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Non solo erotismo: il mito della piscina al cinema

Spazio delimitato e geometrico, e al tempo stesso elemento architettonico evocativo e simbolo di libertà e desiderio, la piscina diventa nei film un luogo dalle molteplici valenze simboliche, conflittuali, rigenerative o mortali.

C’è chi ne ha fatto un contenitore erotico e chi un detonatore conflittuale e agonistico. Chi l’ha valorizzata come spazio di rigenerazione vitale e chi l’ha vista invece come luogo di caduta funerea e mortale. Se c’è un luogo che il cinema ha sottoposto alle più strabilianti torsioni semantiche, simboliche e metaforiche questo è senz’altro la piscina: è li, nelle acque limpide della swimming pool del Waldhaus Flims Wellness Resort, nel cantone elvetico dei Grigioni, che Michael Caine e Harvey Keitel meditano sulla vita e contemplano estasiati il corpo di Madalina Ghenea che incede morbida nella stessa acqua in cui loro sono immersi in Youth-La giovinezza (2015) di Paolo Sorrentino; ma è sempre in una piscina che galleggia il cadavere di un giovanotto, un aspirante sceneggiatore, con due pallottole nella schiena e una nello stomaco, all’inizio di Viale del tramonto di Billy Wilder. 

Paolo Sorrentino, Youth-La giovinezza, 2015

Spazio chiuso nella geometria dei suoi bordi materiali, la piscina sullo schermo è sempre un luogo di torsioni e contraddizioni, oltre che uno spazio aperto di sperimentazioni emotive, sentimentali, estetiche e relazionali. Un esempio emblematico di piscina ad effetto erotizzante è nel film di Jacques Deray La piscina (1969), con Alain Delon, Romy Schneider, Maurice Ronet e Jane Birkin impegnati in un torbido rapporto a quattro in una villa con piscina della Costa Azzurra, fra corpi abbronzati, desideri striscianti e pulsioni omicide. 

Se c’è un luogo che il cinema ha sottoposto alle più strabilianti torsioni semantiche, simboliche e metaforiche questo è senz’altro la piscina.
Jacques Deray, La piscina, 1969

Ma in una direzione analoga si muove anche A Bigger Splash (2015) di Luca Guadagnino, che prende spunto da un celebre quadro di David Hockney, icona della pop art degli anni Sessanta, per ricreare la piscina collegata al damuso di Pantelleria in cui si svolge il film. Nel quadro – che ha lo stesso titolo del film – una tipica piscina californiana è rappresentata con uno sguardo iperrealista e straniante: non c’è presenza umana, solo uno schizzo di bianco che increspa il blu dell’acqua della piscina a indicare che qualcuno, forse, si è appena tuffato. Chi? Cos’è successo prima? E dopo? In una sorta di tempo sospeso, attorno alla piscina di A Bigger Splash si mettono in discussione i rapporti codificati.

La piscina diventa una sorta di pozzo del desiderio. Con quel liquido accogliente, traghetta il desiderio dei personaggi verso l’inconscio.  Un vero e proprio dispositivo erotico, insomma: uno spazio di distribuzione e di circolazione di fremiti, di sguardi e di pulsioni. Un po’ come accade anche in Swimming Pool (2003) di François Ozon, che intesse una sottile trama di desideri e seduzioni fra una scrittrice 50enne in crisi di ispirazione (Charlotte Rampling) e la ventenne figlia dell’editore (Ludivine Sagnier) a bordo di una piscina in una villa del Sud della Francia. È come se la piscina facilitasse la liquefazione dei ruoli, la liquidità dei desideri, il nomadismo identitario e sessuale.  

Luca Guadagnino, A Bigger Splash, 2015
La piscina diventa una sorta di pozzo del desiderio. Con quel liquido accogliente, traghetta il desiderio dei personaggi verso l’inconscio. Un vero e proprio dispositivo erotico.

Ma quella erotica è solo una delle tante possibili declinazioni simboliche a cui il cinema ha sottoposto la piscina: in Un uomo a nudo (1968) di Frank Perry, tratto da un celebre racconto di Cheever, Burt Lancaster è un uomo che ha smarrito se stesso e che in un caldo pomeriggio d’estate decide di tornare a casa sua nuotando in tutte le piscine delle ville  della zona, in cui abitano tutti coloro che l’hanno conosciuto: di vasca in vasca il nostos, il viaggio di ritorno a casa, è anche l’occasione di un testa a testa con se stesso e con il proprio passato esistenziale e sentimentale.

Di analoga intensità è Film Blu (1993) di Krzysztof Kieślowski, dove la protagonista Julie (Juliette Binoche), che ha perso marito e figlia in un tragico incidente, ed è costretta a confrontarsi con il suo passato e con la vita che continua, si immerge spesso nell’acqua blu di una piscina in cui cerca l’oblio e una sorta di purificazione dal dolore, uno stato di insensibilità, quasi un ritorno nel grembo materno. In Giulia non esce la sera (2009) di Giuseppe Piccioni, invece, una piscina coperta è il luogo di incontro fra due anime perse, un affermato scrittore che vuole imparare a nuotare e una misteriosa istruttrice che non può uscire di sera e che solo nell’acqua e nel nuoto sembra ritrovare se stessa. E perfino in Romeo+Juliet (1997) di Baz Luhrmann è in una piscina che si ritrovano (e trovano trasporto e purezza) i due infelici amanti post-shakespeariani interpretati da Leonardo DiCaprio e Claire Danes. 

Krzysztof Kieślowski, Film Blu, 1993

Ci sono anche piscine “d’autore”: nel film di Jacques Tati Mon Oncle (1958) la villa della famiglia Arpel è caratterizzata da un design ultramoderno e minimalista perfettamente coerente con la piscina rettangolare, piccola e geometrica, in linea con l'estetica ordinata e razionale della casa disegnata dall’architetto Jacques Lagrange. Realizzata con materiali anni ’50, è più uno status symbol che uno spazio funzionale, visto che raramente gli abitanti la usano per nuotare.

Un’altra piscina d’autore è in L.A. Confidential (1997) di Curtis Hanson: è quella che si trova nella villa di uno dei personaggi, la Lovell Health House disegnata dal grande architetto Richard Neutra: un’opera pionieristica e audace che ricorda un’imbarcazione incagliata in una verdissima collina di Los Angeles, con una piscina quasi assorbita nella platea delle fondamenta della casa, esempio virtuoso di perfetta integrazione di un progetto modernista con l’ambiente circostante. Senza dimenticare la piscina simbolo di edonismo, lusso e superficialità della villa disegnata da John Lautner in cui Drugo va a incontrare un produttore di film pornografici in Il grande Lebowski (1998) dei fratelli Coen. 

La villa è caratterizzata da un design ultramoderno e minimalista perfettamente coerente con la piscina rettangolare, piccola e geometrica, in linea con l'estetica ordinata e razionale della casa disegnata dall’architetto Jacques Lagrange.
Jacques Tati, Mon Oncle, 1958

Ma poi c’è la piscina domotica ante litteram della lussuosa villa californiana di Hollywood Party (1968) di Blake Edwards, in cui uno scatenato e distruttivo Peter Sellers fa ruzzolare corpi oggetti e sogni di grandezza, o quella arcaica in cui lo smemorato Nanni Moretti di Palombella rossa (1989) cerca nella pallanuoto un riscatto alle sue sconfitte politiche epocali.

C’è la piscina attorno a cui si svolge lo scatenato pool party di The Wolf of Wall Street (2013) di Martin Scorsese, c’è quella attorno a cui si ritrovano padre e figlia in Somewhere (2010) di Sofia Coppola e quella al cui bordo ozia il protagonista di Il laureato (1967) di Mike Nichols o ancora quella in cui galleggia mollemente Ramona (Sabrina Ferilli) in La grande bellezza (2014) di Paolo Sorrentino. La piscinetta gonfiabile di Favolacce (2020) dei fratelli D’Innocenzo, presa a coltellate dal padre disoccupato che poi dà la colpa agli zingari o ai vicini gelosi, è invece il simbolo dei sogni frustrati di una piccola borghesia che frana a poco a poco nel non senso e in una sorta di inarrestabile pulsione autodistruttiva. 

Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street, 2013

Perché nell’immaginario a cui il cinema dà forma e voce – lo si diceva all’inizio – la piscina può anche assumere valenze negative e perfino letali: all’inizio di Io sono l’abisso (2022) di Donato Carrisi, ad esempio, è in una piscina dismessa, con l’acqua stagnante in cui galleggiano foglie morte, che una madre snaturata cerca di lasciar affogare il figlioletto. Ed è sempre in una piscina – sia pure vuota e priva di acqua – che si suicida una delle protagoniste del terzo episodio di Kinds of Kindness (2024) di Yorgos Lanthimos

Anche nel mondo di Barbie (2023) le piscine a forma di rene sono senza acqua, una macchia di azzurro nell’universo total pink di Greta Gerwig: ma quelle, a riempirle, ci pensa l’immaginazione. E la nostra affascinata e divertita sospensione dell’incredulità.   

Donato Carrisi, Io sono l'abisso, 2022

Immagine di apertura: François Ozon, Swimming Pool, 2003

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