 1922 come abitazione personale e studio nella parte occidentale di Hollywood) con l'indisturbata compagnia degli articoli, delle lettere, delle citazioni, della narrativa e dei frammenti di memoria di Esther McCoy. Con tutta la casa per me ho trovato le riflessioni di McCoy sull'architettura e gli architetti (che troppo spesso sono fredde e tecniche) tanto più intime e animate dalla sensibilità che McCoy metteva nei suoi testi.
Sympathetic Seeing, a cura di Kimberli Meyer e Susan Morgan, è la prima mostra a fare la cronistoria della vita e del lavoro della scrittrice, giornalista, militante ed ex disegnatrice di Schindler. Per quanto convincente, la mostra rimane abbastanza discreta da permettere alle parole di McCoy di parlare da sé. Per esempio i pannelli dedicati alla casa Dodge di Irving Gill, del 1916 (considerata da molti la prima vera casa modernista dell'Ovest degli Stati Uniti), sono costituiti da una serie ben distribuita di lettere, documenti e saggi che dimostrano concretamente la bufera verbale suscitata da McCoy nel tentativo di salvare la casa dalla demolizione (purtroppo nemmeno lei riuscì a fermare le ruspe nel 1970). Nel percorso della mostra la casa Dodge, che sorgeva proprio a un capo della via della casa Schindler, finisce con l'apparire come un'amputazione: oggi non ne rimane traccia, la sua assenza è una presenza enorme.
Sympathetic Seeing: Esther McCoy
Alla Schindler House, una cronistoria della vita della scrittrice del modernismo in America attraverso le sue lettere, documenti, fotografie e saggi.
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- Katya Tylevich
- 03 dicembre 2011
- Los Angeles
Sì, questa mostra è costruita sulla parola scritta di McCoy, e far vedere con le parole è un compito arduo; tuttavia gli elementi visivi della mostra, come le fotografie personali di McCoy, le copie storiche di riviste della fine degli anni Quaranta cui McCoy collaborò, come Living for Young Homemakers, e ovviamente la stessa casa Schindler non fanno che rendere tanto più tangibile e immediato il quadro in cui McCoy si trovò a operare. E mentre, ovviamente, la capacità di McCoy di portare uno sguardo diretto da lettrice su ciò che le stava attorno viene celebrata dalla mostra, la voce fiduciosa della giornalista viene anche abilmente messa in risalto sullo sfondo delle incertezze e delle circostanze angosciose che agitavano il mondo al di là della sua macchina per scrivere.
A 28 anni, nel 1932, McCoy si trasferì a Los Angeles per evitare la stagione piovosa di New York durante la convalescenza da una polmonite. Finì col restare a Los Angeles fino alla morte, nel 1989. Durante la seconda guerra mondiale lavorò come disegnatrice tecnica nel laboratorio di sperimentazione della Douglas Aircraft e, a quarant'anni, iniziò a frequentare la facoltà d'Architettura della University of Southern California. La sua iscrizione venne "fortemente sconsigliata" perché era una donna quarantenne nel momento in cui i provvedimenti in favore dei reduci riempivano le aule di veterani congedati. Lo stesso anno McCoy fece domanda per essere assunta come disegnatrice nello studio di Schindler. Certamente l'architetto l'avrebbe immediatamente messa ad affrancare buste, gli fece notare scusandosi a proposito della sua mancata iscrizione all'università. "Ma neanche per sogno", rispose lui, e l'assunse sui due piedi. Per lo meno così afferma McCoy in un estratto dal suo articolo Schindler: A Personal Reminiscence, le cui parole scorrono su una parete della casa Schindler come una metafora del legame tra senso e struttura.
Per quanto convincente, la mostra rimane abbastanza discreta da permettere alle parole di McCoy di parlare da sé
Naturalmente una mostra come questa, che racconta di una vita molto importante, corre il rischio di raccontarcene la storia come se fosse un'emozionante sequela di punti esclamativi, tra cui il felice colloquio di lavoro o la pubblicazione, nel 1960, del fondamentale libro Five California Architects. Ma Sympathetic Seeing è attenta a presentare anche le parentesi e i punti interrogativi di una vita: il lavoro di McCoy, significativo e originale, rimase sostanzialmente privo di riconoscimento per gran parte della sua vita, e la mostra rende evidente che il corpus delle sue opere e la stima di cui fu oggetto sono il risultato di decenni, non di giorni. In questo modo Sympathetic Seeing fa onore al suo titolo, parlando di Esther McCoy come lei avrebbe parlato dei suoi temi: con equità, con lucidità e con curiosità senza limiti. Katya Tylevich