"Accade talvolta a Jersey o a Guernsey che, in campagna e perfino in città, passando per un luogo disabitato, o anche in una strada popolatissima, s'incontri una casa con l'ingresso barricato. L'agrifoglio ostruisce la porta; orribili intrichi di assi inchiodate otturano le finestre del pianterreno: quelle dei piani superiori sono chiuse e aperte nel tempo stesso, perché i telai sono fissati coi lucchetti, ma i vetri sono infranti" [1]. Queste parole di Victor Hugo sono riportate da Anthony Vidler nell'incipit del suo famoso testo Il perturbante dell'architettura quando si accinge a descrivere le case inospitali [2]. Efficaci simboli di spaesamento prodotto nell'animo dello scrittore francese in esilio, le abitazioni abbandonate ricoprono, in epoca romantica, un ruolo primario nella costruzione dei paesaggi narrativi: incarnano con precisione il topos del perturbante. Non più piranesiane rovine che scivolano dalla carta delle incisioni "per concretizzarsi nello spazio dove ora s'intrecciano le flâneries philosophiques" [3] rappresentato dal giardino attraverso il gusto tardo Settecentesco per la fiorente letteratura di viaggio, ma fantasmatiche presenze/assenze che sostituiscono al sentimento malinconico un più inquietante e ambiguo dissidio dell'animo. La rovina cede il passo al ritmo più frenetico della modernità incapace di aspettare che le architetture diventino ruderi.
L'edificio abbandonato – oltre a costituire la perfetta scenografia per centinaia di scontri armati nel Far West di Hollywood e Cinecittà – sopravvive in un limbo tra due condizioni temporali: non ancora passato remoto come rovina storica e non più presente narrativo come abitazione dell'uomo, il suo futuro è incerto e misterioso. Si avvicina alla rovina per alcune importanti caratteristiche come il rapporto tra oblio e memoria ma vi si discosta anche per una specifica condizione d'incompiutezza e ambivalenza. Nella sua apparente caducità il rudere è in sé perfettamente funzionante, pretende di essere preservato e raccontato esattamente per ciò che è; e non per quello che fu. Il suo potere semantico risiede nella natura stessa del tempo storico che lo attraversa e, se privato di questo potente simulacro, non assolve più la funzione evocativa che è chiamato a svolgere. Le allegorie – ricorda Walter Benjamin – sono nel campo del pensiero, quello che le rovine sono nel campo delle cose" [4].
L'edificio abbandonato, al contrario, non completa mai il proprio rituale metaforico: la storia che racconta s'interrompe bruscamente nell'atto stesso del suo svuotamento – fisico e di senso – e le forme delle sue vicende, le mura e le stanze, non sanno restituire interamente quest'afasia. Spesso cinema e letteratura hanno trovato nell'edificio dismesso più che nella rovina un idoneo ricovero per le azioni illecite: la sua forma ancora conservata e il suo contenuto non più reperibile ne alimentano il mistero e la curiosità. Analogamente alle rovine gli edifici abbandonati pretendono una riscoperta ma il ciclo di rinascita si prolunga oltre il semplice ritorno alla visione: riapparire non significa in questo caso esistere concretamente. Il tempo spezzato della narrazione può essere saldato solo attraverso il riuso e la nuova destinazione permette di chiarificare l'ambiguità latente del luogo dismesso. L'erotismo del non detto, del non esplicitato consegna l'edificio abbandonato a un destino di negazione: la fascinazione del luogo sussiste solo in assenza di specificità d'uso. Una volta ricondotte a nuova vita queste architetture, note o anonime, perdono il loro potere seduttivo. La determinazione della sopravvivenza cancella la sensualità dell'indeterminatezza. Nel nuovo locus nessuna trasgressione sarà più possibile.
Il mondo dell'architettura è stato sensibile a questo dispositivo di straniamento e negli ultimi anni, solo per restringere un po' il campo, ha evidenziato progetti capaci di mantenere intatta la dimensione d'ambiguità necessaria all'esistenza degli edifici in disuso. In Italia esperienze come quelle del gruppo Stalker o del collettivo Alterazionivideo dichiarano una volontà di messa a fuoco nel sistema dell'abbandono promuovendone la visione e lasciando intatto l'aspetto incerto e perturbante – che nei loro lavori viene spesso, semmai, esaltato [5]. Un grado successivo d'intervento qualificabile come effimero e capace di promuovere l'osservazione di luoghi abbandonati – che molto trae dall'esperienza più istituzionale e programmatica del Palais de Tokyo – è quello compiuto da Luca Emanueli con il progetto toreplace.bz in cui all'individuazione di luoghi dismessi sono associati progetti di riuso semi-permanenti capaci di non deteriorare l'aspetto più qualificante dei luoghi d'intervento caratterizzati da ambivalenti significati semantici.
[im]possible living, la piattaforma ideata appena un anno fa da Andrea Sesta e Daniela Galvani, allarga ulteriormente il terreno di gioco nel campo degli edifici dismessi adeguando l'archivio della memoria alle nuove tecnologie e chiamando in causa un pubblico sempre più vasto. Affascinati e incuriositi dalla presenza sul territorio italiano di una moltitudine di costruzioni in disuso l'ingegnere e l'architetto hanno pensato a una modalità per mappare efficacemente queste presenze architettoniche - ampliando il raggio d'azione alla scala mondiale - coinvolgendo al contempo una community di utenti non specializzati. L'idea appare semplice ma ben congeniata: attraverso un sito internet e un'applicazione per iPhone e Android chiunque sia interessato può inviare un'immagine accompagnata da una breve descrizione del luogo individuato.
Questa strategia risponde primariamente all'esigenza di rivalutare il patrimonio mondiale degli edifici abbandonati, in contrapposizione al continuo e costante consumo di territorio perpetrato attraverso la costruzione di nuovi edifici destinati, già prima d'essere ultimati, a rimanere vuoti. In secondo luogo l'attivazione del pubblico attraverso un sistema di partecipazione attivo permette di sollecitare una coscienza visiva che grazie alla pubblicazione delle immagini sul sito possa diventare sistema critico. Un archivio in perpetua crescita costruito da una collettività variegata e sensibilizzata attraverso gli strumenti tecnologici del quotidiano come il web o lo smartphone. Un modo per dimostrare che l'oggetto architettonico esiste in relazione alla sua traccia fotografica che ne garantisce la memoria in un campo di selezione allargato.
Il web è il naturale territorio di [im]possible living, perché, come dichiarano i due creatori, "è l'unica realtà in grado di mettere insieme la massa critica necessaria ad affrontare il problema dell'abbandono nella sua interezza. Da questa constatazione nasce il desiderio di non entrare nel dettaglio del singolo progetto, ma di essere degli enabler, dei catalizzatori di energie e di fornire servizi a chi invece mette mano direttamente al singolo progetto". [im]possible living è stato sinora completamente autofinanziato ed è attualmente alla ricerca di un seed, necessario a completare la definizione e la realizzazione di un prodotto web/mobile professionale e a sostenere lo sviluppo della società nello start up.
Se – come scrive Elena Pirazzoli nel suo recente libro A partire da ciò che resta – la memoria sembra essere l'ossessione del nostro tempo [6], allora il database di [im]possible living corrisponde a un efficace strumento ricettivo che normalizza le difformità dei luoghi dismessi annullandone in parte l'ambigua sensualità. Sembra però che la costruzione di cataloghi delle forme fantasmatiche dell'architettura sia l'unico strumento in grado di preservare dall'oblio questi immobili sensibili e non tutelati e che sia dunque un giusto prezzo da pagare, quello dell'appiattimento didascalico, per preservarne almeno in parte la memoria. Sicuramente la formula ideata da [im]possible living permette a ciascun utente di mantenere un rapporto privilegiato con il/i luoghi prescelti e fotografati attraverso un dialogo identitario tra oggetto, descrizione e geo-localizzazione.
Susan Sontag scriveva, a proposito delle immagini di guerra "Possiamo anche sentirci obbligati a guardare fotografie che documentano grandi crimini e crudeltà. Ma dovremmo sentirci altrettanto obbligati a riflettere su quel che significa guardare, sulla capacità di assimilare realmente ciò che esse mostrano" [7]. Se l'autoreferenzialità dell'architettura contemporanea ha annullato consapevolmente il dialogo con il pubblico vasto dei cittadini del mondo, l'invito all'osservazione, alla selezione e alla descrizione che un delicato progetto come [im]possible living produce nel pubblico, rappresenta una soluzione possibile ai crescenti mali disciplinari. Armati di apparecchio fotografico suggeriamo a ciascuno ad uscire per strada in cerca del proprio, personalissimo, abbandono.
1. V. Hugo, I lavoratori del mare, Mondadori, Milano, 1995
2. A. Vidler, Il perturbante dell'architettura. Saggi sul disagio nell'età contemporanea, Einaudi, Torino, 2006, p. 21
3. M. Barbanera, Relitti riletti. Metamorfosi delle rovine e identità culturale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009
4. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, 1999
5. I diversi osservatori nomadi degli Stalker promuovono la percezione collettiva dei luoghi e delle molteplici anomalie che li costituiscono mentre la mappatura dell'incompiuto prodotta da Alterazionivideo racconta del complesso rapporto tra non-finito e abbandono
6. E. Pirazzoli, A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Diabasis, Reggio Emilia, 2010
7. S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano, 2003
Elisa Poli è storica dell'architettura e ricercatrice presso l'Università di Ferrara
[im]possible living: mappature dell'abbandono
La piattaforma di [im]possible living richiama alcune riflessioni sul tema degli edifici abbandonati e del sistema di visione che il pubblico è portato a esperire.
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- Elisa Poli
- 14 dicembre 2011
- Ferrara