Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta a fine agosto 2020, ovvero durante l'estate che è seguita al primo lockdown in Italia. Pur rimanendo attuali le cose che vi si dicono, va quindi contestualizzato in quel periodo.
Da qualche anno presenza silenziosa che scorre lungo la città, sulle spalle le grandi borse termiche con la livrea e i loghi delle multinazionali per cui trasportano soprattutto pasti a domicilio, i riders sono stati protagonisti della metropoli fantasma del lockdown. Cantati come eroi della quarantena dai media, i riders sono soprattutto i deuteragonisti del nuovo precariato urbano, una categoria di lavoratori esposta e fragilissima che si muove all’intersezione tra il nuovo capitalismo delle piattaforme digitali, le migrazioni, la gig-economy e, appunto, gli spazi aperti dalla pandemia globale. Succede in tutto il mondo e succede a Milano, dove il tribunale a fine maggio ha commissionato Uber Eats per caporalato.
Un documentario di un quarto d’ora circa di durata, Riders not heroes, realizzato da 2050+ e -orama, cattura nell’essenza le condizioni di lavoro e la vita dei riders della città italiana durante la pandemia, anche attraverso la voce del rider e artista Lupo Borgonovo, e il suo sguardo in prima persona sulla città deserta catturato da tre GoPro. Delivery si intitola il suo progetto personale composto dalle foto scattate all’interno dei palazzi in cui ha effettuato le consegne, divise per categorie che si sono spontaneamente create, “un modo per costruire un’unica architettura formata da frammenti di interni diversi”. Un assaggio è nella gallery qui sotto.
Il video di Riders not Heroes costituisce il primo capitolo di un progetto nato prima e durante il lockdown, attraverso un dialogo creativo da remoto e su Zoom che si è riflesso nel linguaggio di questo film, un desktop movie che si costruisce per accumulazione. “I riders rappresentano un nodo di tensioni attraverso cui raccontare il momento critico che stiamo vivendo”, racconta il fondatore di 2050+, Ippolito Pestellini Laparelli. “Sono il punto di incontro tra le due parti di società che sono emerse durante il lockdown: coloro che erano confinati a casa e coloro invece che per necessità sono stati costretti per lavorare ad uscire di casa”. Due categorie, continua Pestellini Laparelli, “opposte ma connesse dall’interfaccia di un telefono”.
Serviva il lockdown perché ci accorgessimo dell’esistenza dei riders?
Il lockdown in gran parte del mondo da una parte ha reso visibile il fenomeno dei riders per sottrazione, perché erano fra le pochissime categorie a muoversi per strada; dall’altra ne ha determinato una crescita esponenziale dovuta all’aumento della richiesta da parte di coloro che erano confinati a casa. Questo vale per Milano come per altre città. Il documentario è girato a Milano perché abbiamo passato il nostro lockdown a Milano.
Domani i riders potrebbero essere sostituiti dai droni, si accenna nel finale del video.
Si tratta di un’evoluzione possibile, e forse inevitabile, ma per la quale c’è ancora molta strada da fare. È una transizione che riguarda non soltanto la tecnologia, ma anche lo spazio urbano, il mondo in cui è stato concepito e come si è evoluto. Le città Europee consolidate si sono formate nei secoli, attorno alla presenza dell’uomo. Dovranno essere ripensate in chiave di nuove forme di mobilità e automazione, sia a terra che nel loro spazio aereo e dovrà essere rinegoziata la coesistenza uomo-macchina. In questa prima fase si continueranno a sperimentare modelli ibridi, in cui nei servizi di consegna si alterneranno droni e umani.
Dal punto di vista dei diritti, i riders ricevono già un trattamento più da macchina che da essere umano.
Qualche mese fa, Benjamin Bratton ha scritto che nel corso del lockdown dovuto alla pandemia, le “catene dell’automazione” sono emerse come un nuovo spazio pubblico che ha consentito di mantenere intatta la nostra struttura sociale. È un’affermazione potente, ma pericolosa. Dovremmo sempre ricordarci che al termine di quelle catene ci sono persone vere.
I riders rappresentano al più una delle nuove frontiere del lavoro, del precariato digitale. Forse sono il caso più ovvio e eclatante di sfruttamento del cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”. La lotta per i loro diritti si muove su un territorio nuovo e poco controllato, ma è una partita cruciale perché è misura dello incontro\scontro tra due modelli, uno novecentesco ed uno proiettato nel futuro, verso i diritti di nuove categorie di lavoratori da una parte, e verso forme di regolamentazione delle piattaforme dall’altra.
Si può fare un qualche parallelo tra l’esplosione delle ciclabili nelle metropoli di mezzo mondo e quello delle consegne in bicicletta?
Non ho dati esatti a riguardo, ma credo che il parallelo abbia senso. Si tratta di una trasformazione in chiave ambientale del modo in cui viene concepita la mobilità urbana, oltre l’utilizzo di combustibili fossili e mezzi tradizionali. La nuova logistica 4.0 si muove in generale in questa direzione. Amazon lavora ormai da tempo sull’ultimo miglio, sperimentando l’utilizzo di droni, veicoli elettrici o bici-cargo nell’ultimo tratto delle consegne. In prospettiva dovremo ripensare tutto il sistema stradale, sottraendo spazio alle automobili, per darlo a mezzi leggeri e sostenibili, e per aumentare spazi verdi collettivi. Milano sembra muoversi in questa direzione ma c’è ancora una lunga strada da percorrere.
Multati, con il divieto di accedere ai treni in bici, sottopagati. La politica non vuole bene ai riders. Pensi che le città dovrebbero invece salvaguardarli? Come?
Partiamo dagli spazi. In attesa che la politica vanga in loro soccorso, le città potrebbero offrire ai riders piste ciclabili sicure, ciclo-officine dedicate, luoghi dove potersi riposare, dove lasciare le proprie bici al termine dei turni di consegna, forse rifugi dove poter passare la notte in sicurezza. I riders – come molti lavoratori essenziali – hanno avuto una funzione cruciale nei mesi passati. Con un occhio al futuro, città come Milano potrebbero riconoscerlo.
E poi ci sono città che i riders li hanno semplicemente vietati.
Non credo che debbano essere vietati. Credo che il loro lavoro debba essere regolamentato e i loro diritti tutelati. A partire dalla crisi finanziaria del 2008, l’esplosione della gig-economy ha consentito a masse di persone di rimettersi in piedi e trovare nuove forme di sostentamento. Lo stesso discorso vale anche adesso. Nella nostra ricerca abbiamo intervistato alcuni riders che sono stati molti franchi sulla necessità e i vantaggi di questa attività – per alcuni è la principale o l’unica fonte di guadagno.
Naomi Klein, in un articolo di cui si era parlato molto in pandemia, tratteggiava un mondo distopico in cui noi siamo perennemente in casa, incollati a device che sanno già cosa vogliamo, dal cibo a Netflix a quant’altro, e acquistiamo senza quasi mai muoverci dal divano. Che poi non è molto diverso da come abbiamo vissuto durante il lockdown.
Da anni si parla dei rischi sulle nostre libertà civili di quello che viene comunemente definito Capitalismo della Sorveglianza (altro nome del Capitalismo della Piattaforma). Il confinamento durante i mesi più critici della pandemia ci ha proiettato improvvisamente in uno scenario distopico ma reale, con una società fratturata tra chi era bloccato a casa e chi era costretto per necessità ad uscire per continuare a lavorare. In linea con Naomi Klein, In un articolo pubblicato qualche settimana fa su ArtForum, Paul Preciado descrive i primi “soggetti senza contatto”, dominati da intelligenze algoritmiche, che ne orientano scelte e decisioni, in un meccanismo infinito di feed-back loop. Già anni fa Evgney Morozov, parlava di Algorithmic Regulation, come la forma più simile ad un programma politico da parte dei colossi della Silicon Valley. Con la migrazione on-line in questi mesi di gran parte delle nostre esistenze questa condizione è diventata ancora più estrema, segnando in parallelo un’enorme crescita di valore (e potere) delle potenze della big-tech, Amazon in primis.
Michael Gough, vicepresidente di Uber, in una conversazione che abbiamo avuto prima che scoppiasse la pandemia, mi raccontava come l’ambizione dell’azienda sia quello di diventare il sistema operativo delle città.
Credo che Amazon, Siemens o altre piattaforme abbiano le stesse ambizioni. È una prospettiva che non condivido assolutamente, che peraltro arriva da Uber, una delle società più aggressive sul mercato e maggiormente criticate negli ultimi anni per competizione sleale e sfruttamento. Il sistema operativo delle città deve rimanere di interesse pubblico e a gestione pubblica, perché dovrebbe tutelare i diritti dei cittadini, migliorando l’offerta servizi. Ovviamente questo non esclude modelli collaborativi con piattaforme private. È una questione politica, di sovranità dei dati da parte dei cittadini, e di competizione equa. La strada percorsa da Francesca Bria a Barcellona e attraverso l’iniziativa DECODE ha rimesso gli abitanti al centro di questi processi, consentendo ai cittadini di decidere a chi ed in che modo fornire i propri dati. Si tratta di un progetto di Data Commons e ha come obbiettivo da una parte la regolamentazione dell’operato delle grandi piattaforme private, dall’altra la raccolta di un’intelligenza collettiva di dati per la costituzione di piattaforme pubbliche, volte al miglioramento dell’offerta delle nostre città.
2050+ è una agenzia interdisciplinare di Milano che lavora all’intersezione tra tecnologia, ambiente, politica e architettura.
Team: Ippolito Pestellini Laparelli, Mattia Inselvini, Erica Petrillo, Massimo Tenan.
-orama è una agenzia creativa di Milano che lavora nei campi di arte, design, cinema e architettura.
Team: Davide Rapp, Andrea Dal Martello, Giorgio De Marco.