L’anamour: l’impeccabile progetto di eleganza quotidiana di Jane Birkin

L’attrice, cantante e modella inglese diventata simbolo parigino è stata una arbiter elegantiae capace di influenzare la storia del costume con classe e disinvoltura.

Quando si fanno i conti con l’abusato e inflazionato termine di ‘icona’, con quei volti-santino che hanno saputo diventare significanti di un ben preciso spaccato storico e del costume, si finisce spesso per pescare dai ‘60. A pescarci come i numeri di una lotteria un bambino bendato in sagra da una cesta di vimini intrecciato, sapendo che comunque vada si vincerà. Tra questi, proprio con una borsa di vimini intrecciato in mano, c’è stata, c’è e ci sarà Jane Birkin, all’anagrafe Jane Mallory Birkin, per gli intimi Jane B, come Serge Gainsbourg, compagno di vita e dischi suavemente sussurrati, firmò una delle sue più celebri canzoni.  Scomparsa nel suo appartamento parigino all’età di 76 anni, il soggetto Birkin è stato icona nella capacità – condizione e privilegio di pochi – di trascendere la sua epoca d’oro, la sua jeunesse dorèe prima londinese poi parigina, alimentando stili e costumi sempre rinnovati, sempre atemporali come la grazia essenziale degli arrangiamenti dei suoi album o di un top in crepe bianco indossato con nonchalance su un paio di blue jeans scampanati, delle mary jane e una sigaretta che si consuma con disillusione tra le dita. Un look essenziale il cui contraltare erano i pomposi gessati e le basette arruffate di Serge Gainsbourg, le sue scarpe affusolate in pelle bianca confezionate su misura e la stella di David in argento, acquistata da Cartier e portata al collo per sbattere in faccia alla Francia più conservatrice di avercela fatta. 
 


Oltre il soggetto Jane B è stata icona soprattutto per la sua capacità osmotica di trasformare a sua volta in icona tutto ciò con cui interagiva, come una Re Mida dell’etichetta. Pur non essendo mai stata designer, è stata capace di prendere oggetti comuni – come una borsa in vimini intrecciato o un paio di jeans rattoppati – plasmandoli, attraverso endorsement effortless e privi delle sovrastrutture imposte dalla comunicazione contemporanea, in pilastri estetici trasversali a mode e generazioni. Un look eterno poiché naturale, diretta trasposizione del suo approccio alla vita. La stessa Birkin dichiarava a Vogue nel 2016, commentando la sua refrattarietà alle telecamere, “La vita reale è ciò in cui sono più brava”. Ecco perché i suoi diari, redatti dal 1957, e raccolti in due volumi, restituiscono un’intimità straordinaria perché semplice, in cui potersi immedesimare. Come quella volta che nel 1984 su un volo Parigi-Londra, il contenuto della sua celebre borsa cadde dalla cappelliera. Il destino, jet-set obblige, volle che il suo vicino di posto fosse Jean-Louis Dumas, chief executive di Hermès che raccolse la lamentela dell’attrice e modella nel reperire una borsa da weekend in pelle, simultaneamente stilosa e funzionale. Così nasce la Birkin, modello di borsa tra i più costosi e difficilmente accessibili sul mercato.

La canzone, ironizzava Jane, ‘sarà il pezzo che suoneranno non appena tirerò le cuoia’

Prima della consacrazione della moda, sono le riviste erotiche a celebrare lo charme enigmatico di Jane B, che rivedono in lei e nei suoi duetti con Gainsbourg un’eroina della liberazione dei costumi sessuali. Insieme a lei, come nel celebre numero del 1973, Brigitte Bardot, sua nemesi sia nelle forme che nella liaison amorosa con Gainsbourg, che in origine aveva pensato la sua “Je T’Aime…Moi Non Plus” proprio per BB. Servizi in cui il mensile si vestiva di una carica erotica intellettuale, certo non casta, ma maliziosamente pudica. La stessa che portava con grazia Jane Birkin. 


Si pensi alla copertina del numero 61, dell’"année érotique" 1969, in cui posa su una poltrona Elda di Joe Colombo. Una delle diverse sedute di design modernista su cui negli anni ritroveremo Jane B, come la Blow Inflatable Chair del 1967 di De Pas, D’Urbino, Lomazzi per Zanotta. Nel 1974, sempre sulle pagine di Lui, il celebre editoriale per la lente di Francis Giacobetti che tra velluti, chiaroscuri caravaggeschi e accenni di violenza saffica sintetizza il rapporto, che oggi definiremmo tossico, tra Jane e Serge.  Una relazione senza dubbio burrascosa, intensa, un rincorrersi di je t’aime…moi non plus, come la volta che Serge liquidò con cinismo tranchant la più giovane compagna durante una cena parigina al cospetto di importanti commensali, salvo poi rincorrerla fino alle rive della Senna dove la modella inglese minacciava un sucidio da Ophelia. 

Slogan, di Pierre Grimblat (1969)

Si può sostenere che questa attitudine tipica da It Girl dei ‘60, un turbine di erotismo, svampitezza, aplomb, drama barocco, impulsività nell’amare e nel soffrire di conseguenza, nonché di sottomissione ma anche di fatale seduzione, abbia fatto scuola, in un eterno citazionismo elevato a stile di vita, tanto adorato dalle adolescenti degli anni ruggenti di Tumblr quanto celebrato dalla moda.  D’altronde il suo essere, senza soluzione di continuità, modella, cantante, attrice, arbiter elegantiae, influencer ante litteram la mette oggi in luce come figura straordinariamente contemporanea. 

Non è sbagliato vedere in Jane Birkin l’avanguardia dello stile Heroin Chic che avrebbe poi fatto proseliti nei Duemila in virtù dei suoi tratti efebici, quasi androgini, e delle sue molteplici relazioni (oggi farebbe forse autoironia social o nei testi delle canzoni sui suoi ‘daddy issues’) con musicisti maturi – le nozze a 19 anni con il compositore inglese John Barry, l’incontro a 21 con il crooner francese Serge Gainsbourg. Il sorriso con gap tooth tutt’altro che ortodosso per i canoni della moda tradizionale, diventa con Jane B uno stilema che negli anni sarebbe poi stato incarnato da figure come Kate Moss o Danni Miller, e dalla campagna-simbolo dell’iconografia Heroin Chic e Indie Sleaze, quel celebre “Get The London Look” dei cosmetici Rimmel. 

Histoire de Melody Nelson, concept album di Serge Gainsbourg (1971)

Nata in Inghilterra da un eroe della marina militare di Sua Maestà e da Judy Campbell, attrice e musa di Noel Coward, Birkin ha saputo incarnare come nessun altro l’estetica di Parigi, città di adozione, plasmando a sua volta l’iconografia ripresa da altre icone non francofone che sono però diventate eredi del suo portamento, come Carla Bruni e Alexa Chung. Non stupisce che il presidente francese Macron la abbia salutata come “icona francese”.  Per assurdo, lo stile yè-yè di cui Birkin fu paladina insieme a Françoise Hardy diventò la risposta libertina, svampita ma per questo non meno intellettuale della Francia alla Swinging London, ribaltando con leggerezza provocatoria quello che da secoli era stato il punto di vista maschile sulla creazione della figura femminile di successo. Il ribaltamento di uno stilema preso per garantito, come ne “L’Anamour” canzone del primo album del duo Jane Serge, in cui la negazione dell’amore diventa in realtà inno erotico. Lo comprese bene Gainsbourg che, in due momenti chiave, si divertì a reimmaginare Birkin. Lo fa sulla copertina del concept album “Histoire De Melody Nelson”, in uno scatto di Tony Frank in cui Jane diventa un ragazzino androgino e libero, come raccontano i jeans a zampa stone washed rattoppati che indossa e i capelli corti e arruffati. A coprirle i seni solo una una bambola di pezza stretta al petto. La bambola, per volere di Birkin, fu seppellita insieme a Serge alla sua morte nel ‘91.  Ma anche nel film Je T’Aime Moi Non Plus del 1976, in cui Gainsbourg dirige una Birkin dai tratti maschili che seduce un ragazzo omosessuale, interpretato dal volto warholiano Joe Dallesandro. 

La Piscine di Jacques Deray (1969), frame dal film

La canzone, ironizzava Jane, “sarà il pezzo che suoneranno non appena tirerò le cuoia”. Croce e delizia della sua carriera, che vanta nella settima arte un curriculum invidiabile. Dagli esordi in Blow Up di Antonioni, a La Piscine di Jacques Deray (1969) al fianco di Alain Delon, fino ai lavori della maturità sotto la direzione di importanti firme come Agnès Varda con cui lavora nel 1988 in “Jane B. par Agnès V.”. La canzone è l’unica francese che i musicisti giamaicani con cui Gainsbourg registra il suo album reggae Aux Armes Et Caetera conoscono. Nel tour del disco, Jane segue Serge in un clima di tensione, minacce politiche e telefonate minatorie che si crea in seguito alla cover in levare che Gainsbourg fa della Marsigliese. Una sera, a Strasburgo, il teatro è picchettato da paramilitari, i musicisti rasta non vogliono sentirne di salire sul palco, Jane segue da bordo palco, trincerata dietro gli amplificatori. Gainsbourg è solo, intona l’inno a cappella, i militari non possono far altro che alzarsi in piedi e unirsi in coro. Il migliore dei teatri dell’assurdo. Assurdo come la vita che Jane, guardandoci indietro, sembra avere vissuto, specialmente se rapportata a un presente in cui facciamo di tutto pur di non apparire noi stessi, pur di strappare un posto in un jet-set decisamente più caciarone e altrettanto scarno di icone, autentiche.

Immagine di apertura: La Piscine, 1969, fotogramma dal film.