L’architettura al cinema è molto più efficace quando collabora con la storia, quando è un elemento tra i molti (magari importante, magari no) rispetto a quando è il centro del racconto. I film che parlano direttamente degli architetti o delle opere architettoniche di solito non rendono un gran servizio all’architettura o al design, a partire da come le opere sono inquadrate, con grande fatica nel coglierne la bellezza, i pregi o il potenziale rivoluzionario.
The Brutalist è l’eccezione a questa regola, il raro film che ha al centro la storia di un architetto e la creazione di una grande opera architettonica. Non solo mette su schermo alcune delle migliori immagini possibili di architettura e design, ma sa cogliere e rappresentare lo specifico di ciò che rende l’architettura una forma d’arte, e come si possa parlare di sé, del mondo e delle relazioni tra le persone attraverso il design e la progettazione.
Il film è diretto da Brady Corbet, ex attore ora cineasta a tempo pieno, che ha già girato Infanzia di un capo (un film di esordio di rara audacia) e Vox Lux (con Natalie Portman) ed è stato presentato in questi giorni in concorso alla Mostra del cinema di Venezia. Racconta di Laszlo Toth (interpretato da Adrien Brody), architetto inventato, ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento ed emigrato negli Stati Uniti dopo la guerra, passato dalle grandi opere progettate in Ungheria a fare l’operaio. Viene notato da un magnate (Guy Pearce) quando, lavorando con il cugino, gli rifà la libreria e la stravolge, realizzando una stanza moderna, disegnando un sistema di pannelli e un uso delle vetrate e delle finestre eccezionale, con in più una poltrona da lettura al centro della stanza fatta di tubolari e dalle linee sinuose.
Già quella creazione non solo è molto bella, ma viene ripresa da Corbet per enfatizzare quale traguardo visivo e artistico rappresenti. Dopo questa creazione, il milionario si informa, scopre che Toth era stato un architetto uscito dalla scuola Bauhaus, promette di portare in America sua moglie (Felicity Jones) e gli commissiona la realizzazione di un grande edificio che contenga una biblioteca, una palestra e un auditorium: un centro culturale da erigere da zero, che lui realizzerà in stile brutalista. La costruzione richiederà molti anni, con delle interruzioni a metà, e prosciugherà la vita dell’architetto. Senza svelare troppo, più il film avanza più è chiaro che questa sua creazione peggiora il progettista, perché è figlia del trauma che ha subito. Del resto, l’idea del film è partita dal volume di Jean Louis Cohen Architecture in Uniform, sul rapporto tra edifici e traumi della Seconda guerra mondiale.
È una celebrazione non solo delle grandi opere, ma di ciò che l’architettura può fare per le persone e per la società.
Il bello di The Brutalist è che è totalmente dedito alla sua materia. Questo è un film innamorato del design e dell’architettura, fin dai titoli di testa. È una celebrazione non solo delle grandi opere, ma di ciò che l’architettura può fare per le persone e per la società. Raramente un film ha saputo catturare l’essenza dell’arte architettonica come quando, al momento della presentazione della libreria costruita per il grande magnate, una delle persone invitate commenta: “Questa libreria mi ricorda una novella che ho letto anni fa su una biblioteca infinita…”, centrando quell’aspetto cruciale di ogni forma d’arte: la capacità di mettere in connessione, nella testa di chi ne fruisce, la propria forma con qualcosa di già esperito, altre sensazioni, altre opere, altre narrazioni che gli danno un senso. Far lavorare la mente attraverso le connessioni.
Il lavoro sull’architettura fatto dal film è serissimo, soprattutto considerando che Lazslo Toth è un personaggio inventato e che le opere che vediamo (finte e create per il film) sono disegnate e realizzate dalla scenografa Judy Becker (la stessa del film Carol) e non da un’archistar. Anche perché The Brutalist, nonostante non lo sembri, non è un film a budget elevato. Per elaborare lo stile di Toth sono stati mescolati elementi di tre noti architetti del periodo: le facciate e le grandi strutture di Paul Rudolph; la storia di Louis Kahn (anche lui ebreo e anche lui attivo in Pennsylvania) e i suoi tagli di luce che filtrano negli ambienti; le linee di Marcel Breuer, architetto e designer ungherese di scuola Bauhaus, da cui sembrano aver ripreso il design delle sedie e delle poltrone.
L’architettura al cinema è molto più efficace quando collabora con la storia, quando è un elemento tra i molti rispetto a quando è il centro del racconto.
Dunque, la stessa architettura del film è creata da zero per servire la trama, per poter funzionare nel momento in cui molto di The Brutalist sta nel mostrare la forza necessaria a costruire una grande opera, i titanici scontri con la committenza, i problemi di soldi, il rapporto con la manovalanza, i fornitori, i materiali (un viaggio a Matera è la parte che tira le fila su cosa il capitalismo fa a Toth). Non è un racconto poetico della creazione come momento di ispirazione artistica, ma piuttosto un racconto di uomini che fanno cose pesanti, dure e di grandissima precisione. Lo stesso si può dire per un film, e questo probabilmente era nella mente di Brady Corbet: creare un grande edificio è un’impresa in tutto e per tutto paragonabile alla creazione di un film, fatta di molti collaboratori, problemi di soldi, e di una grande tenacia per mantenere fede alla visione originale.
The Brutalist ovviamente è un film molto bello anche per chi non ha a cuore l’architettura, perché la usa per parlare di come le persone convivano con i traumi e come questi non possano che trovare manifestazioni nelle loro azioni. Eppure è anche un film che, per chi ha uno sguardo e un interesse per l’arte, non può non commuovere per il suo amore per la capacità degli esseri umani di creare qualcosa attraverso la fatica. Lo si vede chiaramente quando Toth, ancora operaio, completa la realizzazione della biblioteca. Dopo tutta la fatica, le molte persone coinvolte e lo sforzo fisico, rimangono il silenzio, la bellezza dell’opera finita e un senso di soddisfazione, pacificato con il resto del mondo.