Presentato al 77° Festival di Cannes dove, oltre a un’ovazione di quasi tredici minuti, ha ricevuto anche il premio per la migliore sceneggiatura, The Substance è il secondo lungometraggio della regista francese Coralie Fargeat.
Corpo e spazio: le architetture del terrore di The Substance
Il body horror di Fargeat mette in scena l'ossessione per il corpo perfetto con una potenza visiva mozzafiato, usando richiami a Hitchcock, design brutalista e inquadrature kubrickiane.
View Article details
- Ramona Ponzini
- 05 novembre 2024
Elisabeth Sparkle (Demi Moore), stella di Hollywood in declino, a metà tra la Gloria Swanson di Viale del tramonto (1950) e la Jane Fonda dei programmi di aerobica, viene licenziata il giorno del suo cinquantesimo compleanno dal disgustoso – e mai parco di sguardi ai fondoschiena delle fanciulle – Harvey (Dennis Quaid), desideroso di sostituirla con una starlette più avvenente e nel fiore degli anni, o, come si suol dire nel gergo del maschio alfa: con carne fresca.
Elisabeth si imbatte in una misteriosa sostanza che permette al suo corpo di generare un altro sé, la “più giovane, più bella, più perfetta” Sue (Margaret Qualley), che prende immediatamente il suo posto alla conduzione del programma di fitness. Ma la regola è che i due corpi vivano a settimane alterne, senza eccezioni, e che si ricordino di essere uno.
Con The Substance Fargeat attinge a piene mani alla storia del cinema per costruire un’architettura del terrore che si erge dal corpo femminile attraversando studi televisivi, case, corridoi, bagni, docce e stanze nascoste.
Fargeat utilizza precise inquadrature e posture corporali per evocare il film horror sul tema del doppio per antonomasia.
Partiamo dall’inizio, dagli studi: al termine della sua ultima lezione di aerobica Moore percorre un corridoio che meta-rappresenta l’evoluzione dei suoi stessi look nella carriera reale, compresa l’improbabile pettinatura alla Nonna Papera di Codice d’onore (1992): i poster si stagliano sull’arancione saturo delle pareti mentre il motivo del pavimento richiama le geometrie dei corridoi di Shining (1980) di Stanley Kubrick (anch’esso interpretato da Jack Nicholson, come Codice d’onore).
Ed è sempre Shining a fornire le cromie nette di bianchi lucidi e rossi sanguigni dei bagni degli studi. Il piastrellato bianco ritorna, assoluto e spietato, nel bagno della casa di Elisabeth – ambiente in netto contrasto con il resto dell’appartamento – che Fargeat utilizza per evocare, attraverso precise inquadrature (la sequenza della doccia) e posture corporali (Elisabeth distesa con la faccia schiacciata sul pavimento dopo la genesi di Sue) il film horror sul tema del doppio per antonomasia: Psycho (1960) di Alfred Hitchcock.
Punto focale dell’azione, il bagno rappresenta il claustrofobico bozzolo dove Elisabeth si confronta spietatamente con sé stessa, dove osserva il proprio volto e il proprio corpo con l’ingenerosità di una società maschile che ha stabilito canoni dai quali pare impossibile affrancarsi.
Punto focale dell’azione, il bagno rappresenta il claustrofobico bozzolo dove Elisabeth si confronta spietatamente con sé stessa, dove osserva il proprio volto e il proprio corpo con l’ingenerosità di una società maschile che ha stabilito canoni dai quali pare impossibile affrancarsi (nonostante il #bodypositive). È anche il luogo nel quale Sue ricava una stanza segreta, buia come le profondità dell’inconscio, dove occultare la parte più detestabile di sé, la Elisabeth che invecchia trasformandosi in una sorta di Gollum.
Ma torniamo alle fonti kubrickiane: l’architettura brutalista dell’ospedale ci catapulta nella metropoli londinese di Arancia Meccanica (1971), la camera bianca dove vengono custodite le sostanze pronte per i clienti sembra sospesa nel tempo e soprattutto nel cosmo di 2001: Odissea nello spazio (1968), mentre il bordeaux della morbida moquette del soggiorno della casa di Beverly Canyon accoglie lo stretching di Sue come accoglieva quello della signora dei gatti sempre di Arancia Meccanica.
Insieme allo scenografo Stanislas Reydellet, Fargeat da vita ad ambienti simbolici, metafore delle evoluzioni interiori dei personaggi: la casa disordinata della giovane Sue si alterna alla tana fosca di una sempre più anziana e depressa Elisabeth.
Ma c’è ancora tanto altro cinema in The Substance e nella sua estetica: quando a Sue viene chiesto di pronunciare il suo nome in macchina, Fargeat stringe sul primo piano delle labbra che si moltiplicano in schermi televisivi analogici, collegamento all’identità e alla carriera di Elisabeth nonché brillante riferimento a Videodrome (1983) di David Cronenberg (considerato padre del body horror e autore di un altro geniale quanto disturbante film sul tema del doppio, Inseparabili, del 1988).
La casa di Elisabeth guarda direttamente a sé stessa, con la gigantografia dell’odiata Sue che a sua volta la osserva e la giudica, in una finestra che quindi diventa specchio, occhio impietoso su un io scisso e sul corpo femminile modellato per compiacere i desideri altrui.
C’è La mosca (1986), c’è Society (1989) di Brian Yuzna, c’è addirittura il recente Alien: Covenant (2017), c’è Elephant Man (1980), il cappotto giallo di Dick Tracy, il sorriso del Joker di Nicholson – sì, di nuovo lui – e la gloriosa Sissy Spacek di Carrie (1976) con quel momento pubblico di sfogo violento che avvolge nel sangue una società meritevole solo di vendetta.
La vendetta Fargeat la conosce bene, con quel suo primo lungometraggio, intitolato appunto Revenge (2017), che mescola già sapientemente gore e femminismo: un’altra casa con un’ampia vetrata, una villa moderna e sterile in vetro e cemento, dal design asettico e freddo come i personaggi maschili che la popolano.
Se la casa di Revenge si configura come gabbia che affaccia su un deserto ostile ma anche terreno di rigenerazione e rinascita, la casa di Elisabeth guarda direttamente a sé stessa, con la gigantografia dell’odiata Sue che a sua volta la osserva e la giudica, in una finestra che quindi diventa specchio, diventa occhio impietoso su un io scisso e sul corpo femminile che per troppo tempo ha preso (e prende ancora) forma sulla base dei desideri di chi lo osserva.
Courtesy I Wonder Pictures
Courtesy I Wonder Pictures
Courtesy I Wonder Pictures
Courtesy I Wonder Pictures
Courtesy I Wonder Pictures