In un passeggero momento d'ansia, non infrequente nel nostro attuale ruolo di "promettenti architetti" – condizione che consente una rapida ridefinizione della propria posizione prima che "il gioco abbia inizio" – mi è sembrato che fosse il caso di "aumentare le nostre attrattive". Che cosa può fare il nostro studio, SO – IL, per diventare più interessante per un maggior numero di committenti, ora che abbiamo bisogno di "capitalizzare il nostro potenziale"? Pensavo alla nostra "commerciabilità", e mi colpiva la facilità con cui i miei colleghi inseriscono la greeniness, il "punto di vista verde", nella loro attività professionale. Riflettevo su come elaborare una prospettiva orientata a questa materia, indubbiamente grave, che richiede una presa di posizione. La parola "sostenibilità" deve essere un elemento rituale delle nostre pagine web? Dobbiamo ottenere la certificazione di un marchio di qualità che vende bollini di garanzia? Dobbiamo arrabbiarci?
Ma poi ci ho ripensato. Noi, come professionisti e come persone, dobbiamo evidentemente adottare un atteggiamento di sostenibilità. Ma, di preciso, nei confronti di che cosa? Quando gli dèi spingono sulle nostre coste i marosi della loro ira e lanciano sulle nostre pianure le loro folgori – quando arriva il giorno del giudizio – che cosa c'è di indispensabile? La rete autostradale? Il sistema bancario? L'industria petrolifera? Oppure, aspetta un po', magari i quartieri residenziali intorno alle città? Probabilmente questi ultimi…
Perché dovremmo salvare questo pianeta disperato dagli imbecilli che lo stanno distruggendo? Davvero l'architettura può ribaltare il nostro destino? Dobbiamo costruire macchine per difenderci dai meccanismi distruttivi che noi stessi abbiamo creato? Esiste davvero una scorciatoia verso la modernità?
D'improvviso mi è venuta in mente l'immagine di una diga di sacchetti di sabbia riempiti a mano, accuratamente impilati da architetti volontari in uno schema irregolare, creato per iniziativa popolare. Un bell'insieme fluido di sacchetti di sabbia, ognuno diverso dall'altro. Forse si può scrivere un programmino per produrre i sacchetti con il taglio laser. Ecco una cosa che potrebbe incidere sulle tendenze emergenti.
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Ho scritto questa concione nell'ultima settimana di marzo. Il terremoto e lo tsunami che hanno colpito il Giappone poco dopo mi hanno lasciato senza parole. Dopo l'infinita replica del sublime repertorio visivo della vendetta del pianeta avevo la mente pietrificata. È questo ciò contro cui dobbiamo lottare?
Ben Kinmont, un artista con cui stiamo lavorando a un padiglione in Olanda, ci ha illustrato un concetto su cui ha lavorato per un certo periodo. La terza scultura, come la definisce lui, consiste nell'idea che un artista, tramite l'incessante ricerca della sua opera, finisce con l'abbandonare il mondo dell'arte. Non senza frustrazione, perché "se si prende sul serio il proprio lavoro, si sente il bisogno di identificare una sfera in cui sia possibile condurlo nel modo più fecondo". Ben ha identificato un certo numero di persone di questo genere. Lygia Clark, artista relazionale brasiliana, sempre più implicata nel suo lavoro con la psicoanalisi al punto di diventare psicoterapeuta. L'arte di Raaivo Puusemp, impegnata in politica. Di recente è stato eletto sindaco di una città.
E se applicassimo lo stesso concetto al caso della sostenibilità in architettura? Se lo si fa seriamente bisogna abbandonare la professione. Astenersi completamente dal costruire, e magari perfino opporsi al costruire. Trovare il modo di non costruire. Suscitare consapevolezza dove la cosa conta. Usare competenza, cervello e potenza di calcolo dove possono avere un risultato misurabile. Astenersi dall'ossimoro dell'edilizia verde. L'architettura semplicemente non agisce su un piano tale da realizzare – e nemmeno indurre – i cambiamenti necessari a difendere il pianeta.
Agli umanitaristi superstiti offro una provocazione fondata sulla convinzione che l'uomo sia ispirato e plasmato dagli spazi in cui abita. Noi, come architetti, siamo responsabili di questi spazi. Io credo fermamente che questo classico assioma subirà un nuovo duro colpo nel prossimo futuro, in base ai rivoluzionari sviluppi che si sono verificati nella neuroscienza. La nostra conoscenza del funzionamento e dell'evoluzione del cervello in questi anni è notevolmente cresciuta. Presto saremo in grado di misurare e mappare con precisione il modo in cui il cervello risponde al nostro ambiente sensoriale. Va da sé che questa tesi richiede un'indagine più vasta. Per ora vorrei proporre due indirizzi preliminari: per prima cosa una ricerca recente (promossa dal settore delle assicurazioni) dimostra che i pazienti guariscono prima in una stanza d'ospedale che dà su un bosco invece che su una centrale elettrica. La qualità ambientale ha un effetto misurabile sul conto dell'ospedale; in secondo luogo le condizioni ambientali negative in termini di manipolazione sensoriale hanno anch'esse conseguenze misurabili. Le tecniche di interrogatorio utilizzate nelle recenti guerre lo provano e forniscono una valanga di dati sul fenomeno.
È solo questione di tempo perché vari esempi di questo genere si sommino in un quadro di dati pubblicamente utilizzabile. Se siamo in grado di elaborare strumenti basati su queste informazioni, essi possono rivelarsi utili per la progettazione ambientale. Integrare questi dati nei nostri software di progettazione ci darà modo di valutare le prestazioni sensoriali di un progetto nelle fasi preliminari del processo. Potremo prevedere non solo il costo, l'efficienza spaziale e il consumo energetico di un edificio, ma anche se farà dei suoi utenti degli esseri sani e felici oppure degli psicopatici omicidi. Quando forniremo prove "scientifiche" del reale comportamento del cervello e del corpo nell'ambiente costruito; quando lo spazio progettato avrà un "effetto misurabile" sul benessere degli abitanti del pianeta, allora ci saranno uno scopo vero per lavorare nel nostro settore e una responsabilità vera per l'architetto. Fino ad allora costruiamo edifici che traggano valore e scopo da un'architettura, diciamo così, del diletto.
Florian Idenburg (Olanda, 1975) è architetto e docente. Ha fondato lo studio Solid Objectives – Idenburg Liu ( SO – IL ), centro catalizzatore di creatività che ha ottenuto numerosi riconoscimenti, impegnato a ogni scala in tutte le fasi del processo architettonico.
Astenibilità
Nel momento della crisi globale, uno studio ragiona sulle grandi responsabilità dell'architettura - fino al punto di rifiutare del tutto di costruire.
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- Florian Idenburg
- 20 aprile 2011
- New York