Stefano Casciani: Caro Jean, possiamo fare un po' di autobiografia? Vogliamo iniziare da "Architecture Principe"?
Jean Nouvel: Ah, tra gli eventi in onore di Claude Parent c'è anche la mostra su di lui alla Cité de l'architecture... L'hai già vista?
Non ancora, ci vado domani: l'allestimento è tuo, una sorta di omaggio al primo maestro?
"Architecture Principe"... La mia prima giovinezza, direi. Quando sono arrivato da Claude Parent nel 1966, era il momento in cui Parent e Virilio, con il loro gruppo e la rivista omonima, gettavano le basi di una nuova visione dell'architettura. Ne sono rimasto profondamente segnato: è naturale, quella è stata la mia vera scuola.
Com'è successo?
Ho cercato di entrare da Claude Parent perché, all'epoca, era lo studio francese più stimolante per prospettiva visionaria e capacità di provocazione. Era un atelier piccolo, ma in stretto contatto con André Bloc, con L'Architecture d'Aujourd'hui, già molto attento alla mediatizzazione. Sono andato da Parent, che non aveva lavoro, ero un po' preoccupato: poi è arrivato un progetto e, qualche mese dopo, mi ha richiamato. Da quel momento, ho lavorato con lui e con Virilio e ho iniziato a capire come funzionava, che cos'era questo mestiere dell'architettura. Mi hanno responsabilizzato in fretta, cosa piuttosto sorprendente, visto che avevo solo ventidue anni. Ho seguito la costruzione di un edificio per residenze, poi un centro commerciale... Intanto succedeva il '68.
Allora avevi già abbandonato l'idea di diventare pittore?
Direi di sì, anche se quando mi sono avvicinato al mondo dell'architettura speravo di tornare, prima o poi, all'arte 'pura', ma presto ho capito che anche l'architettura mi offriva un ampio campo d'espressione: magari leggermente sfalsato, ma altrettanto ricco di quello in cui si muove un artista plastico.
Pensi che l'architettura sia una forma d'arte? Appartiene al mondo dell'arte?
Innanzitutto, non la definirei arte in quanto tale. C'è sempre in essa una dimensione di moltiplicazione o almeno di duplicazione, dall'idea e dal disegno al manufatto: questo fa sì che molta architettura contemporanea sia diventata una forma di scrittura automatica per progetto... Ma se si fa bene il proprio lavoro, una costruzione può riuscire a testimoniare ossessioni o tentazioni anche per le generazioni che seguiranno. In questo senso, architettare è anche un modo di determinare sensazioni, esattamente come in letteratura, pittura e scultura. Semplicemente bisogna tendere a quello che dico sempre: "Rispondere a una domanda che non viene mai fatta". Che cosa trasmettiamo al di là del progetto? Tutto quello che rientra nell'ordine delle emozioni e nella trascrizione, in termini di sensibilità espressiva, dei grandi temi di un'epoca... Si può dire che il nostro lavoro genera una sorta di ricettacolo, un grembo di sensazioni ed emozioni: l'architettura come madre, madre delle arti sicuramente, che può accogliere altre discipline artistiche e, in questo senso, può essere considerata un'arte.
È anche una filosofia? L'architettura può essere una filosofia?
Non credo possa essere considerata una filosofia. L'architettura in sé non è una filosofia, al contrario: tu conosci la mia espressione da questo punto di vista, alla fine si tratta di "pietrificare una cultura "viva", con un'interpretazione che passa spesso per lo scardinamento di un certo numero di atteggiamenti intellettuali. È evidente che l'architettura è profondamente influenzata dal mondo delle idee, dunque anche dalla filosofia: ma non è filosofia anche se, nel migliore dei casi, è qualcosa di sensibile alle diverse correnti filosofiche.
Quando pensi all'architettura, tu la vedi già come sarà? Hai delle 'visioni' o c'è sempre una costruzione del pensiero per arrivare alla forma?
Nei progetti più grandi, a livello urbano e a livello simbolico, non è semplice, ma c'è sempre un periodo di tempo dove a lungo ci si proibisce di formalizzare "la cosa": questo significa sapere già a che punto si è, che cosa si vuol dire. Devo ammettere, però, che con l'età si prendono delle scorciatoie, ci si dice: " Bene, questo l'ho già visto da qualche parte", ma non a livello solo formale, anche a livello strategico. Si individua così la scorciatoia per andare più spediti grazie a cinque o sei progetti che si incrociano: si ritrovano sentieri che, prima, non si sarebbero scoperti così in fretta, c'è insomma un po' di accelerazione. È uno dei privilegi dell'architetto, il fatto di diventare più veloci invecchiando, forse!
È un po' lo stesso anche per lo scrivere...
Sì, è una speranza per la vecchiaia... Aggrappiamoci a questa speranza (ridono).
In che modo partecipi al progetto per la "Grande Parigi"?
Non so se hai ricevuto il libro, che abbiamo appena pubblicato, Naissances et renaissances de mille et un bonheurs parisiens… Al momento la città è completamente immobile. Un quartiere, un territorio urbano, dopo vent'anni che non viene fatto niente, hanno una certa densità, determinate altezze, definite e immutabili, sono finiti, fossilizzati: frozen come si dice, completamente ghiacciati, una vera glaciazione.
Già altre volte mi hai parlato dell'immobilismo nella maggioranza dei quartieri cittadini, dell'impossibilità di cambiare… Come pensi di combattere questa situazione stagnante?
Certo, il problema è come sviluppare i mezzi per un cambiamento autentico. La prima cosa è rivedere subito le leggi sullo zoning, quelle per cui al momento in una certa area si possono aprire solo negozi, in un'altra solo stabilimenti industriali, in un'altra solo uffici, in un'altra ancora solo edifici residenziali. Riapri nuove possibilità per il mercato immobiliare e, finalmente, tutto si ricompone, con quartieri che non sono sempre morti di notte. Pensa alla Défense, un quartiere terziario che, di notte, è defunto, abbandonato e deserto, o a uno qualunque dei quartieri dormitorio dove, di giorno, non succede nulla. Occorre, poi, interessarsi ai limiti della metropoli, dove si sviluppa anche una porosità fra città e natura, i campi coltivati, le foreste: Parigi è configurata proprio in questo modo, con una geografia molto forte, tanta agricoltura e tanti boschi.
In questo grande progetto prevedete anche microinterventi?
Penso piuttosto a interventi artistici su scale diverse e, comunque, sul piano architettonico, tutte le operazioni trasversali sono microinterventi. Invece, i tanto amati macrointerventi sono le nuove centralità, i trasporti, lo sviluppo di un sistema di attrattività economica, i cosiddetti cluster, affinché studenti, università, ricercatori, imprese di punta si ritrovino in diverse aree della "Grande Parigi".
Il tuo studio sarà coinvolto? Come ti vedi come architetto di questo grande progetto?
Come architetto è diverso, io lavoro su altri progetti legati alla "Grande Parigi", ma non nell'attuale visione strategica. Noi siamo in azione, con gruppi di lavoro, per sottoporre delle proposte ai politici, e i politici devono scegliere. Non c'è accordo nemmeno fra i rappresentanti regionali e quelli nazionali: quasi tutta la regione è di sinistra, mentre il governo è di destra.
Dopo le elezioni regionali non è cambiato l'equilibrio politico?
No, è sempre uguale: ma è necessario che i politici trovino un accordo, altrimenti la "Grande Parigi" non si potrà fare. I politici parigini hanno un'associazione che si chiama Paris Métropole, affiliata inizialmente al partito socialista, ma che, al momento, accoglie gente di ogni orientamento ideologico. È un fatto positivo, sarà di sicuro l'interlocutore principale con la Regione e con lo Stato. Non si farà niente nemmeno senza lo Stato perché finanzia in buona parte il progetto.
Quali sono i tempi per lo sviluppo di questo grande progetto? C'è una tempistica ragionevole?
La tempistica è sempre, in parte, vincolata dalla politica, così abbiamo dovuto aspettare che finissero le elezioni regionali. Adesso che si sono concluse, lo studio della "Grande Parigi" si è rimesso in moto, si può prevedere che fra qualche mese verranno avanzate proposte al mondo politico, poi si vedrà.
In proposito sei ottimista? Pessimista?
Direi volitivo: cerco di spingere in modo che abbia successo questa richiesta del tutto eccezionale a gruppi di professionisti pluridisciplinari, che lavorano a monte del sistema attuale. Non ho mai fatto niente di simile prima d'ora, ma riuscire sarebbe qualcosa di estremamente positivo. Si tratta di un lavoro di negoziazione, molto politico, con la sinistra e la destra.
Nel frattempo continui con lo studio... Quali sono i tuoi progetti più importanti?
Scusa, devo precisare che sul progetto della "Grande Parigi" lavoro con Jean-Marie Duthilleul, in Francia il maggiore esperto di infrastrutture, soprattutto ferroviarie, e con Michel Cantal-Dupart, uno dei due architetti di Banlieue 89, che già all'epoca Mitterrand si era interessato profondamente al problema: l'altro è Roland Castro. Entrambi conoscono bene la regione, il campo d'azione reale. Mi sono associato a loro, ma ci sono tante altre persone che hanno lavorato in questa squadra, come leggerai nel libro di cui ti ho parlato prima. A livello più personale, invece, dopo la mia presa di posizione contro la rivoluzione dell'Île Seguin, il nuovo sindaco ha indetto un concorso per scegliere un nuovo urbanista e mi ha chiesto se ero interessato a partecipare: e ora mi ritrovo a ridefinire quello che l'isola dovrebbe essere una volta fatta tabula rasa.
Dammi una buona notizia: hai vinto il concorso?
Sì, ho avuto l'incarico per l'urbanizzazione de l'Île Seguin: è un'isola lunga più di un chilometro, con un progetto che si aggirerà intorno ai 300.000 metri quadri, quindi grandi strutture: in particolare, grandi auditorium di musica popolare, la Fondazione Cartier che si trasferirà qui, un centro legato all'arte contemporanea…
La Fondation Cartier avrà un edificio nuovo?
Sì, poi ci sarà tutta una serie di progetti annessi, di natura culturale ed economica, ma del tutto straordinari: un potenziale enorme, con la nuova Maison de l'Histoire de France di cui non è ancora stato deciso il destino, ma che potrebbe venire qui. L'idea è di realizzare una specie di ecoquartiere, una nuova Île de la Cité, perché tutta Parigi nasce a partire da isole: l'Île Saint-Louis, l'Île de la Cité. Sono nuove condizioni di vita che prefigurano un po' quello che si può sperare o prevedere per i decenni futuri: un territorio abitato, ma 'pulito' per vocazione, con tanto spazio pubblico per i pedoni e per le automobili pulite e con tanta mescolanza di etnie.
Da qualche tempo, però, lavori anche lontano da Parigi, vicino a Nizza: mi racconti questa situazione, come è nata e come si sta sviluppando?
Vorrei creare una fondazione in un'antica fortificazione militare costruita quando Nizza è diventata francese: domina tutta la città, è il punto culminante tra la città e la rada di Villefranche. All'interno, ci sono delle casematte, abitazioni per i militari: è una fortificazione per proteggere la baia, osservare il porto, per le navi che arrivavano. Non è gigantesca, solo 700 metri quadri utili all'interno, ma la posizione è ottima, il paesaggio stupendo, in mezzo a un parco pubblico di una trentina di ettari. In più, è tutta protetta da bastioni, le condizioni ideali per lavorare e per vivere un po' quello che m'interessa. Perché ero un po' stanco del grigiore di Parigi, ecco tutto.
Allora la luce laggiù ti aiuta nell'ispirazione?
Ah sì, è magnifica, ma amo anche la luce di Parigi... quel colpo di luce su una facciata bianca, che gira verso nord, non è male. Certamente, al Sud la luce è bella, ma soprattutto vorrei cercare di prendere, finalmente, un po' di distanza dallo stress, di lavorare un po' più comodo e di muovermi meno. Così farò anche questa fondazione: ci saranno decine, dozzine di architetti che verranno ogni anno in residenza. Non lavoreranno nello studio, ma sui problemi e sui temi del Mediterraneo: una volta l'anno, ci sarà un mese dedicato all'architettura, con una grande mostra.
E lo studio? Come ti dividi tra Parigi e Nizza?
A Nizza ho preso degli uffici e ho un posto per abitare anche a Saint-Paul de Vence. Passo molto più tempo qui a Parigi, ma vado spesso laggiù per lavorare. Per esempio, è lì che è stato concepito il progetto della "Grande Parigi". Quando lavoro a grandi progetti, uso questi altri spazi come luoghi di concentrazione: i miei collaboratori ci vengono spesso. Ci sono voli ogni ora per Parigi, voli per tutte le capitali europee, per New York e il Medio Oriente. Per i miei clienti, quindi, non fa molta differenza andare a Parigi o a Nizza.
Sul fronte dei progetti internazionali, quali sono le tue prossime realizzazioni?
Abbiamo diversi progetti internazionali, però, vista la crisi, è stata ridotta notevolmente "la velatura", per usare un termine nautico. Abbiamo tanti progetti che sono stati bloccati e altri che sono stati annullati. I progetti importanti in Medio Oriente, ad Abu Dhabi, a Doha o in Qatar sono però proseguiti, come previsto.
Ho visto recentemente delle fotografie in cui c'eri tu, lo Sceicco di Non-So-Dove e un modellino: di che cosa si trattava?
È il prototipo di un elemento per la cupola del nuovo Louvre ad Abu Dhabi...
Che continua?
Certamente: come ti dicevo, i progetti più avanzati in generale continuano, in Medio Oriente in particolare. Il Louvre di Abu Dhabi che ho presentato di recente, il Museo nazionale del Qatar al quale lavoravo da quattro o cinque anni e che ho presentato a New York...
Molto bene, qualche altra buona notizia.
Insomma, si va avanti… Per quanto riguarda invece i progetti americani ce n'era uno per Lehman Brothers che, adesso, non suona proprio come una grande idea. Ho sprecato quasi un anno a perdere il concorso, cosa che mi ha fatto sentire come ai vecchi tempi… In Inghilterra, a Londra, continua One New Change, un grande centro per negozi e uffici davanti alla cattedrale di Saint Paul. Prince Charles non voleva neppure che partecipassi al concorso: secondo lui, sono un architetto troppo moderno per quella città.
Ti ha osteggiato?
Ha cercato di opporsi, ma fortunatamente non l'ha spuntata. La costruzione sarà probabilmente terminata verso la fine dell'anno. Quest'estate, sempre a Londra, farò anche il Padiglione temporaneo per la Serpentine Gallery.
E in Italia?
A Colle Val d'Elsa ho progettato la grande piazza Arnolfo di Cambio con gli artisti Daniel Buren, Bertrand Lavier, Alessandra Tesi, Lewis Baltz... Anche questo intervento dovrebbe essere ultimato entro la fine dell'anno. Poi che altro c'è? Ah sì, sto per finire un edificio tra l'11ma Avenue e la 19ma Strada di New York: qualche settimana fa, il critico de The New York Times Nicolai Ouroussoff ne ha parlato in un articolo...
Che cosa ne ha detto?
Ne ha parlato bene!
Fantastico, ora sì che sei una superstar: "If you can make it there, you'll make it anywhere..."
Sì, ma anche questo progetto ha risentito della crisi, ci sono alcuni problemi con le finiture, non è ancora del tutto completato, ma è stato accolto molto bene. È un edificio che diffonde in mille direzioni la luce dell'Hudson, che la rimanda su una città già molto compressa di per sé e, a sua volta, la riflette sull'edificio di Frank Gehry. Ha una "seconda facciata", non di vetro, che si accorda abbastanza con gli edifici in mattoni di Chelsea...
Ritorno alla domanda di prima: nella tua prospettiva internazionale, pensi che la situazione possa migliorare? Negli Stati Uniti vedi la possibilità di uscire dalla crisi?
Negli Stati Uniti è sempre tutto bloccato, la torre del MoMa è bloccata, mi hanno tagliato la testa... Non hai visto? Stavo facendo una torre che si prolungava nelle gallerie del MoMa, tra la 53ma e la 54ma Strada, alta 380 metri: e ne hanno tagliati 60. Adesso è un po' complicato, ma stiamo rifacendo il progetto e penso che la faremo lo stesso, che la crisi ci permetterà di ricominciarla.
Questa crisi influenza la tua visione progettuale, in qualche modo la determina? Ti capita di cambiare opinione su alcune questioni Importanti?
Non so ancora quale conclusione possiamo trarre da una situazione così difficile, credo che sicuramente assisteremo a un altro genere di architettura 'post-crisi', anzi la vediamo già arrivare. Sarà un'architettura con meno mezzi, ovviamente, ma la crescita nel mondo non si arresterà. Questa crisi tocca in particolar modo i Paesi occidentali, ma in quelli in pieno boom milioni di persone andranno ancora accolti nelle città. Il Pianeta non smetterà di muoversi o di girare, ma dovremo lavorare in condizioni diverse, aprire gli occhi sugli errori fatti: per smetterla, una buona volta, di produrre costruzioni stereotipate, di paracadutare edifici identici ovunque e, infine, di creare gigantesche bolle finanziarie assassine. Se si potesse costruire meno e meglio, sarebbe davvero un bene.
Quali sono le tipologie che ti interessano di più? I musei, i teatri?
Non posso dire di avere una tipologia preferita, direi piuttosto che sono le referenze che creano specializzazioni, anche se adesso i committenti mi cercano soprattutto per progetti che hanno a che fare con l'industria culturale.
Perché tu fortunatamente non ti sei mai specializzato: ci sono architetti che, invece, sembrano riuscire a fare solo musei...
Progetto alloggi, uffici, padiglioni per fiere, industrie – un po' di tutto – e spero di continuare così. Non credo che la specializzazione sia un'idea giusta, ogni progetto di per sé è un caso particolare. Un progetto residenziale, che funziona in una certa zona, non è detto che funzioni in un'altra. La mia vera specializzazione è, quindi, tenere conto del luogo, del progetto e delle persone per le quali si costruisce: resto sempre ancorato a queste nozioni di specificità, singolarità e contestualizzazione. In questo il mio lavoro non è cambiato e non cambierà.
A questo proposito riguardavo alcuni dei tuoi libri, soprattutto quello gigantesco per Taschen – Jean Nouvel by Jean Nouvel – che Benedikt mi ha regalato quando dovevo scrivere il testo su di te per il Pritzker Prize... Si capisce benissimo quello che hai appena detto, i due volumi riflettono una coerenza rara tra gli architetti. Mi racconti com'è andata? Con Taschen ci vogliono sempre anni per fare un libro importante...
È vero, il dialogo con Taschen è iniziato molto tempo fa: mi hanno aperto le porte per fare un libro che non fosse solo un catalogo delle mie opere, cosa che non avevo nessuna voglia di fare. Volevo, invece, sfruttare il grande formato per trascrivere semplicemente alcune delle principali emozioni legate a ciascun progetto: non volevo che ci fosse nessuna didatticità, altri- Stefano Casciani, Ton Fou du Roi, Serie Intarsi (Inlays)per Domus, 2010 Realizzazione/Produced by Colombo Stile, Collezione privata/Private collection menti sarebbe stato un altro progetto. Il grande formato non sarebbe stato comunque adatto a un libro didattico…
Impossibile portarlo a scuola! Pesa quasi nove chili.
Non è nemmeno l'opera omnia... Eppure avevo il bisogno di un libro in cui ritrovarmi perché, come sai bene, faccio sempre baruffa con le riviste per sapere se il genere di immagini che viene pubblicato è quello che volevo: è più forte di me, eppure il più delle volte gli edifici appaiono sbiaditi, stereotipati... Se invece sono io a fare il libro, quello che viene illustrato deve corrispondere al mio modo di vedere, deve esprimere cose che io riconosco in quell'edificio: non un immobile mal fotografato, a un'ora qualsiasi, soltanto da dietro o di traverso.
Certo non hai fatto molti libri come quello. Ho l'impressione che sia davvero il concentrato della tua visione, del tuo lavoro.
Sì, assolutamente: e per completezza ho riportato anche il testo del Manifeste de Louisiana.
L'ho perso, sai? Me l'avevi mandato, ma ti chiederei un'altra copia, se ce l'hai ancora. Com'è nata l'idea di fare il manifesto?
È venuta nel momento in cui doveva venire, direi... con l'occasione della mia mostra al Louisiana Museum, vicino a Copenaghen, quando ero lì per fare l'Auditorium, la grande sala concerti per la radio televisione danese. Penso di averci messo sei mesi, almeno: non è un testo scritto di getto. Era però il momento giusto per me, volevo chiarire la mia posizione rispetto al problema dell'architettura come "paracadutaggio di oggetti". Con l'evoluzione tecnologica e i computer che adesso permettono di manipolare qualsiasi contesto, non c'è molta differenza: si modellano forme architettoniche, molto in fretta, hop! Fatto, grazie e arrivederci. E poi anche la velocità dello sviluppo urbano, metropolitano in India, Cina, America Latina porta alla scomparsa delle ragioni dell'architettura in relazione a un luogo. Ho pensato così a un manifesto per difendere l'architettura di situazione. La maggior parte delle architetture di oggi è decontestualizzata: sono lì, ma potrebbero trovarsi da qualsiasi altra parte. Un'opera architettonica può essere grande se è decontestualizzata? È una bella domanda.
Non possono esserci delle eccezioni, opere fuori dal contesto, ma che restano dei capolavori?
Devono esserci delle eccezioni che permettano di rispondere in senso affermativo, ma come regola generale, per me, la risposta è no: un'architettura deve rispondere a una situazione, non è un'architettura di per sé. Va collocata chiaramente, storicamente. Cerco sempre di stabilire il rapporto fra storia e geografia: il che vuol dire coinvolgere ogni volta le persone che avranno a che fare con l'edificio. Il piacere di poter rispondere con un'architettura, con precisione, alle attese di qualcuno produce una situazione unica, innanzitutto a livello emotivo: senza emozione non c'è architettura.
Ma credi che il Manifeste de Louisiana contenga buona parte del tuo pensiero?
Il manifesto non illustra tutto il mio pensiero sull'architettura. A un certo punto, parla dei pericoli dell'architettura e di quella che, per me, è l'essenza profonda del costruire e dell'atto architettonico: qualche volta in modo un po' veemente, ma è un manifesto, si capisce che abbia un tono agitatorio.
Allora posso proporti anch'io una piccola provocazione...
Vai pure, in genere tocca a me farle...
Dunque: ho l'impressione che tu sia il migliore architetto contemporaneo, cioè quello che è meglio sopravvissuto alla crisi della modernità.
Bene, la cosa si fa divertente!
L'ho già scritto diverse volte, ma stavolta proviamo a fare un gioco: hai qualcosa da dire contro questa mia impressione?
Sì, ho davvero qualcosa da dire. Anch'io spesso mi chiedo qual è l'architettura migliore che ho progettato: e spesso mi chiedono qual è il miglior edificio che ho visto negli ultimi anni, qual è il miglior scrittore, il miglior musicista... Credo, invece, che nei campi in cui è importante la sensibilità individuale dell'autore sia una domanda che non ha risposta. Per me non c'è "il miglior pittore", "il miglior artista plastico"... Ce ne sono una ventina che mi interessano moltissimo, sette o otto che adoro, trenta che trovo geniali: insomma, non saprei quali scegliere, non mi piace questo registro critico. È anche per questa ragione che i concorsi sono un po' vani e, spesso, stupidi, bisogna decretare chi è il migliore: come si fa?
I concorsi potranno essere stupidi, ma sono anche necessari...
La pensavo allo stesso modo sui premi letterari: perché un romanzo è meglio di un altro? Credo dipenda soprattutto dalla sensibilità di chi lo legge. Così, quando mi chiedono qual è l'edificio che preferisco nella storia dell'architettura, sono sempre un po' terrorizzato: sono così tante le opere che mi hanno toccato nel profondo che non saprei davvero scegliere!
Parlando delle diverse scale del progetto, hai fatto oggetti bellissimi, però decisamente pochi. Hai realizzato molta più architettura, ma per quali ragioni? Non volevi diventare un designer, ti prende troppo tempo?
Non direi: credo che gli oggetti siano sempre legati a situazioni, a emozioni. Mi rendo conto che io non sono un designer "a comando": devo aver davvero voglia di realizzare un oggetto, ecco perché molti dei miei pezzi – mobili, oggetti – erano legati alle situazioni dei miei clienti. Ho cominciato a disegnare qualcosa perché dovevo costruire alberghi, uffici, anche perché sono in stretti rapporti con un industriale geniale come Piero Molteni.
Sono d'accordo, Molteni è un produttore geniale...
È capace di motivarmi, lavora con me su tutti i dettagli. Ci deve essere un rapporto del genere per stimolarmi a realizzare qualcosa. Ho anche la convinzione profonda che nel design le cose vadano troppo in fretta. Voglio dire, non si deve per forza ridisegnare tutto: c'è un'isteria del design, e quando il disegno industriale si rivolge verso "lo stile" fra virgolette, proprio come lo stilismo di moda, allora non ho più niente da dire. Non è più il mio mestiere, non m'interessa nemmeno. Quello che m'interessa, ancora una volta, è il design della ricerca, dell'essenza delle cose o dell'elementarità.
Quali sono gli oggetti che hai voglia di fare?
Intanto cerco di uscire dal design su ordinazione: quando una cosa non mi tocca più di tanto, mi viene a mancare "il fuoco sacro", l'ispirazione. Allora provo a capovolgere la questione: mi dico che, forse, potrei sviluppare una forma di piccola edizione dei miei prodotti e che potrei rieditare (quando non saranno più in produzione), completandoli in funzione di alcuni desideri che non ho ancora espresso e di altri che potrebbero venire in futuro. Così mi sento libero: è strano, perché l'oggetto è talmente diverso dall'architettura, verso cui sono motivato con vincoli molto, molto forti. Nel design mi sento un fruitore dei nostri giorni, come tutti gli altri. Per una sedia sono capace di sedermi come farebbe chiunque, idem per un tavolo. Voglio realizzare oggetti che mi soddisfano personalmente, ecco: forse è un atteggiamento egoista, ma penso nel design si debba partire così.
Ho ancora una domanda: come va con il tentativo di salvare L'Architecture d'Aujourd'hui?
La rivista era veramente in pericolo. Era importante che si mettesse nuovamente al passo con la sua storia e che si trovasse il modo per distinguerla dalle tante riviste in circolazione. Così, quando ho visto che era in vendita, mi sono detto che avrei cercato persone capaci di ricreare delle ambizioni per la rivista e non solo di usarla per guadagnare dei soldi. L'orientamento de L'Architecture d'Aujourd'hui cerca ora di superare una visione prettamente architettonica nel senso interno del termine: cercando, cioè, di interessarsi a fenomeni che potrebbero provocare architettura, o meglio sensazioni architettoniche, corrispondenze tra modi di espressione diversi, uscendo dal campo classico, soffermandosi su piccole domande o scintille che si accendono di fronte a illuminazioni che vengono dal di fuori dell'architettura...
Credi che ci sia ancora un futuro per le riviste di architettura?
È una domanda difficile perché credo che ogni rivista debba prendere una posizione precisa. La cosa che mi rattrista di più sono le riviste compilative: quando ne prendi una e hai un primo edificio con progetto, sezione, facciata, eccetera, piccole fotografie, piccoli testi sotto: e poi un altro, e un altro,
e un altro ancora, senza mai riuscire a trasmettere il significato dell'edificio. Ritorno al mio libro per Taschen: mi sono battuto contro un modo innaturale
di mostrare l'architettura, contro fotografie che per me sono davvero troppo stereotipate. Certamente, ci vogliono anche le foto, ma si deve uscire dall'idea antiquata della rivista come catalogo, con piccole immagini sparse ovunque. Per far vedere tre edifici come si deve, non serve pubblicare un'enorme quantità di foto inutili... Ecco, questo è ciò che non vogliamo fare più. Nemmeno Domus lo fa più, quindi direi che va bene così.
Domus è molto flessibile, affrontiamo talmente tanti argomenti, non solo l'architettura, ma anche le varie commistioni del progetto con altri mondi,
emozioni, sentimenti, psicologie...
Credo anch'io che le commistioni siano molto importanti, bisogna riuscire a farle, ognuno a modo proprio. Sono indispensabili.
Bene, ora mettiamoci in posa e cerchiamo di fare anche un bel ritratto...
In posa, 'posato'? Io sono tutt'altro che posato, di natura... ma proviamo pure, non c'è problema!
Il rischio della modernità. Intervista a Jean Nouvel
L'intellettuale meglio sopravvissuto alla crisi del moderno, parla della sua iniziazione a un'architettura di emozioni, propone un manifesto per la ricontestualizzazione, tra necessità e difficoltà di rappresentare lo spirito del tempo: senza dimenticare la politica.
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- Stefano Casciani
- 30 maggio 2010
- Parigi