Negli anni ‘90 il New York Times scriveva come Alitalia si facesse riconoscere “per i suoi interni di tendenza e per le uniformi di design a firma di Giorgio Armani, più che per i servizi e la puntualità.”
Ciao Alitalia: l’epilogo di una storia italiana di stile e design
Per oltre settant’anni compagnia di bandiera italiana, Alitalia chiude i battenti. Ha incarnato il jet-set tricolore nel mondo, come raccontiamo attraverso l’archivio di Domus.
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- Lorenzo Ottone
- 10 ottobre 2021
Un’analisi puntuale nel suo cinismo che ricorda come la compagnia di bandiera italiana, dal secondo Dopoguerra fino alla sua odierna capitolazione, sia stata al tempo stesso croce e delizia del Belpaese, di cui ha fedelmente rappresentato nel mondo i suoi alti (estetici) e bassi (gestionali).
L’evoluzione estetica di Alitalia ha spesso trovato nelle pagine di Domus un palcoscenico prezioso, specialmente attraverso pubblicità capaci di essere il paradigma della combinazione tra graphic design e eleganza mid-century europea. Pubblicità in cui i velivoli Alitalia, con i loro motori Rolls Royce, venivano definiti come “i più moderni e confortevoli aerei a reazione”. Lusso, esclusività, e performatività, in una parola sola: jet-set.
C’è un disco culto del jazz britannico inciso nel 1966 dal vibrafonista Dave Pike intitolato Jazz for the Jet Set che, non a caso, presenta in copertina la foto di una modella con l’uniforme dal gusto Space Age che in quegli anni lo stilista italiano Emilio Pucci aveva disegnato per la Braniff Airlines, compagnia aerea statunitense che si era fatta un nome in virtù della straordinaria customizzazione dei suoi velivoli in colori quali ocra, turchese e lavanda.
Già nel 1960, come riportato in Domus 371, Alitalia si lanciava in un simile e inedito restyling dei suoi velivoli Douglas DC-8. Gli interni di Ignazio Gardella prendevano le distanze dai toni pastello delle compagnie anglosassoni, come la celebre Panam, per proporre “pochissimi colori, di toni caldi, e materiali quali il cuoio e il legno, quasi a creare l’atmosfera di un club; il pavimento è coperto da un tappeto verde scuro, le pareti, fino all’altezza del portabagagli, son rivestite in pelle naturale, le poltrone in pelle più scura; le pareti trasversali sono in legno color caffè, la volta, bianca, rompe l’effetto dello spazio a botte.”
A mediare tra la tradizione italiana e il suo nuovo status quo artistico, quadri di artisti contemporanei come Guttuso, Cagli, Santomaso, Mirko, Corpora e Marino che potevano essere anche acquistati dai passeggeri, anticipando di fatto il concetto della boutique a bordo. Uno slogan riportato all’interno della cabina recitava: “I pittori italiani contemporanei collaborano con Alitalia per rendere più attraente il vostro volo”.
Per contro, gli ambienti Alitalia a terra subiscono un restyling dal deciso gusto atlantico, come testimoniato dalla sede Alitalia di Parigi a firma di Leo Calini, Eugenio Montuori e Cesare Ligini, dal palazzo uffici dell’architetto Fabio Dinelli situato in zona EUR, o dal terminal milanese della compagnia progettato da Gio Ponti nel 1960. “L’architetto è ricorso, come leit motif di colore, all’azzurro che caratterizza la nostra Compagnia aerea, e come leit motif di materia, alla ceramica, nel totale rivestimento delle pareti in elementi di terracotta di Melotti e smalti biancoazzurri,” riporta Domus 371. Sono gli stessi anni in cui l’ingegnere Morandi porta a compimento l'avveniristica aviorimessa di Fiumicino, realizzata mediante l’uso di cemento armato precompresso a tiranti e pilastri a forcella.
Se l’occhio vuole, giustamente, la sua parte Alitalia lo aveva capito commissionando negli anni le divise del suo personale di volo a una serie di nomi di spicco dell’alta moda tricolore.
Una tradizione che parte dalla severa eleganza delle Sorelle Fontana, per poi proseguire prima con le gonne accorciate sopra il ginocchio, gli impeccabili guanti bianchi e le giacche con maniche a tre quarti in palette blu avio in pieno stile Panam studiate da Delia Biagiotti (madre di Laura e capostipite della celebre casa di moda) nel biennio 1964-1966, poi con quelle di Tita Rossi comprensive di cappello pillbox e camicette bianche con vistoso foulard dal gusto dandy, figlio della Swinging London, introdotte nel 1967.
È all’inizio degli anni Settanta, però, che Alitalia raggiunge il suo apice di design, aprendo con una brillante operazione di rebranding un decennio che sarà segnato dalla crisi petrolifera.
Nel 1969 l’agenzia creativa di San Francisco Landor Associates è responsabile per il nuovo logo tricolore, rimasto in uso pressoché invariato fino a oggi, che sostituisce la storica ‘Freccia Alata’ della fondazione in concomitanza con l’introduzione dei nuovi Boeing 747. Analogamente, il verde diventa il nuovo colore delle uniformi - in un gradiente che dal mela arriva all’oliva - a firma di Mila Schon. La stilista dota le hostess di minigonne e stivali in pelle nera, abbinati a mantelline e sorprendenti cappotti in lana e tailleur ciclamino. Sono, però, i cappelli neri con visiera a incarnare il miglior connubio tra la tradizione manifatturiera italiana e la nuova tensione Space Age della moda.
Una tensione che trova ulteriore conferma non solo nella sponsorizzazine di Alitalia alla mostra spartiacque Italy: The New Domestic Landscape tenutasi nel 1972 al MOMA di New York, ma anche nei volumi netti delle uniformi color albicocca con chiusura zip e cinture con logo Alitalia inciso sulla fibbia pensate da Alberto Fabiani nel 1973, le prime prodotte in confezione e non in sartoria.
Una svolta indubbiamente informale che anticipa il rilassamento dell’eleganza esclusiva che aveva caratterizzato l’aviazione civile nei decenni precedenti. Ne è esempio l’incursione nel lifestyle con gli occhiali componibili Alitalia Sport-Frames disegnati da Kuno Prej-De Meyo e selezionati per il Compasso D’oro 1982, o, ancora, l'immagine Alitalia comunicata dall’allestimento dello stand della compagnia di bandiera alla Fiera del Levante di Bari 1979; dove trova anche spazio un modello di Fiat 131 Abarth che la compagnia aerea sponsorizzava nelle competizioni rally.
Come riportato in Domus 591, la struttura cubica di spiccato gusto post-moderno progettata da Renato Balestra, Livio Leonori, Gianni e Giuseppe Lenti prevede “due piani inclinati lungo la diagonale del cubo, che suddividono il volume interno creando un percorso continuo, gradonato a spirale, che si articola su tre piani allestiti con gigantografie e cilindri porta-fotocolor”.
Non è fino al 1991, con l’introduzione delle uniformi firmate Giorgio Armani comprensive di blazer verde oliva e camicie alabastro, che Alitalia ristabilisce un’immagine di lusso che sembra accompagnare l'opulenza della Milano da Bere agli ultimi fuochi.
In parallelo all’affermarsi delle compagnie low-cost, Alitalia, nonostante i già evidenti problemi gestionali, rimane per contro fedele alla sua estetica ricercata. Nel 2016, infatti, c’è ancora spazio per un ultimo colpo di coda: le divise retro-chic di Alberta Ferretti con cui la nuova proprietà Etihad prova a rilanciare, senza fortuna, l’immagine della compagnia.
Passeggiando lungo il perimetro di Piazza San Marco a Venezia, abbassando lo sguardo tra i piedi lenti dei turisti e quelli isterici dei residenti, si può vedere un elegante mosaico modernista che, vicino a quello di un night club Martini, cinquant’anni o più fa indicava la più vicina agenzia di viaggi. Visione che, all’alba della definitiva capitolazione di Alitalia e della nascita di ITA, è lascito di un jet set perduto e di un’Italia che si sognava americana. Parafrasando l’avvocato Agnelli, c’era più gusto a volare “quando le contesse erano puttane, ora che le puttane fanno le contesse non diverte più”.
Immagine di apertura: Hostess Alitalia in uniforme disegnata da Mila Schön, 1969. Foto: Pinterest
Foto: Pinterest
Foto: Domus 371, Ottobre 1960
Foto: Domus 371, Ottobre 1960
Foto: Domus 371, Ottobre 1960
Foto: Domus 371, Ottobre 1960
Foto: Domus 591, Febbraio 1979
Foto: Domus 625, Febbraio 1982
Foto: Domus 306, Maggio 1955
Foto: Alitalia
Foto: Alitalia
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Foto: Pinterest
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