Il resort come destino: White Lotus e l’architettura della vacanza

Il resort, luogo locale e al tempo stesso globale, è il vero protagonista di una serie tv capace come poche di raccontare chi siamo, guardandoci da lontano.

White Lotus è la catena di resort di lusso che non esiste, ma potrebbe. Maui, Taormina e Koh Samui sono alcune delle sue mete più esclusive. La clientela è danarosa, di alto livello, soprattutto americani. Tutto questo non accade nel nostro mondo, ma in quello di White Lotus, la serie HBO (in Italia su Sky) che da piccolo fenomeno è diventata uno degli show più rilevanti degli ultimi anni—insieme a Squid Game, Succession e pochissimi altri.

L’intuizione geniale di White Lotus è ambientare una serie in un luogo di vacanza. Nessuno l’aveva fatto prima. Ci sono episodi dei Simpson che giocano con l’idea (memorabile quello a casa di Ned Flanders), c’è lo spiaggiamento di Lost… eppure, la generazione delle serie tv, quella cresciuta con il mito di The Beach, ha completamente rovesciato la narrazione della vacanza, facendone un centro di gravità permanente delle proprie esistenze.

The White Lotus, terza stagione

Un tempo c’erano la casa al mare e quella in montagna, ottimisticamente di proprietà. Le partenze il venerdì sera, il rientro in coda la domenica. Un’idea di villeggiatura solida, rituale. Poi è arrivato il nuovo mito: borse North Face, scali infiniti negli aeroporti della penisola araba, storie Instagram con street food asiatico e una quantità spropositata di palme.

La vacanza 2.0

La vacanza dei millennial, generazione di viaggiatori, è un’esperienza sradicata dal quotidiano, un biglietto aereo intercontinentale. Ore su sedili economy cercando di dormire, in cuffia un film che non stai davvero guardando, un rito di passaggio verso qualcosa che deve accadere lontano. È un intero anno di lavoro sacrificato per un’esperienza che giustifichi il resto. È il mondo di WeRoad, Avventure nel Mondo e di quelle agenzie specializzate nell’accrocchiare sconosciuti per mandarli in posti “esotici” alla ricerca di esperienze “genuine”.

La vacanza è un sogno effimero, che spesso costa più energie di quelle che dovrebbe restituire. E in questa nuova epoca di turismo di massa, l’esperienza più agognata, l’unica che giustifica il sacrificio, è il resort: un non-luogo globale, identico ovunque come gli aeroporti, dove l’unica variabile è il prezzo, la quantità dei servizi, la bontà dell’architettura e la qualità del cibo.
 


The White Lotus
è una serie in bilico tra la commedia nera e la satira, popolata da personaggi che sono cliché incredibili e al tempo stesso credibilissimi. Il cast si resetta a ogni stagione, tranne qualche eccezione (Jennifer Coolidge, nel ruolo di Tanya McQuoid, che le è valso un Emmy e un Golden Globe), e il filo rosso che lega tutto si inizia a comprendere pienamente solo nella terza stagione.

Il resort è un non-luogo globale, identico ovunque come gli aeroporti, dove l’unica variabile è il prezzo, la quantità dei servizi, la bontà dell’architettura e la qualità del cibo.

I protagonisti sono quasi sempre americani benestanti—famiglie, coppie, gruppi di amici—concentrati su sé stessi, sulle loro ossessioni e sulla convinzione che la civiltà sia un concetto racchiuso tra la California e New York. Nella seconda stagione, ambientata a Taormina, le testate italiane hanno criticato il modo in cui venivano rappresentati i locals. Ma la realtà è che in White Lotus nessuno ha scampo: gli americani sono ridicoli tanto quanto tutti gli altri. Ed è bello così.

The White Lotus, seconda stagione

Resort, mito dei nostri anni

Con la prima stagione ambientata alle Hawaii, la seconda in Italia e la terza in Thailandia, Mike White ha spostato la sua serie sempre più lontano da casa, sempre più nell’esotico. Un percorso perfetto per raccontare il mito della vacanza.

Nel libro The Last Resort, Sarah Stodola disseziona il cliché del resort. Le palme, la piscina, la spiaggia bianchissima. Le simil-capanne come abitazioni. Altre palme, ancora palme, sempre palme. Un sogno lucido creato nel Novecento e poi serializzato. Prima neanche si andava in spiaggia.

The White Lotus, terza stagione

Il mito della villeggiatura di lusso inizia alle Hawaii, dove hotel come il Moana (che tra gli anni ’30 e i ’50 si dotò di elementi Art Deco e Bauhaus per aggiornarsi alle tendenze), il Royal Hawaiian e l’Halekulani diventano il cuore del jet set americano. È un’epoca in cui i ricchi fanno vacanze da ricchi e lasciano un segno permanente nell’immaginario collettivo, come tutto quello che accade tra gli anni ’30 e ’60, dai Beatles al mito di Kennedy.

Destinazione finale, aeroporto Suvarnabhumi

“Ho davvero bisogno di andare in Thailandia.” Di sicuro avete un amico che l’ha detto recentemente.

Ogni epoca ha i suoi miti, e il Sud-est asiatico è quello del nuovo millennio. Non una semplice vacanza, ma un’idea di vita diversa, un rovesciamento di tutto ciò che non va dalle nostre parti. L’illusione che basti un fuso orario di distanza per risolvere i problemi.

The White Lotus, terza stagione

Il viaggio come catarsi, da incastrare a forza tra un meeting e l’altro. Alle palme hawaiane si aggiunge la ricerca di spiritualità, il sogno di un’alternativa: lo sa bene Piper Ratliff, la ragazzina che nella terza stagione convince i genitori a portarla a Koh Samui per visitare il tempio di un monaco buddista.

White Lotus è una serie in bilico tra la commedia nera e la satira, popolata da personaggi che sono cliché incredibili e al tempo stesso credibilissimi.

Bali, il Vietnam—luoghi trasformati dal turismo—e la Thailandia sono il triangolo d’oro di questa nuova aspirazione vacanziera. Una tendenza che si intreccia profondamente con un’altra figura mitologica: il digital nomad, che non è altro che una persona che lavora dalla vacanza. Per alcuni un’idea insopportabile, per altri la massima ambizione di vita. Chissà se i vietnamiti vorrebbero lavorare dalla Versilia. Probabilmente sì.

The White Lotus, terza stagione

Bangkok, la fine del sogno

La Tailandia vista da Occidente, esotica e fantastica, landa di isole e vicoli alle colonne d’Ercole dell’immaginazione, prima di White Lotus l’hanno raccontata The Beach, di Danny Boyle, dal libro di Alex Garland, un film di 20 anni fa in cui l’avventura backpacker scivolava velocemente nella distopia; la capitale, Bangkok, spesso ha rappresentato il lato diabolico di quel regno asiatico che nello storytelling vacanziero è un paradiso: Only God forgives, il thriller ultra-violento ambientato a Bangkok con tanti neon e tantissime motorette di Nicolas Winding Refn con protagonista Ryan Gosling, e poi il popolarissimo secondo capitolo di The Hangover.

Ogni epoca ha i suoi miti, e il Sud-est asiatico è quello del nuovo millennio. Non una semplice vacanza, ma un’idea di vita diversa, un rovesciamento di tutto ciò che non va dalle nostre parti. L’illusione che basti un fuso orario di distanza per risolvere i problemi.

Lo scrittore britannico Lawrence Osborne è un Graham Greene dei nostri tempi. Il memoir Bangkok Days, in cui Osborne racconta i suoi anni in una città che oggi non c’è più, è quasi un libro sacro tra gli amanti dell’Oriente. Quella Bangkok povera e sfrenata, in bilico tra edonismo e spiritualità, per una generazione è stata quello che era Tangeri per Burroughs e la beat generation. L’ipotesi di una città libera, dove tutto costava poco e si poteva vivere arrangiandosi. E dove c’era ancora tempo per stupirsi, quel tempo che in Europa e negli Stati Uniti ci manca sempre di più.

The White Lotus, terza stagione

Ma anche Bangkok sta cambiando, si sta normalizzando. Oggi è una pulitissima, bellissima capitale globale.

Il colpo di coda del Sud-est asiatico è tutto nei suoi indici di crescita del PIL, mentre l’Europa arranca. E a quanto pare, per capire che la realtà che viviamo non è l’unica possibile, presto ci resteranno davvero solo i resort. E le loro palme. Finché i ruoli non si invertiranno, un po’ come vaticinava Michel Houllebecq in La mappa e il territorio, con il Vecchio continente che diventa un gigantesco museo a cielo aperto. A quel punto, noi che volevamo fare i digital nomad, scopriremo di essere diventati il resort.

Un bagno di luce

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