Sandro (Gabriele Ferzetti) e Claudia (Monica Vitti) sono sul tetto-terrazza di una chiesa di fronte alla maestosa scenografia barocca della cattedrale di Noto, in Sicilia. “Che fantasia, che meraviglia…”, commenta lui, che di professione fa l’architetto. E aggiunge: “Si preoccupavano degli effetti scenografici. Ma avevano davanti i secoli. Noi, se va bene, non abbiamo che pochi mesi”. È con la constatazione dell’effimera durata delle architetture contemporanee che il protagonista del film di Michelangelo Antonioni L’avventura (1960) giustifica la sua resa, la sua rinuncia. Ha smesso di progettare e di sognare – confessa – “perché non è facile ammettere che un pavimento rosso sta bene in una stanza, quando invece sei convinto del contrario, ma la signora lo vuole rosso…”.
Lì, sul tetto-terrazza di una chiesa, tra le corde con cui si fanno risuonare le campane, va in scena uno dei momenti più interessanti e affascinanti nella storia dei rapporti fra cinema e architettura: uno di quelli in cui la potenza dell’architettura induce il cinema a riflettere sulle forme, le motivazioni e gli obiettivi della creatività umana. Ma le terrazze sono da sempre luoghi privilegiati nella drammaturgia cinematografica: per quel che vi accade, ma anche per come sono arredate e posizionate.

Sempre in L’avventura, ad esempio, c’è un’altra terrazza emblematica: è quella della villa in cui, dopo la drammatica crociera alle Eolie che ha visto la misteriosa sparizione di una di loro, si ritrovano tutti i personaggi del film. Ogni dettaglio – dall’architettura all’arredo – è segno di un gusto neo-borghese che dialoga con la struttura nobiliare preesistente. La terrazza affaccia su un fitto giardino, ha il parapetto con una balaustra in cemento e la pavimentazione con disegno geometrico a greca in bianco e nero. Nell’arredo si notano un tavolinetto centrale in bambù attorniato da un divanetto a due posti sempre in bambù, con lo schienale lavorato con intrecci preziosi e una poltroncina. Ci sono anche due poltrone da relax anni ’50 in midollino con i braccioli curvati, un divanetto e un pouf capitonné con bottoni e gonnellino arricciato a sfiorare il pavimento. Il cameriere in livrea bianca versa il succo di frutta in bicchieri di cristallo da una caraffa in cristallo lavorato con il coperchio e il beccuccio in argento. Una bella inquadratura incornicia la Vitti e la sua amica sedute sul divanetto, al centro della scena. Accanto a loro, un carrello-bar a due ripiani porta liquori, con grandi ruote. Sullo sfondo un lavabo-fontana a colonna, con un putto paffuto in ceramica bianca sulla parete, e due porta vasi simmetrici a lato. Antico e moderno coabitano in un rito salottiero outdoor che fa parte della messinscena che quell’umanità ricca ed elegante dà ogni giorno di sé.
Tra le terrazze del cinema italiano, le più note sono però senz’altro quella di La dolce vita (1960) di Federico Fellini e quella su cui inizia La grande bellezza (2014) di Paolo Sorrentino. Nel primo caso siamo di fronte a un attico con terrazzo, con pavimento di piastrelloni bianchi, amache in corda, materassino in gomma piuma appoggiato a terra, tipica sdraio di legno con stoffa rigata, fioriere in cemento, palme, dondolo da giardino con tettuccio parasole, ombrelloni quadrati e carrellino porta liquori in tubolare metallico bianco con ruote. E’ lì che prendono il sole alcune amiche, eccitate dal rumore delle pale di due elicotteri che volano sopra la città per portare una statua lignea di Cristo sopra Piazza san Pietro. Le signore vorrebbero comunicare con il giornalista (Marcello Mastroianni) e il fotografo che sono sull’elicottero, ma il rombo del motore e il rumore dell’elica rendono impossibile la comunicazione.
Le terrazze sono da sempre luoghi privilegiati nella drammaturgia cinematografica: per quel che vi accade, ma anche per come sono arredate e posizionate.

Sulla terrazza di La Grande Bellezza (che nella realtà si trova in un immobile storico di via Bissolati, a Roma) sono invece le note di A far l’amore comincia tu di Raffaella Carrà, remixate in versione techno da Bob Sinclair, a dar l’impressione alla folla festante che il rito del ballo metta in comunicazione ogni partecipante con tutti gli altri. La luce di un’insegna pubblicitaria squarcia il buio e illumina lo spazio gremito di corpi, con pochi ma suggestivi elementi di arredo: grandi vasi bianchi con al centro sagome stilizzate di alberi dal fusto sottile e lineare che reggono chiome a forma di nuvole, in materiale plastico luminoso e traslucido, e piccoli pouf color ocra con un anello luminoso alla base. Alla fine della festa, quando i corpi scompaiono in un’alba livida e fredda, la terrazza vuota trasmette una sensazione di metafisica solitudine.
Molto più intima e accogliente la terrazza in cui – sempre nello stesso film – si rifugia Jep Gambardella (Toni Servillo): all’ultimo piano di un Palazzo anni Venti che affaccia sul Colosseo, allestita lungo tutto il perimetro con vasi in cotto e piante da fiori e limoni e lanterne, con tanto di salottino in midollino e cuscini dalle fantasie geometriche in un angolo, Jep si lascia dondolare mollemente su un’amaca autoportante in legno e corda bianca, con gli occhiali da sole e con l’immancabile drink in un tumbler tra le mani.

Anche nel suo film più recente, Parthenope (2024), Sorrentino non rinuncia a fare della terrazza un luogo-chiave del racconto: basti pensare al dehor-terrazzo della villa di famiglia della protagonista, affacciato sul mare, a cui si accede da una grande porta vetrata con gli infissi blu petrolio e i vetri colorati: pavimento di tufo, circoscritto da grandi arcate con basamento su cui sedersi. Lì vediamo Parthenope leggere un libro di John Cheever, mentre la mamma e il fratello portano in tavola le pentole con le pietanze. Al centro c’è un bel tavolo in ferro battuto coperto da una tovaglia bianca con inserti di pizzo, elegantemente imbandito, con intorno sedie sempre in ferro battuto bianco coperte da cuscini color crema. Sullo stesso terrazzo, punteggiato sui pilatri bassi da sculture di teste alternate nere e bianche, ci sono un baldacchino aereo in ferro battuto bianco con riccioli sottili e un materasso giallo con cuscino a righe bianco e azzurro su cui vediamo sdraiata e immersa nella lettura Parthenope in costume da bagno: lo stesso costume che di lì a poco vedremo appeso ad asciugare sullo schienale di una sedia Thonet in un altro balcone con le piastrelle lucide, in uno spazio quasi metafisico se non fosse per la sensualità con cui l’innamorato di Parthenope si avvicina al costume per annusare il profumo della ragazza che ama. Ancora una volta la terrazza è teatro dei desideri e dei riti della vita.

Tra i registi italiani è però Ferzan Ozpetek quello che si è autodefinito “Il re delle terrazze”: fra le tante che popolano i suoi film, a rimanere più a lungo negli occhi e nella memoria è quella di Le fate ignoranti (2001), nel quartiere Ostiense, a Roma: una sorta di piazza aperta, un luogo comunitario, cuore pulsante di una comunità di amici che si ritrovano la domenica mattina in un dehor con tappeto erboso a cui si accede da una grande vetrata, allestito con amache in corda bianca, sedute bianche e tavoli con lumini colorati.
La terrazza diventa un confine simbolico: è al tempo stesso un luogo di comunicazione e di distanza.

Tra le tante terrazze del cinema italiano è doveroso ricordare anche almeno quella di La terrazza (1980) di Ettore Scola, incastonata fra i tetti di Roma rivestiti di coppi, con arredi in ferro battuto bianchi e fioriere in peltro ovali piene di margherite, dove si ritrovano periodicamente alcuni esponenti radical chic della sinistra intellettuale italiana a meditare sui propri fallimenti e sulle proprie illusioni perdute, o ancora – sempre di Scola – quella di Una giornata particolare (1978), con i suoi colori spenti e le sue tonalità grigie e terrose, teatro del primo incontro fra la casalinga stanca e rassegnata interpretata dalla Loren e il radiocronista gay interpretato da Mastroianni nel giorno del 1938 in cui Hitler è in visita a Roma. Qui la terrazza diventa un confine simbolico: è al tempo stesso un luogo di comunicazione e di distanza. È un rifugio momentaneo dalla rigidità degli interni domestici, ma anche uno spazio aperto che espone i protagonisti agli sguardi altrui, ricordando loro che la libertà è solo apparente.
Il terrazzo di Una giornata particolare è uno spazio di connessione e sospensione, dove per un breve momento due anime sole riescono a incontrarsi prima di tornare alla solitudine della loro malinconica quotidianità. Un analogo valore simbolico ce l’ha anche il balcone che appare in Perfetti sconosciuti (2016) di Paolo Genovese: in un film che parla di segreti e maschere sociali, il balcone diventa un confine tra la realtà privata e quella pubblica, tra il desiderio di sincerità e la paura delle conseguenze. Nel crescendo di tensione che caratterizza il film, il balcone è l’unico luogo dove i personaggi possono allontanarsi e guardare oltre il microcosmo soffocante dei loro cellulari.

Ma sono da ricordare anche il balcone di I pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio, affacciato sulla montagna, con ringhiera in ferro battuto, tutto arredato con mobili in giunco curvato e intrecciato, dove Giulia (Paola Pitagora) prende il sole seduta su poltroncina di midollino, con le gambe sollevate e appoggiate alla ringhiera, e da dove lei e il fratello Alex (Lou Castel) getteranno i vecchi mobili di famiglia dopo i funerali dell’anziana madre cieca, o ancora la terrazza più recente di Io sono Tempesta (2018) di Daniele Luchetti, sul tetto di un lussuoso hotel con vista sul Vaticano (il Waldorf Astoria Hotel di Monte Mario), con tanto di vasca idromassaggio dove si immerge di sera il personaggio interpretato da Marco Giallini, che in quell’hotel vive.

La terrazza più iconica della tradizione italiana e mediterranea si trova però in un film diretto da un regista anglosassone: in Il talento di Mr Ripley (1999) di Anthony Minghella, nella villa in cui vivono Dickie (Jude Law) e Marge (Gwyneth Paltrow), una casa dall’architettura tradizionale italiana, con pareti in pietra chiara, persiane verdi e una vista mozzafiato sulle acque azzurre della costiera amalfitana, c’è una terrazza vista mare, dove spesso i personaggi fanno colazione o pranzano all’aperto, con tovaglie bianche, piatti in ceramica e un’atmosfera tipicamente mediterranea. La terrazza è arredata con sedie e tavolinetti di diverse forme in ferro battuto e ceramiche tipiche della tradizione italiana color cotto, con un disegno geometrico di mattonelle grigie. Ci sono chaise longue in midollino con braccioli integrati, un materassino bianco con cuscini quadrati dalla cornice esterna blu scuro e al centro azzurri. Una pergola con rampicanti regala un po’ di ombra, mentre piante mediterranee in vasi di terracotta arricchiscono l’ambiente con colori caldi naturali.
Un habitat perfetto che tuttavia non sempre riesce a regalare ai personaggi la serenità e la pace che vorrebbero. Ma è la legge del cinema: le storie felici, anche se ambientate in luoghi stupendi, non appassionano. Il pubblico ama di più le storie di sconfitte, cadute e fallimenti. Lo confessa, nel suo splendido attico con vista mozzafiato su Madrid, dove ha riunito piante, papere, galline e oggetti eccentrici di ogni tipo, l’effervescente Pepa (Carmen Maura), protagonista di Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988) di Pedro Almodovar: “Sono mesi che mi sono trasferita in quest’attico [...]. L'ho fatto perché il mondo stava cadendo a pezzi e io volevo salvarlo e salvarmi. Mi sentivo come Noè: avrei voluto allevare una coppia di ogni specie animale nel pollaio che avevo installato in terrazza. Comunque sia, non riuscii a salvare la coppia che mi interessava di più: la mia”.

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