Cos’è la bellezza nell’era di TikTok e dell’AI?

Una mostra a Basilea accende i riflettori sulla bellezza ai tempi del post-internet. Un’indagine sull’alterazione dell’identità e la frammentazione del sé, alla ricerca ossessiva di un ideale irraggiungibile.

Lo sviluppo della tecnologia degli ultimi anni ci ha suggerito che i nostri limiti, prima apparentemente insormontabili, potessero finalmente essere superati: la fragilità e la caducità del corpo, ormai resa obsoleta dai farmaci, o ancora l’invecchiamento, contrastato dalla medicina e dai trattamenti estetici più o meno invasivi Gradualmente, il progresso ci ha indotto a pensare che la morte fosse ormai soltanto un brutto ricordo. Mentre l’estetica post-umana si faceva sempre più “ibrida”,  l’avvento dei media digitali, dei filtri sui social media, delle dating app e, infine, dell’intelligenza artificiale e del deep fake ha irrimediabilmente alterato il concetto di “bellezza” così come eravamo abituati a conoscerlo. 

Virtual Beauty, Hek, Basilea, Svizzera. Courtesy Hek

All’HeK (House of electronic Arts) di Basilea, la mostra Virtual Beauty indaga come il digitale abbia dato forma a questa nuova nozione di “bello”, approfondendo come tale evoluzione abbia cambiato (e stia tuttora cambiando) il modo in cui percepiamo la nostra stessa identità (e non solo online, ma anche nel mondo reale). 

La storia della bellezza nell’era del post-internet è quella di un’ossessione per la modificazione del corpo che trova un antefatto nevralgico nella chirurgia estetica: non a caso, il percorso espositivo prende avvio con una documentazione di una delle celebri performance della francese Orlan, che fin dagli anni Ottanta si sottopone a una serie di operazioni chirurgiche, rendendole uno spettacolo pubblico che solleva questioni sui tabù sociali e sugli standard inarrivabili. Omnipresence (1992) è la testimonianza video sul suo 17esimo intervento. Una riflessione, quella di Orlan, che negli anni Novanta si inserisce perfettamente nel solco della teoria post-umana, che stava emergendo grazie agli sforzi del curatore Jeffrey Deitch – che nello stesso anno di Omnipresence concepisce l’iconica rassegna itinerante Post Human, approdata anche al Castello di Rivoli – e a testi seminali come Manifesto Cyborg di Donna Haraway (pubblicato per la prima volta nel 1985). 

Virtual Beauty, Hek, Basilea, Svizzera. Courtesy Hek

Sono gli stessi anni in cui fiorisce e si diffonde, tra le celebs dello star system statunitense, l’imprescindibile stile heroin chic, un ideale di bellezza emaciato e consunto, ma soprattutto magrissimo. Loneliness Besides The Swimming Pool (2023), dell’artista Maria Guta, è un monumentale collage che si estende sulla parete dell’ingresso dell’HeK, rendendo omaggio alle copertine dei rotocalchi di quegli anni, precursori dell’idealizzazione e dell’esposizione mediatica degli influencer. Ancora, torna il tema dell’immortalità, che sembra illusoriamente raggiungibile attraverso la forma perfetta e l’auto-messa in scena della propria immagine alterata. 

La storia della bellezza nell’era del post-internet è quella di un’ossessione per la modificazione del corpo che trova un antefatto nevralgico nella chirurgia estetica.

Un processo, questo, che passa inevitabilmente per l’avvento dei social media: Kylie Jenner x Beauty_GAN (2019) di Daniel Sannwald propone tre gigantografie che ritraggono la più giovane delle Kardashian con metà del volto distorto da un programma chiamato Beauty_GAN, uno dei primissimi filtri che utilizzano l’intelligenza artificiale (e che attinge a un dataset di oltre 17mila selfie di Instagram). Ancora filtri nel video (2022) di Bunny Kinney, ma in una versione distopica in perfetto stile Black Mirror: l’artista propone un fake commercial di un’interfaccia cerebrale che permette di alterare la percezione del proprio volto in tempo reale, rendendo obsoleta la chirurgia plastica. 

Virtual Beauty, Hek, Basilea, Svizzera. Courtesy Hek

Un altro aspetto che non si può sorvolare, in questa odissea alla scoperta della bellezza nel post-internet, è l’ipersessualizzazione del corpo femminile, indagata nell’installazione multimediale A Cybernetic Doll's House (2023) di Arvida Byström. In sala, un video con mostra l'artista che interagisce con la sex-doll Harmony, generata dall’intelligenza artificiale. Davanti allo schermo, due manichini – oggetto e soggetto ricorrente anche nella filosofia post-umana – senza testa, invitano silenziosamente lo spettatore a riflettere sulla complessità dell’intimità e sui modi in cui il digitale agisce su di essa, rendendola pubblica o mettendola nelle mani di intelligenze sintetiche. A cura di Gonzalo Herrero Delicado, Bunny Kinney, Mathilde Friis e Marlene Wenger, la retrospettiva resta visitabile fino al prossimo 18 agosto.

Immagine di apertura: Courtesy Hek Basilea