Il Buco 2: quando l’architettura è metafora della sovversione

Il primo film, allucinato e claustrofobico, è stato un successo del lockdown.  Non a caso era ambientato in una immensa prigione. Ora arriva il seguito, sempre su Netflix.

Per chi ha un abbonamento a Netflix, l’arrivo di Il buco 2 è stato un piccolo viaggio indietro nel tempo, al marzo del 2020, quando in diversi Paesi del mondo erano iniziati i primi lockdown e in altri si diffondeva la consapevolezza che fosse meglio non entrare in contatto con il prossimo, visto il propagarsi del Covid-19.

Il buco è un film spagnolo, uscito nelle sale in patria nel 2019, e nel resto del mondo distribuito da Netflix proprio in quel momento, quando moltissimi sottoscrivevano un abbonamento alla piattaforma consapevoli del molto tempo che avrebbero trascorso in casa. In molti, quindi, hanno guardato un film che basa tutto il suo significato su un’idea di progettazione e di convivenza, su una costruzione che, per come è concepita, indirizza le persone verso certi rapporti, sia di forza che di controllo.

Galder Gaztelu-Urrutia, Il Buco 2, 2024. Courtesy Netflix

 Nel periodo di massima sfiducia verso gli altri, arrivava il film con la metafora perfetta di quello che si iniziava a temere: gli altri ci osservano, dobbiamo agire per il bene comune e non essere egoisti, e dalle nostre azioni dipende la sopravvivenza di coloro che si trovano in posizioni più deboli. Nel 2020 Il buco fu un grandissimo successo, prevedibilmente. Oggi tutto è diverso, e quello stesso buco ha un significato completamente differente.

Al centro della storia c’è una prigione immaginaria e fantastica, che si sviluppa in verticale su più di 300 piani comunicanti attraverso un gigantesco buco quadrato al centro dell’unico ambiente (cioè la cella), in cui vengono imprigionate persone di varia estrazione e diverso passato. C’è quindi un’idea di design in negativo, realizzata sottraendo una parte di tetto e pavimentazione, che cambia la vita dei personaggi.

Galder Gaztelu-Urrutia, Il Buco 2, 2024. Courtesy Netflix

Da ogni piano si possono vedere sia quelli inferiori che quelli superiori, anche solo sporgendosi. In questo buco quadrato scende ogni giorno una piattaforma piena di cibo che sosta a ogni piano per diversi minuti. Chi sta in alto mangia per primo e ha un’ampia scelta, mentre i piani inferiori hanno sempre meno scelta; gli ultimi possono solo sperare che sia rimasto qualcosa. Ogni mese i prigionieri cambiano piano: chi era sopra può finire sotto e viceversa, chi era aguzzino ieri può essere vittima oggi; chi lamenta l’egoismo dei piani superiori oggi può mettere alla prova il proprio altruismo domani.

La sola costruzione delle celle di Il buco è uno stimolo a una diversa interazione tra le persone. E la cosa più interessante è che anche questo, come la metafora del film, è immediatamente comprensibile da tutti.

La forza di Il buco e anche di Il buco 2 sta proprio nel fatto che non è difficile intuire di cosa parlino realmente questi film, quale sia il loro argomento e cosa vogliano dire sulle società in cui viviamo, sulla scarsità delle risorse e soprattutto sull’atteggiamento degli esseri umani. Una metafora estremamente accessibile, con molti livelli di lettura diversi.

Il primo film si concentrava sui meccanismi predatori, su come chi è in posizioni privilegiate non pensi a chi sta sotto, e su come, quando chi per molto tempo ha sofferto si trova di colpo a diventare un privilegiato, invece di voler cambiare qualcosa ne approfitti, comportandosi come chi lo ha preceduto. Il secondo film invece si concentra sulle forze che in ogni società spingono per la sovversione, quelle che vogliono una nuova organizzazione più giusta e in cui tutti possano prosperare. Tuttavia, i mezzi con cui il cambiamento viene imposto sono quasi peggiori dello status quo che combattono.

Galder Gaztelu-Urrutia, Il Buco 2, 2024. Courtesy Netflix

A non cambiare da un film all’altro è il fatto che tutto questo si manifesta attraverso il medesimo design, cioè il medesimo buco che rende i piani comunicanti e fa passare la piattaforma con il cibo come per magia. Non ci sono guide e cavi (almeno visibili), la piattaforma è calata apparentemente dal nulla. Ma più di tutto è proprio l’idea di una vita in comune, in una sorta di infinito condominio in cui i prigionieri guardano gli uni nelle celle degli altri che, in questo sequel, è ancora più forte.

Il controllo sociale, in un impossibile edificio senza pareti e (quasi) senza tetti e pavimenti, è totale. Non servono videocamere di sicurezza o entità governative che ascoltano: basta progettare residenze in cui l’intrusività degli altri è pressoché totale. La sola costruzione delle celle di Il buco è uno stimolo a una diversa interazione tra le persone. E la cosa più interessante è che anche questo, come la metafora del film, è immediatamente comprensibile da tutti.
 


Non serve una laurea in architettura per capire cosa possa accadere nel momento in cui il sostentamento delle persone dipende direttamente dagli altri, e le azioni di ognuno possono essere controllate. Come non serve una laurea per capire che quel design brutalista, fatto di cemento armato non adornato e senza rifiniture, è la perfetta rappresentazione di una società ridotta all’essenziale: il problema di ognuno è quello primario, mangiare, e basta solo che ogni prigioniero si cibi in modo equo perché ci siano risorse a sufficienza per tutti.

Il buco 2 amplia ciò che questo design così semplice può dire a tutti, e cioè che le separazioni tra gli spazi in cui viviamo, gli ambienti di passaggio, le aree comuni allargate e usate come cuscinetto tra diverse aree private, non sono solo funzionali alla vita sociale, ma sono indispensabili per la tenuta del tessuto sociale. 

Locandina de Il Buco 2, 2024. Courtesy Netflix

Una maggiore vicinanza, una maggiore intrusività e una maggiore possibilità per le persone di stare insieme non negli spazi pubblici, ma in quelli privati, è la miccia che alimenta la parte peggiore dell’umanità. L’architettura degli spazi urbani come degli interni, dei palazzi, dei condomini e delle singole case non è solo una maniera di migliorare la funzionalità della vita, ma anche uno dei molti possibili strumenti per indirizzare le interazioni tra le persone.

Le separazioni tra gli spazi in cui viviamo, gli ambienti di passaggio, le aree comuni allargate e usate come cuscinetto tra diverse aree private, non sono solo funzionali alla vita sociale, ma sono indispensabili per la tenuta del tessuto sociale.

La rivoluzione a cui assistiamo in Il buco 2, quella di un gruppo di ribelli che vogliono ottenere che tutti mangino solo il giusto, così che il cibo basti fino ai piani bassi, è una dittatura imposta con la violenza, guidata da una figura simil-profetica, fatta di imperativi che non possono essere discussi e fomentata dalla delazione, dal sospetto e dalla rigidità.

Guardare cosa fanno gli altri nella loro cella non è mai un atto neutro: vediamo personaggi che lo fanno con disgusto, altri che lo fanno con spirito di ammonimento, altri ancora con timore o con minaccia. Alla fine, quello che è chiaro è che per far emergere gli istinti più bassi delle persone e rivelarne le pulsioni, non è solo necessario metterle in condizioni di dipendenza reciproca, ma serve anche uno spazio particolare, pensato e progettato per quello.

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