Come abbiamo abitato in quarantena: un diario (16 marzo-8 maggio 2020)

In un appartamento condiviso, in 35mq, in una casa fuori dal nulla, da soli o in compagnia: comunque “chiusi dentro”. Per due mesi abbiamo raccolto idee, progetti e storie sull’abitare nei giorni del Coronavirus e su cosa succederà dopo.

Alberto Ponis, schizzo di Stazzo Pulcheddu, 1975

Immagine di apertura:  Alberto Ponis, schizzo di Casa Stazzo Pulcheddu, 1975

8 maggio

La fine (un nuovo inizio)

Lunedì 4 maggio, è iniziata la Fase 2. Alle 18:30 stacco da lavoro e vado a fare una passeggiata al Parco Trotter, che finalmente ha riaperto. C’è tanta gente, anche dei ragazzi che giocano a pallone nel piazzale principale. Passa la municipale e li fa smettere. In qualche modo questo diario finisce lì.
Questa nuova fase restituisce alcune libertà, chiude un occhio su altre cose. Non è una vera e propria svolta. Ma sicuramente un allentamento della quarantena lo è. Ci troveremo con un nuovo picco di contagi tra 15 giorni? A giudicare dalle famiglie in giro senza mascherina e dai ragazzi che si scolavano l’ennesimo Negroni tra torri di bicchieri di plastica vuoti, forse sì.
(AS)

Non sono ancora uscita. Tutti continuano a ripetermi “esci, esci che ti farà bene!”: Alessandro, mia mamma, i colleghi, gli amici. In questi primi giorni di Fase 2 ho osservato dal mio balconcino sempre più persone brulicare sui marciapiedi, guidare le loro macchine con la musica a palla, o sulle loro bici con i sacchetti della spesa appesi al manubrio.  
Mi sento come quando, da bambina, mia nonna mi bagnava le gambe e le braccia con l’acqua del mare per farmi prendere confidenza con la sua temperatura, per convincermi poi – finalmente – a farmi il bagno.
Ci mettevo un po’ ma poi finivo per restare in acqua tutto il giorno.  
Presto uscirò e sarà un’altra storia.
(GR)

In questi quasi due mesi abbiamo messo insieme idee, presentato progetti, parlato con persone. Grazie a queste voci, abbiamo raccontato una condizione dell’abitare unica da quando Domus è nata. Ci saranno nuove cose da raccontare, nuove sfide da affrontare. Questo diario si chiude con la fine della quarantena, dell’isolamento. Non sono finite la paura e l’emergenza, ma nemmeno la voglia di costruire un futuro migliore. Per quello, però, serve un altro diario. 
(GR + AS)

7 maggio

Ripartire dalla bellezza

Da quando abitare coincide con l’essere immersi nello smartphone, la casa come dimensione dello spirito è diventata superflua: un luogo che non si presta più né a vivere né a convivere. Forse abitare stanca. Facciamo il vuoto allora, e buttiamo tutti gli oggetti che non accarezziamo più, quelli che non sono partecipi delle nostre lacrime, quelli che non sappiamo da dove provengano anche se ci hanno seguito nei nostri traslochi, quelli che non porteremmo mai nella tomba.
Salviamo solo le cose che ci saranno anche dopo di noi: gli oggetti inevitabili.

Mario Trimarchi, Natura morta con Rodin, 2020
Mario Trimarchi, Natura morta con Rodin, 2020

Attorno a questi potremo ricostruire il senso perduto dell’abitare come mistero della Bellezza, facendo della casa un luogo di contemplazione di una nuova primavera, ripulita dalle polveri sottili dell’amnesia.
Ripartendo dalla Bellezza torneremo ad “abitare poeticamente” e riusciremo così ad affrontare il bradisismo economico e sociale del dopo pandemia con l’animo impercettibilmente più leggero.

Mario Trimarchi è un architetto e designer italiano.

Mario Trimarchi, Natura morta con Rodin, 2020

6 maggio

Alberto Ponis, un archivio di case

Alberto e Annarita si trovano a Palau quando mi rispondono al telefono: lì stanno lavorando alla sistemazione dell’archivio dello studio, un lavoro iniziato ormai quasi 10 anni fa, mi raccontano. Mi portano con loro, in una visita virtuale della casa in cui abitano che è “edificio ai bordi e vuoto dentro”. Una casa che lentamente discende da una corte all’altra, passando per il giardino, scandito in piccoli terrazzamenti popolati dal fico, il rosmarino e il papiro, fino al canneto che anticipa il mare.

Il maestro, genovese di origine e viaggiatore di spirito, approdò in Sardegna dopo gli studi a Firenze e il lavoro da Ernő GoldfingerDenys Lasdun a Londra, negli anni Sessanta. Proprio nella capitale inglese ebbe “una folgorazione per il paesaggio urbano, il rosso squillante delle cassette delle lettere e i portoni delle case blu”. Fu con l’amico artista Enzo Apicella che arrivarono alcune commesse in Sardegna, negli anni del boom edilizio-balneare “arrestatosi troppo tardi”. Dalla prima casa a Palau (pubblicata su Domus n.419, 1964) – dipinta di bianco, colore che non usò mai più in Sardegna – fino a Porto Rafael e Costa Paradiso, sono innumerevoli le case progettate da Alberto e dal suo studio. Qui si sono fermati, realizzando nel tempo un archivio di case e di modi di abitare. Alberto stesso mi dice di sentirsi privilegiato ad esser lì, dato che poco è cambiato per loro: continuano a lavorare all’archivio anche durante il lockdown.
(GR)

Alberto Ponis è architetto, Annarita Zalaffi è ingegnere.

5 maggio

Scarti di un’intervista: Francesco Vezzoli

[Su Instagram] “Cioè io l’ho scollegato perché vedevo gente che postava foto di sé con le chiappe di fuori e diceva “ah che noia la quarantena, ho nostalgia di Ibiza”. Ci farei delle opere concettuali, mettendo da un lato la foto di questa signorina e dall’altra parte la foto del numero dei morti di quel giorno. Non so come una persona come si dice in inglese “in his right state of mind” o “in his right state of heart” possa pensare di postare certe scemenze quando il mondo va a pezzi, quando persino i capi di stato straparlano, quando il primo ministro d’Inghilterra parla di immunità di gregge, quando la regina d’Inghilterra parla allo Stato dopo non averlo fatto per 25 anni, quando Donald Trump dice “iniettatevi l’Amuchina”. Ecco, se tu non trovi di meglio da fare che dire “ho nostalgia di Ibiza” per quanto mi riguarda prendo te, il tuo Instagram e Ibiza, li impacchetto e li butto in fondo al mare.”

Clicca qui per leggere l’intervista su “Love Stories – A Sentimental Survey by Francesco Vezzoli” per Fondazione Prada

[Sulle relazioni amorose] “La pandemia ci forza a riconsiderare i termini del nostro rapporto con i sentimenti. Per dei fatti evidenti: chi è single è molto più solo, chi è in famiglia deve vivere la dimensione famigliare in una maniera molto più coesa. Addirittura nel futuro, finché la situazione rimarrà questa, qualcuno dovrà decidere al massimo di formare un cluster con uno o due amici con i quali si confronta a livello sierologico, per essere sicuri di non farsi male reciprocamente. Quindi diciamo che le declinazioni dell’amore sono tornate ad essere in primo piano perché tutta la fase edonistico-seduttiva, multi-Grinder e multi-Tinder, è andata sullo sfondo. Ora su questi social c’è un disclaimer, “noi continuiamo ad esistere, ma voi siete pregati di non incontrarvi”. È di per sé un’opera d’arte concettuale. Purtroppo qualcuno decide di incontrarsi, queste persone hanno tutto il mio riprovevole sdegno, perché chi mette a rischio la salute delle persone è un criminale.” 
(GR)

Il Coronavirus, al contrario, dovrebbe avere come conseguenza principale l’accelerazione di alcuni mutamenti già in corso

4 maggio

Condominy e le sue stanze dei desideri

Il libro Condominy nasce in un contesto speciale, dal lavoro di un gruppo multidisciplinare – le artiste Cristina Pancini e Paola Gaggiotti con gli architetti casatibuonsante – e i ragazzi del Progetto Giovani del reparto della pediatria oncologica della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. I giovani pazienti, che hanno fra i 16 e i 24 anni, sono costretti all’isolamento dalla loro condizione immunitaria. Assieme al gruppo, hanno dato forma alle loro stanze ideali in un “grande abitare collettivo”: un condominio (virtuale e reale) fatto di immaginari condivisi e scambi virtuali. Ognuno ha disegnato la forma, ha immaginato le azioni e le viste possibili, ha deciso il piano della propria stanza nel condominio. Matteo Davide, uno dei condomini, dice che “è importante imparare a stare solo con te stesso. Scoprirai cose su di te che non sapevi ancora e, se riesci a stare bene con te stesso, ti godi meglio la vita. Questo mi ha insegnato l’isolamento”. Una lettura che potrà insegnarci qualcosa sulla determinazione e la fantasia quando l’isolamento è necessario.

Potete richiedere gratuitamente il pdf del libro attraverso Instagram o mandando una mail condominy@gmail.com. Su YouTube potete ascoltare la playlist di Condominy.
(GR)

1 maggio: la Festa dei lavoratori

Fine. Questa quarantena sembra arrivare a una fine.
Sento amici felici di tornare al lavoro, ascolto le voci di chi si scopre ad aspettare con inedita gioia la settimana lavorativa: un modo per tornare a costruirsi una normalità, qualcosa che sembri una giornata. Un oggi che si proietti nel futuro, come dovrebbero essere tutti gli oggi.
E poi ci sono io. O meglio, e poi ci siamo noi: i lavoratori dello spettacolo. Noi che non sappiamo ancora se il nostro lavoro riprenderà, in che modo riprenderà, quando riprenderà.

Oggi è il primo maggio, è la Festa dei lavoratori. Mi è sempre piaciuta questa giornata, c’era il sole, c’era musica, c’erano amici. Da un po’ mi piace anche l’inizio della nostra Costituzione, “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. In passato detestavo questo inizio, pensavo al lavoro e lo leggevo solo in termini di produttività. Ora invece quell’articolo 1 è diventato per me una fotografia di facce. Di facce che si impegnano, che cercano, che danno un valore alla propria giornata rischiando qualcosa. Investendo tempo, fatica, sudore, dolori. Scelte.

Oggi è il primo maggio e nella fotografia che vedo, la mia faccia non c’è.

Francesco Bressan, attore e performer, si occupa di teatro, drammaturgia e performing art. È parte del duo Bressan/Romondia.

30 aprile

Ripensare l'ingresso in casa, l'ingresso di casa

Lorenzo Sizzi e Müge Yürüten sono due giovani architetti. All'inizio della quarantena hanno deciso di affrontare insieme questo periodo. E si sono accorti che uno dei momenti più stressanti è quello del rientro a casa, perché “la pulizia va fatta non appena varcata la soglia e, soprattutto, non è sufficiente lavare solo le mani”. Da qui nasce In-Soap, un progetto in cui “il sapone stesso diventa uno spazio”, posizionato all'ingresso di casa.

Il progetto si basa su una “buffer zone” divisa in due ambienti. Il primo è protetto da una membrana, mentre il secondo è aperto verso l’interno della casa. Tutto è pensato per adattarsi e cambiare in base al tipo e alle dimensioni dell’ingresso di ogni casa. In-Soap ha partecipato a Fountains of Hygiene, di cui abbiamo parlato qui.
(AS)

29 Aprile

La solitudine dei corpi

“Ti devo portare un libro, vengo venerdì verso le 12. Passo da te andando da casa allo studio” mi dice A. al telefono “a meno che la cosa non ti disturbi”. Gli dico che non c’è problema, lo penso davvero. Aggiungo scherzosamente che “tanto non dobbiamo mica scambiarci effusioni!”. Ridiamo.

Quel venerdì il mio amico A. arriva in bicicletta, ci troviamo davanti al portone di casa mia: io nell’ingresso, lui sul marciapiede. Davanti alla bocca ha la mascherina d’ordinanza. Di solito quando ci vediamo ci diamo due rituali baci sulle guance, ora però risulta evidentemente strano farlo. Entrambi siamo incerti su cosa sia opportuno fare o non fare. Superiamo l’impasse con un pizzico di fatalismo, ovvero imitando lo stesso gesto nell’aria, e scambiandoci un sorriso. Mi racconta del libro e poi ci salutiamo.

Dopo 50 giorni in casa, A. è stata la prima persona che ho visto a una distanza ravvicinata, eccezion fatta per la mia coinquilina. Mi rendo conto che, da 50 giorni, penso al mio portone come a un limite invalicabile. Sono uscita solo un paio di volte per fare la spesa a inizio marzo, poi delivery à gogo. Talvolta quando sono sul mio balcone ho l'impressione che la pelle quasi bruci al contatto con l’aria della città.

È stato bello e strano vedere A., è stata anche la prima volta che mi sono messa alla prova nella gestione della distanza del mio corpo da quello degli altri. Ridefinire una nuova prossemica sarà tutt’altro che scontato.
Ah, i congiunti!
(GR)

28 aprile

Cosa rimarrà della quarantena: un elenco partecipativo

In Italia il 4 maggio era atteso come l'inizio della cosiddetta “fase 2” del lockdown. In realtà, dal numero di libertà che vengono restituite, a molti sembra più una fase uno punto uno; intanto, ho provato a fare un elenco delle cose che ricorderemo e di quelle che sarà meglio non dimenticare di questi giorni terribili e incredibili insieme.

Non è una cosa che si fa da solo. Ho chiesto a un po' di amici e di colleghi di aiutarmi. E vorrei che partecipaste tutti.

1. Le strisce di nastro adesivo fuori e dentro i negozi a segnare la distanza “accettabile” tra le persone;
2. Il concerto di Travis Scott su Fortnite;
3. La foto della manifestazione “socialmente distanziata” in Israele;

 

4. Lavarsi le mani continuamente, fino a rovinartele;
5. Le scarpe lasciate fuori di casa;
6. Quando uscivo a correre e poi l'hanno vietato;
7. La prima settimana tutti sui balconi, poi come se non fossero mai esistiti.
8. Tutte 'ste dirette Instagram, YouTube, streaming, in generale gente che fa dirette tutto il giorno;
9. Le foto di Mattarella e di Papa Francesco;
10. I meme del Coronavirus (“adottata” da Marianna Guernieri);
11. Gli uccelli che cantano come impazziti a tutte le ore del giorno (sempre Marianna);
12. Il pane fatto a casa con il lievito madre, “tormentone” del lockdown (Raffaele Vertaldi);
13. La panchina al sole nel giardino condominiale dove non ero mai andata prima (Loredana Mascheroni);
14. Al supermercato, aprire i sacchetti della verdura indossando guanti e mascherina (sempre Loredana);
15. La colazione ogni mattina, abitudine persa da anni (Romina Totaro);
16. Le macchine parcheggiate ricoperte del polline dei pioppi (sempre Romina);
17. Il silenzio, che di notte sembra di essere in campagna (Simona Bordone);
18. Le pubblicità educative alle fermate degli autobus (Simona);

19. Le mail su Google Classroom per la didattica online di elementari e materna (Giulia Guzzini);
20. I secondi scanditi dalle app per allenarsi in casa (Giulia);
21. I capelli fuori controllo con i barbieri chiusi;
22. Interi fine settimana in due metri quadri di balcone  (Cristina Moro)
23. L'adrenalina del sabato mattina per andare in edicola (Cristina);
24. Le foto dell'uomo che prendeva il sole in spiaggia a Rimini accerchiato dalla polizia (Nicola Peluchetti)

 

25. I “boomer” che si incontrano per ogni cosa su Zoom: gli “zoomer” (Sara Sagrati);
26. @lebimbedigiuseppeconte;
27. Il cielo buio di notte, senza gli aerei di linea (Elena Sommariva);
28. Non poter dire ‘stasera ho un impegno’ o ‘sono a cena’ alle decima telefonata (Annalisa Musso);
29. lo tsunami che è il lavoro da casa (Annalisa).

Vuoi aggiungere una tua cosa alla lista?
Molto volentieri!
Scrivimi su IG @alessandroscarano20 TW @a_scarano oppure scarano@edidomus.it

27 aprile

San Paolo. Un giorno della vita di Marcio Kogan

A Day in the Life – April 18th in the fateful year of 2020, è il titolo (piuttosto beatlesiano) del video che Marcio Kogan realizza per questo Diario. È sabato 18 aprile quando registra le sue azioni e i dettagli del quotidiano, che racconta attraverso la sua voce. Sotto troverete la traduzione in italiano delle sue parole.
(GR)


“L’autunno è arrivato, da un mese sono rinchiuso nel mio appartamento a San Paolo, cercando di non pensare troppo. Cammino su e giù nella terrazza, andando e tornando decine di volte. Studio il pianoforte, dopo 20 anni senza toccare un tasto. In un momento più lirico leggo Le sorelle Makioka, mi alzo dalla poltrona e accendo la TV in cerca di notizie, sempre pessime. Non solo sul virus ma anche sul nostro triste momento politico. Donald Trump dice qualsiasi tipo di sciocchezze e il suo subordinato, l’oscurantista presidente brasiliano, fa un discorso isterico ai suoi seguaci senza cervello e, naturalmente, ai terrapiattisti. Ora appare pulendosi il moccio dal naso prima di stringere la mano a una vecchia signora per le strade della bella Brasilia. Grazie a Dio, Oscar e Lúcio non stanno guardando. È meglio non pensarci più. Potrei perdere la testa. Decido di concedermi un momento di piacere e mi concedo un bicchiere di Coca-Cola con tanto ghiaccio e lime, l’adoro!
È sabato, è ora di pulire. Aspirapolvere dappertutto. Lavoro con il mio studio su un progetto per un po’ di tempo e poi guardo un episodio di ‘The Plot Against America’, che mi ricorda la nostra realtà di oggi. Passo il tempo rivisitando alcuni film di Fellini e guardando un documentario sul genio Miles Davis. Più tardi, un meraviglioso concerto dal vivo: ‘Together at Home’.
Alla fine della giornata, oltre la vasta giungla di cemento, emerge un meraviglioso tramonto. Più che mai: la vita vale la pena di essere vissuta. Stupefacente!”

Marcio Kogan è un architetto brasiliano, fondatore di Studio MK27 con sede a San Paolo.

24 aprile

E la sharing economy?

Esco a fare la spesa e al semaforo su viale Monza, fino a due mesi fa un fiume in piena di automobili, ci siamo solo io e una Enjoy, la Cinquecento rossa simbolo del car-sharing Made in Italy. Arrivo a casa e ricevo una mail con proposta di intervista da Lynx & co, un'azienda auto che utilizza il “modello Netflix” al posto della vendita in concessionario che fa così tanto ventesimo secolo. E i monopattini elettrici di Hellbiz e Lime che fine hanno fatto?

Fino a un attimo prima del Coronavirus, la sharing economy sembrava la base per ridisegnare le nostre vite del futuro, soprattutto in città. Torneremo a condividere dopo il contagio, ci fideremo ancora di Uber o Airbnb? C'è chi dice no. Pensa che questo potrebbe essere invece un nuovo inizio l'esperta di new economy April Rinne. In un lungo articolo su Medium sostiene che sopravviverà la condivisione comunitaria e virtuosa, quella di Airbnb che mette a disposizione le case per il personale medico, e forse non quella dei driver sottopagati.
(AS)

23 aprile

Il tempo della quarantena

Il gruppo di architetti, fotografi e grafici di Fōndaco si divide fra Toronto, Milano e Berlino. Per capire come il ritmo delle loro vite quotidiane si stesse modificando fra lavoro, relax e chiamate, nella settimana dal 24 al 30 marzo hanno raccolto puntualmente i dati sulle loro attività.
Ne è nato così “Il tempo della quarantena”, un data visualisation realizzato a mano, in cui hanno sperimentato trasformando le attività dei singoli in piccoli segni grafici. Questi sembrano quasi appartenere un arcaico alfabeto dimenticato ma, per loro, “l’ispirazione deriva dagli spartiti musicali visivi per Ambient 1: Music for Airports, album di Brian Eno e Robert Wyatt del 1978”. I segni sono distribuiti su un pentagramma che, in realtà, di righe ne ha 7, come 7 sono i membri di Fōndaco.
(GR)

Fōndaco è un gruppo multidisciplinare con sedi a Milano, Toronto e Berlino.

22 aprile

La mia casa, diversa

“La casa dove sono cresciuta è una casa grande, ed è la stessa casa in cui sto vivendo in quarantena. Io, mia madre e mio padre. Le dimensioni e l’organizzazione dell’appartamento permettono di confinarsi nei propri spazi senza per forza interagire. Se dovessi ridisegnare la mia casa oggi, come lo farei? La mia routine si muove tra stanze, porte e finestre, disegnando una pianta del tutto diversa. Ma se la mia casa si è “ristretta”, il mio spazio privato a volte esce dalle pareti. La sera, quando tutti dormono, il portico del condominio è un’estensione di camera mia. E’ il mio vero momento di privacy: lì sono sola”.

Beatrice Balducci è dottoranda in Architettura al Politecnico di Milano, dove si occupa di emergenza e messa in sicurezza.

21 aprile

Cartoline da una Parigi riconquistata dalla natura

Lina è originaria di Beirut, da anni però vive e lavora nella capitale francese, vicino Place de la République. La sua casa e il suo studio distano 2 minuti a piedi l’una dall’altro: “mi sento come stessi facendo da guardia allo studio. È strano, sono comunque sempre molto impegnata, tutto il giorno, anche se tutto sembra fermo”, mi dice. È in quel breve tratto di strada che l’architetta scorge piccoli cambiamenti nel modo in cui la natura si relaziona alla città, così ne ha fatto una serie di illustrazioni.

“Abbiamo sempre imposto un confinamento alle altre specie e ora che siamo noi ad essere confinati, trovo poetico il modo in cui la natura sta riprendendo gli spazi della città”. Parliamo di Parigi e Beirut, della loro radicale diversità, la prima con una tradizione haussmanniana di controllo estremo dell’elemento naturale, mentre la seconda è invece risultato di una cucitura di piani urbanistici diversi, nelle cui crepe si insinuano rovine e natura. Parigi quindi è un punto d’osservazione del tutto eccentrico da cui osservare questa rinegoziazione dello spazio urbano.
Le chiedo come le sue osservazioni influenzeranno la sua architettura: mi dice che negli ultimi decenni l’uomo ha visto la natura più come una minaccia che come un’opportunità, o un campo di apprendimento. Questo può spiegare perché le nostre città sono state costruite in modo aggressivo, incorporandovi un sentimento di violenza. Quello che sta osservando in questi giorni rafforza la sua sensazione che la riconciliazione simbiotica tra la città minerale e quella naturale sia oggi più che mai essenziale.

Lina Ghotmeh è un’architetta franco-libanese, fondatrice di Lina Ghotmeh Architecture. Stone Garden, a Beirut, è stato pubblicato su Domus n.1045.

20 aprile

Un piccolo Grand Tour, ma restando a casa

ArtAway è un progetto che permette di visitare l'Italia, le sue città e il patrimonio artistico, anche durante il lockdown. Lo fa impiegando da un lato gli strumenti Google – Maps, Street View, Arts and Culture – e dall'altro esperti in carne e ossa che guidano i turisti in questo viaggio virtuale. Dietro c'è Video Sound Art, un festival di arte contemporanea che nasce nel 2010, che è anche un centro di produzione. “Abbiamo fatto tutto in 10 giorni”, racconta Laura Lamonea di VSA. “Ci è stato facile perché in parte è un lavoro che facciamo già”.

La creazione dei percorsi, dove si alternano la grande tradizione con riferimenti di nicchia, è stata la parte più lunga, ma più facile, “perché più vicina alla nostra esperienza”, spiega  Laura. Fa l'esempio del tour virtuale di Napoli con un grande del passato, Caravaggio, uno del presente, Anish Kapoor, e il cimitero delle Fontanelle, qualcosa del tutto particolare con la tradizione da parte dei vivi di “adottare” le ossa dei morti.

Ma c'è anche lo spazio per l'inaspettato, come il Chianti, dove le cantine si aprono all'arte contemporanea.

ArtAway nasce dalla proposta di un product manager della Silicon Valley, Paolo Gabriele Falcone. Laura Lamonea racconta di un lavoro serratissimo, in sei persone, tra cui un singolo sviluppatore che ha messo in piedi il sito in poche ore. “Un gruppo di lavoro molto coeso, che è riuscito a tirare fuori il meglio. Anche se ognuno da casa sua”. Ora l'intenzione è quella di portare il progetto, “nato come reazione”, oltre la quarantena.
(AS)

ArtAway è aperto a tutti, su prenotazione. Il sito è artaway.com

17 aprile

Staged promiscuity: la mia cucina è spazio pubblico?

Il privato è politico. Ma siamo ancora sicuri di sapere cos'è pubblico?
La webcam, a suon di lezioni, meeting, conferenze stampa online ha spostato la soglia di “casa”, precipitando un nuovo confine, verticale e orizzontale, in mezzo al nostro privato: una parte dello spazio domestico è diventata spazio pubblico.
Come lo arredo questo spazio? Chi lo arreda soprattutto?
Possiamo pensarci unici progettisti di un nuovo palcoscenico dell'ego, allestire sfondi autocelebrativi: ma anche questo è azione-reazione, risposta a un giudizio che attribuiamo allo spettatore.
È habitat ma soprattutto spazio pubblico, perché è progettato da più progettisti e dalle loro relazioni. È il realm of the in-between di Aldo Van Eyck, oggi”.

Lucia Baima e Giovanni Comoglio sono architetti, Ph.D.; lui è storico dell’architettura e contributor di Domus, lei ricercatrice al Future Urban Legacy Lab, Politecnico di Torino.  

16 aprile

Insegnare architettura online: da Londra alla Calabria

“Pensiamo che le piattaforme digitali che ci permettono di continuare a insegnare funzionino bene per circa 1/3 dei nostri studenti, mentre gli altri 2/3 tornerebbero volentieri in aula” mi dicono Sandra Denicke-Polcher e Jane McAllister via Zoom. Fino a 15 anni fa nella loro scuola si iscrivevano soprattutto studenti che potevano permettersi di essere studenti a tempo pieno. “Ora le cose sono cambiate molto”, dice Jane “la settimana per il nostro studente medio è molto diversa, non devono solo dedicarsi a ricevere un’istruzione, anzi, si destreggiano tra il lavoro e gli studi, tra il guadagnarsi da vivere o l’occuparsi dei loro bambini”. 

Il laboratorio di progettazione raggiunge le case degli studenti: la camera di Paris Horstmann

Il laboratorio di progettazione di Sandra e Jane si concentra sulla rivitalizzazione del paesino di Belmonte Calabro, dove sono state l’ultima volta lo scorso febbraio, appena prima l’esplosione dell’epidemia. Negli anni, per coinvolgere gli studenti di tutta la scuola, hanno fissato una serie di momenti per recarsi a Belmonte e svolgere diverse attività con i residenti, i migranti e una rete di professionisti sostenuti dall’associazione culturale La Rivoluzione delle Seppie.
Come per molti altri, il loro corso è migrato online. Sandra sottolinea che “è una soluzione a una crisi, ma le piattaforme funzionano davvero bene – immaginate se avessimo dovuto fermare le attività!”. Rita Elvira Adamo, che supporta Sandra e Jane, aggiunge che “queste piattaforme danno la possibilità di continuare la formazione ma che gli studenti reagiscono tutti in modo diverso”.

Lo spazio di lavoro di Luca Puzzoni, studente del laboratorio guidato da Sandra e Jane presso The Cass, London Metropolitan University

Come cambia l’insegnamento dell’architettura quando diventa digitale? Materiali come disegni, modelli e bozzetti rendono difficile, se non impossibile, riportare l’esperienza di un laboratorio di progettazione a misura di schermo. Questo diventa particolarmente esplicito a The Cass, scuola nota per il suo approccio pratico, dove la figura dell’architetto non è affatto presa come un deus ex machina: “attiriamo studenti che vogliono imparare attraverso il fare e che sono interessati alla nostra etica sociale”.

Mi raccontano dei loro studenti, di come il gruppo di quest’anno sia affiatato. La maggior parte di loro, mi dicono, dipende dal contatto con i colleghi, una relazione che Sandra e Jane cercano di incoraggiare anche sulle piattaforme online. In aula, lavorano assieme intorno ai loro modelli, che producono e discutono insieme. L’inclusione è un valore che emerge chiaramente dalla nostra conversazione – anche se questa parola non è mai stata pronunciata – e mi dicono che alcuni studenti potrebbero trarre beneficio dalla flessibilità dell’educazione online. “Il digitale ci è molto utile ora ma dovremo stare attenti e cercare di mantenere il contatto fra le persone. Se dovessimo fare una proiezione, una combinazione potrebbe funzionare bene!".

Sandra Denicke-Polcher e Jane McAllister sono titolari dei corsi Undergraduate Studio 3 e Postgraduate Unit 6 alla Sir John Cass School of Art, Architecture and Design della London Metropolitan University.
Rita Elvira Adamo, dottoranda all’Università Mediterranea di Reggio Calabria e supporto al corso di Sandra e Jane, è fondatrice dell’associazione culturale La Rivoluzione delle Seppie.

A casa di Banksy

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. . My wife hates it when I work from home.

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15 aprile

Milano sparita e da ricordare (2020)

Giulia Dal Bon e Camilla Spadaro sono due studentesse dell’Accademia di Brera; la prima studia grafica, la seconda nuove tecnologie dell’arte. Quando ancora la quarantena non era in vigore, ma già si respirava un clima diverso a Milano, hanno deciso di raccontarlo con un progetto che integrasse la documentazione fotografica di quei giorni, rigorosamente in bianco e nero, con disegni realizzati con tecniche digitali. Queste immagini sono il risultato: Una nebbia diversa. 

14 aprile

Casa, studio e ibridi: Messico

Manuel Cervantes ha due studi a Città del Messico, o forse è il caso di dire che il suo studio è diviso in due. Il primo, in termini cronologici, è dedicato più strettamente alla produzione e all’operatività; il secondo, è uno spazio che si trova nella sua casa. È in questo secondo luogo che avvengono le conversazioni con i clienti: per Manuel, condurre queste conversazioni in un luogo domestico è “un modo per permettere al cliente di catturare ciò che facciamo e chi siamo, così come i miei valori e la mia comprensione delle cose”. Questi dialoghi per l’architetto si conducono in un’atmosfera conviviale, talvolta condividendo un pasto o sorseggiando un caffè.
Nel momento in cui in Messico è arrivato il Coronavirus questi incontri sono stati sospesi o trasportati su piattaforme digitali e, dice Manuel, “rendere quest’esperienza di spazio e di incontro attraverso Zoom è chiaramente impossibile”.
(GR)

Manuel Cervantes è titolare dello studio che porta il suo nome, con sede nella capitale messicana.

Casa, studio e ibridi: Italia

Da molti anni vivo un rapporto intenso con la mia casa-studio.
Noi ci assomigliamo molto perché anche lei non riesce a concepire una divisione tra l’architettura e la vita. Tutto deve essere un continuo fluire. Dalla camera da letto una porta conduce direttamente nella sala principale dello studio dove prima della quarantena lavoravano i nostri collaboratori.  Ora loro disegnano da remoto  e la porta rimane sempre aperta e così anche questo ultimo e flebile filtro è svanito.
C’è una foto che ironizza sul mio rapporto con la casa/studio: ci sono io come Monsieur Hulot che vivo in tutti i suoi spazi contemporaneamente.
In questa quarantena, con il lento passare dei giorni, ho avuto l’impressione che la provocazione  della fotografia si evolvesse fino a raggiungere un suggestivo ed inaspettato compimento.
Credo, infatti, che nei prossimi giorni la mia sorte finalmente si compirà e mi trasformerò nella mia casa. In fondo è giusto così. Non è forse il destino del creativo quello di arrivare a coincidersi?
Flaubert ci aveva già avvisati: “Madame Bovary c’est moi”.

Filippo Bricolo è architetto. Fonda Bricolo Falsarella Associati assieme a Francesca Falsarella nel 2003, insegna al Politecnico di Milano, polo di Mantova.

11 aprile, il giorno prima di Pasqua

La morte a distanza

Ogni sera la Protezione Civile dirama di dati del contagio. Lo fa con una tabella primitiva che sembra stampata direttamente da un foglio excel, i dati disposti su colonne distinte con tinte sgargianti. Viene elencato il numero dei ricoverati, quanti in terapia intensiva, poi gli autoisolati e i guariti. Ci sono molti dubbi su quanto questi dati possano essere utili per farci una idea chiara del contagio. E poi il numero dei morti, che secondo un recente studio Istat potrebbero sessere molti di più. Al 10 aprile 2020, in Italia sono ufficialmente decedute a causa del Coronavirus 18.849 persone, secondo la Protezione civile. Di questi, più di 10mila qui in Lombardia.

Uno di loro era mio padre e quello che ascolterete qui sotto è il racconto di come lo spazio che tra noi due è sempre stato altalenante si sia fatto, nel giro di pochissimo, infinito.
(AS)

10 aprile

Gli architetti e i loro figli

Stephanie e Georg sono i fondatori dello studio Davidson Rafailidis, insegnano entrambi all’università – lei design a Toronto, lui architettura a Buffalo – e, oltre che soci, sono una coppia: vivono in un piccolo cottage fuori città con i due figli, Max e Loulou, ancora piccoli.

Stephanie Davidson, giorno 23, collage digitale, 2020. Courtesy Davidson Rafailidis
Stephanie Davidson, giorno 23, collage digitale, 2020. Courtesy Davidson Rafailidis

“Quello che penso, soprattutto come mamma e come donna, è che ho realizzato di aver imparato a ‘essere nell’architettura’ non parlando dei miei figli. Ho davvero imparato a separare l’essere mamma dall’essere architetto ma, in questo momento, è impossibile”. Per questo Stephanie ha iniziato a realizzare una serie di collage in cui rappresenta quel ‘circo’ (come lei stessa lo chiama) che quotidianamente è attorno a lei: “i miei figli mi conoscono solo come mamma”, dice. Loulou e Max si insinuano nel suo lavoro, fra le lezioni online dell’università e il lavoro dello studio. Sono ancora troppo piccoli per realizzare ciò che sta succedendo oggi nel mondo, ammesso che ciò che sta accadendo non lasci tutti disorientati.

Mi racconta che si svegliano allegri ed energici mentre, come a molti accade di questi tempi, loro fanno fatica a dormire nel dover gestire le proprie ansie. Se i due piccoli di casa hanno bisogno di qualcosa, spontaneamente vanno da lei. I collage di Stephanie ritraggono questo scontro fra stati d’animo: i bambini giocano al ritmo del gioco-tormentone “the floor is lava!” fra pezzi d’arredo che lo studio ha progettato e oggetti del loro spazio domestico. Lei invece si ritrae mentre regola i pesi delle linee dei disegni su Rhino o AutoCad, o mentre tiene una lezione online. Mi dice Stephanie “Qualcosa che ci stabilizza un po’ in questo momento davvero instabile è sapere che molte persone si sentono allo stesso modo, anche se tutti noi rispondiamo in modo diverso”.
(GR)

Stephanie Davidson e Georg Rafailidis hanno fondato Davidson Rafailidis nel 2008, si sono incontrati alla AA School of Architecture. Il loro progetto Big Space Little Space verrà pubblicato sul numero di maggio di Domus, n. 1046.

9 aprile

E se coltivassimo il grano in città?

Urban Factory è un progetto speculativo che immagina cosa succederebbe se nelle città fosse reintrodotta la coltivazione– in particolare, quella del grano –, rendendo i centri urbani in qualche modo autosufficienti. È stato immaginato da Teo Sandigliano, un designer freelance, come indagine sul consusmismo. “Sono interessato ai sistemi e non solo al prodotto finito”, spiega il designer originario di Biella.

Il progetto di Urban Factory si articola in tre fasi: la produzione anche autonoma e personale del grano, una parte pubblica di raccolta e una terza che spiega come funziona la coltivazione. Ci sono alcune sofisticatezze, come un sistema Rfid di controllo dei diversi livelli di produzione, in modo da distribuirla al meglio; e un vero e proprio sistema, basato su produzione pubblica e magazzini, in modo che tutti possano avere accesso al raccolto. “Il design si è un po' addormentato”, dice Sandigliano, “servono idee che ci facciano vedere il mondo da un altro punto di vista”. Soprattutto in questo momento, come dice lui, “la soluzione sono nuove prospettive”.
(AS)

Teo Sandigliano è designer e direttore di WeVux

8 aprile

Rito versus consumo

Per Fosbury, la resistenza nello spazio della casa oggi è da attuarsi nei confronti di una omologazione del gusto portata dall’avvento di Ikea e AirBnb. Pensiamo agli influencer che trasmettono dalle loro case o al lavoro che sta dietro alla rappresentazione di un ambiente domestico su Airbnb: se già queste dinamiche rendono la casa un asset in termini di comunicazione, a peggiorare le cose è la condizione di oggi, esacerbata dall’incontrarsi di tutti i piani delle nostre vite nelle nostre case. Ciò determina una sovraesposizione e iper-rappresentazione di questi spazi attraverso contenuti social e videocall, in cui i più o meno (s)conosciuti si affacciano virtualmente nelle nostre case.


Parliamo dei loro “Ambienti di resistenza per individui sociali”, oggetti “antropometrici e progettati per performare un dato rito domestico in una certa maniera specifica: il conversation pit esprime una certa maniera di essere conviviali, lo studiolo esprime una certa maniera di essere in questa categoria di spazio”. Questi ambienti sono archetipi di spazio suscettibili di ‘customizzazione’; la loro scala, è a metà fra l’arredo e il progetto architettonico. Sono oggetti che propongono di sostituire il rito al consumo.
(GR)

Fosbury Architecture è un collettivo di architetti che si occupa di design e ricerca.

7 aprile

Evadere dalla propria stanza

Laura Bonell e Daniel López-Dòriga hanno fondato il loro studio di architettura a Barcellona nel 2014, in un momento in cui gli effetti della crisi potevano sembrare passati ma in fin dei conti non lo erano. Mi dice Laura su Skype che, nella iniziale difficoltà di costruire il proprio portfolio come professionisti, hanno sentito il bisogno di “fare spazio a qualcosa che fosse solo nostro, una ricerca”. È così che nel 2016 nasce il progetto A Series of Rooms – con il suo sito e il profilo Instagram – una piattaforma in cui collezionano esplorazioni sull’immaginario dello spazio domestico.


Dalla loro casa a Barcellona oggi stanno continuando a lavorare e, per A Series of Rooms, mi dicono di aver “cominciato la scorsa settimana a mettere assieme lavori che abbiamo in comune l’idea del confinamento”. Nello stile che contraddistingue la loro attività online, Laura e Daniel hanno messo in campo una serie di riferimenti eterogenei, dal San Girolamo nello studiolo di Lucas Cranach il Vecchio a “La finestra sul cortile” di Alfred Hitchcock. Prima una sorta di analisi dimensionale degli spazi domestici, la relazione con il corpo, poi Saul Steinberg che – quasi a cercar compagnia – trasforma dei poggiapiedi in gatti. Di qui il passo è breve e si finisce per palare di evasione. Ed è qui che Laura mi parla di due opposti approcci. Il primo è quello analiticamente ossessivo delle descrizioni di Xavier de Maistre (1763-1855), nel libro Viaggio intorno alla mia camera, in cui racconta i suoi 42 giorni di prigionia a Torino. Nel secondo caso invece, le cartoline-collage dell’artista contemporanea Zsofia Schweger (1989) sono quasi un degli interni introspettivi, in cui riveste gli elementi di un interno generico con stralci di mappe geografiche storiche.
Se non ci è dato evadere col corpo, ci sono molti modi per evadere con la mente.
(GR)

Bonell+Dòriga è uno studio di architettura fondato a Barcellona da Laura Bonell e Daniel López-Dòriga nel 2014. Nel 2019 lo studio ha vinto il Début Award alla Triennale di Architettura di Lisbona.

La natura in quarantena

L'isolamento è un catalizzatore potentissimo. Questo stato di prigionia temporanea nello spazio di casa tua, o di una casa dove ti sei trovato o hai scelto di stare – quella del tuo compagno/a, dei tuoi genitori, con amici – è una brutale sintesi di condizioni o scelte pregresse. Come abbiamo capito tutti noi che abbiamo scelto una casa piccola ma in una zona comoda, o una zona hip della città, perché tanto in casa ci stavi giusto il tempo di dormire, o le cene nel weekend. Invece c'è chi come Tyler ha preso una strada radicalmente diversa. “La città non era il mio posto”, racconta in un video su YouTube. E quindi la riscoperta della natura: prima a intermittenza, poi in maniera stabile. Io Tyler lo conoscevo, superficialmente, perché a Milano era il dj di un giro di feste immaginifiche dove finivano tutti i miei amici e conoscenti. Non riesco a immaginare niente di più urbano.

Oggi Tyler vive nella zona occidentale dell'Isola d'Elba, “quella selvaggia e lontana dai porti”, racconta lui. “Ho alberi da frutta e un piccolo orto. Vivo con frugalità”.  I giorni dell'epidemia sono “tante cose”, dice, e aggiunge che sono anche e soprattutto “il mondo senza di noi”. Il mondo senza gli esseri umani sempre e ovunque. Un delfino l'altro giorno è entrato in porto, dove le barche ora sono tutte ferme. “Sembrava osservarci divertito della nostra assenza, dal nostro essere improvvisamente spariti”. La natura andrà avanti senza di noi, ma non è una constatazione pessimista: semplicemente, dice Tyler, l'essere umano dovrebbe adeguarsi alla natura, e non cercare di prevaricarla. Questa è la sua lezione, e io continuo a chiedermi cosa sarebbe stato di Napoleone, se avesse deciso di imparare da quest'isola, anziché fuggirne.
(AS)

L'account Instagram di Tyler è @tylerovgaia.

6 aprile

Copenhagen, interno con drone

Il video riprende gli spazi di lavoro dello studio CCO. Michael Christense & CO,  Copenhagen

Un drone vola sulle scrivanie vuote dello studio CCO, con base a Copenhagen, nel quartiere multietnico di Nørrebro.  “Ma noi torneremo!”, ha commentato Michael Christensen, founder e direttore creativo del team danese, che conta 50 collaboratori: “Certo ora siamo tutto in smart working, sempre connessi online. Ma questa situazione ha reso palese che il contatto vero, reale con la gente, con le cose, è un fattore irrinunciabile per il nostro mestiere di architetto. Perché la creatività è sempre condivisa. L'esperienza della quarantena ci ha solo dimostrato che abbiamo bisogno di stare insieme, di incontrarci, per assimilare il maggior numero di  idee e progetti. Oggi più che mai”.

Laura Ragazzola è architetto e giornalista a Milano

5 aprile

La vera vita è dopo la quarantena

Sempre dalle stesse e troppe poche stanze della mia casa di Milano, ho provato a dare un senso a questi giorni surreali al telefono con i miei amici per “trasformare il paralizzante terrore in una più morbida paura” (come mi diceva Ugo La Pietra). Camminando su e giù per la camera da letto, bevendo il caffè in cucina o spingendomi fino al mio balcone, ma sempre con il telefono all’orecchio, ho sentito i miei amici parlare di questo momento come opportunità, come confusione, come totale smarrimento, come rabbia. E sempre, sullo sfondo, la tragedia che questo virus ha portato nelle vite di tutti noi, ma sì, in maniera mai uguale.

Non so dirvi quando il futuro arriverà, non so dirvi come sarà, ma abbiamo già tutti capito che sarà diverso. Senza però la possibilità di un orizzonte, l’immaginazione stenta a operare. Eppure, ci sono dei momenti in cui penso che non sarà più possibile fare le cose come le facevamo prima. Allora rifletto su cosa vorrei concentrarmi di più, su cosa non vorrò più trascurare, su cosa vorrò fare diversamente.
Ma non in un senso pragmatico, piuttosto in un ordine di valore.

In cerca di risposte, ho riafferrato dalla mia libreria un libro comprato (e letto) tempo fa: La vera vita di Alain Badiou (2016). Sottotitolo: Appello alla corruzione dei giovani. Passando per Socrate, Platone e Rimbaud, il filosofo francese traccia un ritratto della giovinezza della contemporaneità – allo stesso tempo oggetto della sua riflessione e destinatario del suo messaggio – invitandola a sovvertire l’ordine precostituito. Un sistema, dice, nato in Occidente con il Rinascimento, che si è consolidato nell’Illuminismo ed è culminato con l’abbandono fedele all’idea di progresso incessante.

“Voi vi trovate nel frangente di una crisi delle società che scuote e distrugge gli ultimi resti della tradizione. È di questa distruzione (…) che noi non conosciamo realmente il versante positivo”. Incontestabile è che ciò apra a una libertà pressoché incondizionata nella globalizzazione, il cui pericolo di smarrimento per la gioventù è alto. Badiou – nel 2016 necessariamente ignaro di ciò che sarebbe accaduto in questi giorni – propone quindi alla giovinezza un’alleanza con la senilità: la corruzione è rappresentata dalla figura del filosofo, il vecchio disinteressato oramai alla contingenza, che ha il ruolo di ricondurre il giovane alla vera vita, nel contrasto con la falsa vita “della concorrenza e della riuscita” e, aggiungerei, della nuova precarietà.

Questa non è una guerra, questa è una pandemia globale.
Nulla in precedenza ha congelato noi e il nostro mondo nelle nostre case, come questo dramma. Ma è una condizione che finirà, dovrà per forza finire, e sarà inevitabilmente la giovinezza a dover immaginare un nuovo futuro. Non sappiamo ancora quando saremo pronti a ripartire, e soprattutto in che condizioni, ma prima o poi la vita tornerà a scorrere e noi, la mia generazione, dovremo essere pronti a mettere in discussione il mondo che abbiamo ereditato perché il futuro avrà bisogno di noi.
(GR)

4 aprile

Il narcisista

‟Ma non è forse questo il tipo umano che oggi soccombe nelle nostre città davanti davanti all’epidemia di Covid-19? Un soggetto che ha pensato di essere senza più ostacoli da superare, nomade per vocazione e professione, senza limiti e confini, felice della propria centralità nel mondo, animato dell’idea di una crescita continua in linea con un progresso scientifico in grado di assicurare ogni cura, sconfiggere ogni male e vivere teoricamente in eterno? Chiuso nella sicurezza della domotica, il narcisista controlla tutto, prevede tutto, organizza tutto intorno al proprio ego, non solo il sesso ma perfino l’amore. Convinzioni incrollabili che la pandemia ha spazzato in poche ore riscoprendo la fragilità, il mistero e il cuore come categorie fondamentali della vita”.

Estratto da ‟Dall’estetica alle estetiste” di Walter Mariotti, direttore editoriale di Domus

3 Aprile

Anticorpi contro l'economia della “fobocrazia“

Un antidoto. Non contro il Coronavirus, quello ancora non c'è, purtroppo. Ma contro gli effetti collaterali della pandemia: l'ansia, l'isolamento, la paranoia generata dall'amplificazione del disastro reale. Quella che Analogique, studio di architettura e “osservatorio rizomatico” siciliano, definisce “economia della fobocrazia”. Impacchettato come un pillolone risolutivo, BAZOOCoV è uno di quei casi in cui le istruzioni sono più importanti del medicinale. Nel bugiardino, con la scusa del curarli, si trovano tutti gli esiti sociali ed esistenziali della Coronavirus: sovraccarico di news, riduzione della privacy, depressione da isolamento, liti familiari, difficoltà a modificare le routine quotidiane e molti altri.

“Eravamo abituati a isolarci in campagna per lavorare ai progetti”, racconta Dario di Analogique. “Ora siamo in isolamento forzato e individuale, in tre diverse località della sicilia orientale”. E si sono trovati a immaginare qualcosa che mai avrebbero immaginato anche solo un paio di mesi fa. Il virus infetta l'uomo attraverso “le strette di mano, gli abbracci, i baci”, si legge sul bugiardino.“Il virus si nutre di convivialità e mobilità. La socialità è dunque negata, gli incontri proibiti, l’isolamento consigliato, spesso obbligato. La casa è il bunker, i social network sono le piazze in cui confrontarsi e internet un mondo tutto da esplorare”. Ed eccoci qui.
(AS)

2 aprile

La quarantena dell’artista

“Come artista sembra inappropriato perdere questo momento straordianrio. Improvvisamente scrivere un romanzo o una sceneggiatura o una serie di canzoni sembrano le indulgenze di un'epoca passata. Per me questo non è il momento di essere sepolto nell'attività della creazione. È il momento di fare un passo indietro e sfruttare questa opportunità per riflettere su quale sia esattamente la nostra funzione – a cosa serviamo noi, come artisti”.

Nick Cave, cantante, musicista, scrittore e anche molto altro, sul suo diario online The Red Hand Files.

Nolli me tangere

Small è uno studio di architettura con sede a Bari e Milano, fondato nel 2007 da Alessandro Francesco Cariello, Luigi Falbo, Rossella Ferorelli e Andrea Paone.

Primo aprile 🐟

Abitare la realtà virtuale/2

La sveglia tardi, la colazione leggendo. Le mail, pulire casa, una passeggiata in giardino. Poi l'immersione nel virtuale. È questa la routine in quarantena di Saturn J. Tesla, artista multidisciplinare e holoessenza™️ virtuale, come si autodefinisce. “Esploro e cammino in reami virtuali: paesaggi che si autogenerano, dimensioni parallele, la temporanea fusione con un altro me digitale”. Un film, una sessione di D&D, party danzanti con avatars, giochi, karaoke su Discord, tea party in costume. Tutto virtuale. E attraverso chat e videocall chiacchiere con persone. Conosciute nel mondo fisico. O in rete, “con cui ironizzo sul come non sia cambiato nulla per noi”.

Esplorando i mondi di Mass effect, Dreamfall Chapters, JanusVR, Assassin Creed Odyssey, Tomb Rider. Un piccolo party musicale in Fallout 76. E infine esplorazione con viaggi fittizi in Google Maps e attraverso gli occhi di sconosciuti in Periscope.

Tutto risale alla fine del 2013, quando problemi di salute la confinano a letto. Inizia così la sua esplorazione “di tutta la realtà”, oltre al reame del fisico. La documenta con screenshots, foto, screen recordings, logs. Esplora community, soprattutto quelle dove i sistemi di credo e pensiero sono molto lontani dai suoi, come i jordanpetersoniani o gli alt-right; e poi quelle legate al gaming e sociofobie. “Quando poi sono tornata in salute era chiaro che questa esplorazione dei reami online era diventata il mio nucleo di lavoro”, e compone opere dedicate ai viaggi virtuali in universi infiniti e autogenerati. Racconta una relazione nata in chat e proseguita nel mondo reale usando stanze ispirate a The Sims. Crea una identità artistica basata su una fittizia essenza che ricorda Joi di Blade Runner o Samatha di Her.

E oggi si trova di nuovo isolata. Con la differenza di essere una in una moltitudine. “Non so come sarà per la collettività o per il singolo quando questa situazione di concluderà”. Intanto, Saturn J. Tesla affronta la quarantena con l'esperienza di un veterano. “Faccio piccole tasks per riprendere contatto con il corpo”, per tenere il cervello attivo. Da poco, ha anche ricominciato a fare meditazione. Ovviamente in virtuale, su Discord.

L'Instagram di Saturn J. Tesla è @future_holograms

La giornata di Marina Abramovich

“In questo momento è molto importante seguire regole molto severe che ho creato per me stessa:
7:30, del mattino, sveglia. Esercizio sul tappetino da yoga.
8:15, fare una doccia, vestirsi
8:30, fare colazione.
9:00, fare una passeggiata.
10:00, andare a teatro. Provare fino alle 13:00.
Dalle 13.00 alle 15.00, andare a casa e preparare un semplice pranzo.
15:00, tornare a teatro e provare fino alle 17:30.
18:00, tornare a casa. Fare una doccia.
19:00, guarda il telegiornale. Prepara la cena.
20:00, parlare con il mio ufficio a New York.
22:00, andare a dormire”.

31 marzo

In un cantiere di Singapore

“Sembra che questa città sia costruita per separare, per creare un distacco dalla terra” mi dice Ling Hao, architetto malese residente a Singapore. Dagli alti e densi edifici residenziali della città, mi racconta che ciò che vede è stato realizzato da costruttori e dal board per lo sviluppo edilizio, in virtù della densità che era necessario accogliere, nonché la forma urbana scelta per farlo. Sta lavorando dalla sua casa, è “alto sul paesaggio e sulla città” e, continua, “mi sento da solo ma non isolato”. Mi manda alcune fotografie del parco giochi che in fin dei conti ritraggono una normale scena quotidiana, fitta di azioni che mi stupisce che mi sorprendano, per il semplice fatto che sono più di tre settimane che in Italia non si vedono.


Il Covid-19, fino al momento della nostra conversazione, non ha colpito qui come in altre parti del mondo e ci sono delle ragioni precise per cui lì il virus non ha attecchito come altrove: sin dall’inizio sono state messe misure rigorosissime per contenerlo, alla luce dell’esperienza con l’epidemia di SARS, nel marzo 2003. Al di là dell’annullamento di eventi che prevedono grandi assembramenti, di piccoli momenti di panico al supermercato, il controllo sanitario e il distanziamento sociale in città, la sua vita non è cambiata granché, mi dice Ling.


In questo momento l’architetto è impegnato a seguire uno dei suoi cantieri, sempre a Singapore, ed è lì che nella nostra conversazione emerge un elemento di discontinuità. Sono circa 100.000 le persone che dalla Malesia si spostano quotidianamente nel centro finanziario globale per lavorare. La sottile lingua d’acqua che separa le due nazioni è lo stretto di Johor e le due terre sono connesse principalmente per mezzo di due grandi ponti, dove i frontalieri si spostano. Da dove vive il capocantiere, in Malesia, mi dice che ci vuole circa un’ora di viaggio in moto.


Da metà marzo e nel corso di una notte, le due nazioni hanno messo in atto delle disposizioni per il controllo dei movimenti alla frontiera per prevenire il diffondersi del virus. Le misure prevedono attualmente che se si viene dalla Malesia e si arriva a Singapore e vice versa, si devono passare 14 giorni in quarantena. Di fronte a questo gli operai hanno preso scelte diverse, le uniche due possibili. Il capocantiere, che ha una famiglia a Johor, ha deciso di sospendere il suo lavoro e di rimanere in Malesia. Alcuni di quelli che hanno invece deciso di rimanere a Singapore per continuare a lavorare hanno dovuto inizialmente dormire nei luoghi pubblici della città, all’aperto; ciò finché il governo singaporiano, assieme ai cittadini, ha messo rapidamente a disposizione delle apposite strutture. C’è ancora chi popola i cantieri e altri spazi di lavoro a Singapore.
(GR)

30 marzo

In viaggio dentro casa

Camilla Ferrari è una fotografa di Milano che racconta il mondo con immagini e brevi video verticali, abituata a viaggiare quattro, cinque mesi all’anno. Poi lo scoppio dell’epidemia, la quarantena. E una serie di foto scattate in casa: adesso il giro del mondo lo stanno facendo loro.
Camilla è la sostenitrice di un approccio lento alla fotografia, meditativo; al tempo stesso la fotografia è il suo armadio di Narnia, un portale di accesso a qualcosa di straordinario. “Quando si è manifestato questo scenario terrificante per me fotografare casa ha rappresentato la ricerca di un conforto”, spiega; ha avuto modo così di guardare in modo diverso l’appartamento in cui abita da più di un anno: come gira il sole, la luce che alle 4 del pomeriggio crea un piccolo arcobaleno, quel piatto che sembra un pianeta se guardato in un certo modo. E ricominciare a fotografare Fabio, il suo compagno. “Ho cercato di ricreare l’atmosfera di qualcosa in cui tutti si riconoscono: il senso di casa”.

“Ero molto spaventata all’idea varcare la soglia”: dopo una quarantena che durava dall’8 marzo, Camilla Ferrari è recentemente uscita per un lavoro. Ha visto i tram nelle fermate del centro completamente vuoti, “uno, due, tre tram di fila: fantasmi”, la Galleria deserta. “Quello che più mi spaventa è la possibilità che questa distanza si protragga anche quando l’emergenza sarà finita”, osserva: “spero che si rimargini prima di diventare recidiva”. Ma il virus, oltre che tragedia e perdita, per Camilla è anche portatore di forti significati simbolici: la necessità di lentezza e l’importanza della vicinanza fisica.

Camilla Ferrari, nata nel 1992, è fotografa. Il suo Instagram è @camillaferrariphoto.

Viaggio da fermo

Da oltre due anni ho una rubrica su la Repubblica di Napoli dal titolo Narrazioni – I Luoghi. Ogni sabato pubblico un racconto sulla città di Napoli con un disegno. Descrivo l’esperienza dell’attraversamento di luoghi urbani ed extraurbani, neanche tra i più noti ma che si insediano nella personalissima mitologia che ognuno costruisce dentro di sé. Ad oggi ho messo insieme 130 itinerari con altrettanti disegni, un corpus sentimentale sulla città che ha avuto bisogno ogni volta di un viaggio tra strade e vicoli, nei monumenti e nei palazzi, lungo paesaggi e negli angoli nascosti. La città si è mostrata inesauribile e generosa, ma per mostrare i suoi lati più veri ha preteso che mettessi da parte ogni stereotipo, ogni indulgenza e ogni folclore. Ho incontrato architettura, ambiente e degrado.

Davide Vargas, Viaggio da fermo, 2020
Davide Vargas, Viaggio da fermo, 2020

Ma chiuso in casa il viaggio si fa da fermo. Il territorio è la memoria. Scrivo richiamando le percezioni dei luoghi e sento il bisogno di fare il punto di tutte le considerazioni scritte o anche solo pensate. È come se si fosse spostato il punto di vista, dall’immersione ad altezza occhio a un sorvolo che osservi dall’alto l’emergere di significati ignorati. Con il distacco del geografo si rintracciano le traiettorie di un’altra mappa dove prevalgono i nessi sui nodi.
È l’ora del flashmob alle dodici scoppia l’applauso che la gente tributa ai suoi infermieri e medici dai balconi che si aprono fiduciosi che l’aria tiepida della giornata resti immune.

Davide Vargas, “letterato architetto”, scrive di viaggi in città, progetta e disegna
 

27 marzo

‘A Finestra

“Come stai?” mi chiedono, “Chiuso in casa” rispondo.
Questa pandemia è il male e il bene del mondo del 2020.
Mi sono trasferito 10 anni fa da Ragusa a Milano, da 4 anni faccio il designer, e da poco anche il professore. Non sono solo, fortunatamente, condivido una casa con altre due persone nel quartiere di Porta Romana. Ci sono ovviamente dei muri, un tetto, due stanze da letto, un salotto e un bagno, ma ci sono anche tutti i mobili che servono.
Ultimamente li stiamo usando tantissimo: il divano a volte diventa letto e il letto a volte diventa divano, così cambiamo stanza continuando a riposarci. Il tavolo è grande abbastanza per lavorare, mangiare e impastare nello stesso momento, il pavimento non lo usiamo solo per camminare, ma a volte diventa piano per allenarsi, oppure, con l’immaginazione, un prato verde per sdraiarsi e fissare il nostro cielo stellato, un soffitto bianco.
Poi ci sono le finestre, la televisione, il computer e il cellulare, questi oggetti hanno più o meno tutti la stessa funzione in questo momento di chiusura: incontrarsi e salutarsi, affacciarsi sul mondo, non dimenticarsi del cielo e del sole.
‛A finestra
di Carmen Consoli è la mia canzone preferita e la finestra è l’oggetto della casa che sto imparando ad usare di più in questo momento di chiusura, dove invece che dimenticare continuo a immaginare.

Giuseppe Arezzi è designer, insegna Design System allo IED di Como

Giuseppe Arezzi, 'A finestra, collage digitale, 2020
Giuseppe Arezzi, 'A finestra, collage digitale, 2020

La designer e la discoteca su Zoom

Sara, oltre a lavorare, cosa fai in quarantena? “Sto organizzando una discoteca virtuale su Zoom con gli amici perché ho bisogno di scaricare, produco troppe endorfine” mi dice Sara Ricciardi. “Io faccio gli inviti, do 15 minuti di tempo e non bisogna parlare – né ciao, né come stai, né sigle sulla vita, né slogan, né hashtag, solo ballare. Astrid Luglio mette la musica e tutti in cuffia e si balla come dei pazzi. No words just shake your legs.” In più avrebbe dovuto aprire il suo nuovo spazio, il Pataspazio, ma per ora aprirà solo virtualmente. Qui sotto un’anteprima grafica di quello che sarà.  
(Marianna Guernieri)

Sara Ricciardi, Pataspazio
Sara Ricciardi, Pataspazio

26 marzo

Abitare la realtà virtuale

Qualche tempo fa un’amica mi ha raccontato la storia un suo conoscente, un programmatore che ha esteso il suo appartamento troppo piccolo usando un caschetto per la realtà virtuale. Una storia che mi ero appuntato mentalmente e a cui penso spesso in questi giorni. “Io sono convinto che quando finirà l’emergenza porteremo con noi scorie di questa situazione che cambieranno i nostri comportamenti”, mi dice su Whatsapp Manuel Bazzanella, Ceo di Digital Mosaik, una azienda specializzata in realtà virtuale. Non è caso che Facebook stia lavorando a Horizon, un social network completamente pensato per l'interazione nello spazio virtuale, aggiunge.  

Ford è tra i primi brand a usare Gravity Sketch per progettare i suoi veicoli in VR

Incontrare persone, partecipare a un evento o assistere a lezioni; visitare un museo o un luogo; meditare; progettare in 3D, con Gravity Sketch; viaggiare. Sono solo alcune delle applicazioni VR possibili che Digital Mosaik mi gira con una mail. Attività che possono allargare il nostro spazio di quarantena, e restare con noi domani. Basta procurarsi un visore. Bazzanella cita un progetto che aveva realizzato per il turismo in Trentino e che è finito al reparto pediatrico del Santa Chiara, con la realtà virtuale che faceva da finestra verso il mondo esterno. E poi ci sono le fiere, con le aziende che vogliono costruire stand virtuali per evitare che si ripeta quello che sta succedendo in questi giorni. Il problema, spiega Manuel, è anche culturale, come la sua battaglia per il VR. Aggiungendo che Cina e Stati Uniti sono più avanti, sottolinea l’opportunità per tutti i creativi: “in questo momento chiunque entri con il progetto giusto ha spazio libero”.
(AS)

Questo divano non è un museo

È cominciata che ci hanno detto del virus, di stare in casa e la mia bacheca Facebook si è riempita della retorica stucchevole delle opportunità del silenzio e dell’isolamento.
È andata a finire che hanno chiuso i musei e i teatri, e probabilmente hanno fatto bene. Dico probabilmente perché sono contento di non essere stato io a dover prendere questa scelta.
La mia bacheca si è riempita di iniziative di teatro online, musei da poter visitare dal divano.
Io sul divano ci ho sempre guardato la tv, dormicchiato, letto, fumato sigarette e fatto cene inutili a base di toast e Coca-Cola. Non mi è mai venuto in mente di guardarmi una collezione o lo spettacolo che ho perso alla Biennale tre anni fa. E non mi è mai venuto in mente per un motivo semplice: è impossibile.
L’arte comincia prima. Non posso osservare la Gioconda senza registrare intorno a me il Louvre, la sala piena, il tempo e lo spazio di rapporto che è concesso a me e a quell’opera. L’arte non ci chiede di erudirci, ma di esperire.
Non sono mai stato al MET e non ho in programma di andarci a breve: sono in quarantena. Ma se non posso visitarlo voglio almeno poterlo immaginare.
L’opportunità nell’isolamento esiste, credo, ma io ne ho trovata solo una: la nostalgia per la produzione artistica. Se c’è una cosa che voglio coltivare è la voglia di andare al MET.
Magari ci provo ora, magari passo per Forlimpopoli e appena arrivo sto tre ore davanti alla Gioconda. Al MET. Magari le do un bacio, magari mi faccio arrestare, tanto finirà anche questa quarantena.
Finisce tutto, no?
No, la Gioconda, no.

Francesco Bressan, attore e performer, si occupa di teatro, drammaturgia e performing art. È parte del duo Bressan/Romondia.

Parigi. Visitatori del museo del Louvre di fronte a La Gioconda. Foto Juan Di Nella
Parigi. Visitatori del museo del Louvre di fronte a La Gioconda. Foto Juan Di Nella

25 marzo

La distanza dalla città

Vorrei sapere, quanto è grande il verde
come è bello il mare, quanto dura una stanza

(Fabrizio De Andrè)

Al telefono, mia madre: “C’è meno gente per strada a Milano?”. È così che mi rendo conto che guardo poco fuori.
La città è distante, nonostante io sia qui.
Forse anche voi avete la sensazione che il tempo nella vostra casa si ripieghi su se stesso, fra le pareti di ogni stanza. Forse anche voi vi ritrovate nella vostra camera, fra le pieghe di una strana sostanza che sembra schiuma poliuretanica in espansione continua e lenta.
Ecco, quello è il tempo della vostra stanza. Ciascuno di noi sta arredando il proprio tunnel spazio-temporale, riempiendolo, fisicamente e metaforicamente, di nuove azioni del corpo, di libri, di playlist di Spotify, di fogli di carta e fogli Excel, di corsi di pilates online e dirette Instagram.
La città è lì, da qualche parte nelle nostre menti, immobile e sola.

Per Francesca la città è immersa nell’acqua, elemento che misura la distanza fra noi e la torre Velasca, il grattacielo Pirelli o la torre Branca. Una distanza che non è solo spaziale, l’acqua è anzitutto simbolo di una sospensione temporale. Nelle sue illustrazioni, città, esseri umani e natura si confrontano con il cielo che, mi dice, arriva ad essere “così improvvisamente più vicino, approssimando l’umanità al mondo delle idee”. Questa dimensione astratta e mitologica che scaturisce dalla serie “Misura della distanza”, è per Francesca il mezzo per comprendere “quello che facciamo ora sulla Terra”, nelle nostre stanze, cercando di dare un senso a questa sensazione di inevitabile sospensione.
(GR)

Francesca Berni, è architetta e dottoranda al Politecnico di Milano.
Nella sua tesi di dottorato, l’acqua è il principale strumento di ricerca sulla forma dello spazio. Si è formata tra Roma e Milano, con esperienze presso ETSAM (Madrid) e SJTU (Shanghai)

Non siamo soli

Di tanto in tanto probabilmente vedrai delle piccole creature in giro per casa tua. I ragni tessono le ragnatele negli angoli tranquilli di una stanza, le coccinelle talvolta appaiono vicino alle finestre dove l’acqua si condensa, le formiche trovano la loro strada verso il cibo lasciato fuori per caso. Secondo i risultati di una ricerca sulla biodiversità pubblicati dalla rivista Peer-J nel gennaio 2018, ci sono circa 100 diverse specie di ragni, millepiedi e insetti che abitano la nostra casa. Quelli che vediamo non sono che una piccola parte di un mondo nascosto (ma prezioso) di una vita altra, su questo pianeta malato. Una vita fragile da cui dipendiamo.
Sottsass una volta ha scritto: “non sarebbe bello se anche gli architetti avessero qualche sapienza profonda su quello che c’è di vago, nascosto, consolante, prezioso sul pianeta, su quello che si muove e vive per donarlo a noi che navighiamo sul mare lontano della vita?” Pensiamoci.

Angelo Renna è architetto, si occupa di natura e ambiente.

24 marzo

Ripensare la città del futuro

Uno starnuto, un colpo di tosse. Il droplet — parola chiave dell’emergenza, ottimo punto di partenza per il titolo di un film campione di incassi sul virus tra qualche anno, in italiano: “gocciolina” — resta nell’aria, si deposita sugli oggetti. Lo tocchi, passi le mani sugli occhi o sul naso, ti infetti. Secondo uno studio pubblicato dal New England Journal of Medicine, in una stanza a 21 gradi centigradi e con il 40% di umidità relativa il virus resiste 3 ore nell'aria e fino a 3 giorni su tutto quello che è di polipropilene, uno dei polimeri plastici più impiegati al mondo: sacchetti, giocattoli, sedute, soprammobili. Il cubo di Rubik, i tupperware. Il polipropilene ci circonda. Sull’acciaio inossidabile il Coronavirus sopravvive 2, 3 giorni; sul cartoncino circa uno.

È il rame, tra i metalli di uso comune, quello che dà meno ospitalità al virus: 4 ore, una sola in più che nell’aria. Il rame uccide il virus e Fastcompany recentemente gli tributa una quasi agiografia, ripercorrendo la parabola discendente di questo materiale dalla rivoluzione industriale a oggi e citando gli studi critici della ricercatrice Phyllis J. Kuhn fin dalla metà degli Ottanta. L’acciaio ci sembrerà più pulito, rispecchierà il gusto del contemporaneo per la traslucidità e la leggerezza, ma se dovessimo scegliere un materiale con cui ripensare i nostri spazi privati e pubblici, a partire dagli ospedali, dovrebbe essere il rame e la lega che compone con lo zinco, il bronzo.
Come immagineresti una città coperta da rame e bronzo, dove plastica e acciaio hanno un ruolo ridottissimo?

Ovviamente, non è tutto qui. Nastri adesivi a terra segnano la misura di un metro in prossimità delle casse dei supermercati; fuori, code a distanza di sicurezza sembrano coreografate per un video di Romain Gavras; nelle metropolitane desertificate si viaggia stando in piedi o seduti sui posti di lato, lasciando il massimo spazio tra i passeggeri. Gli ascensori sono diventati un problema. A Hong Kong pulsantiere e maniglie sono disinfettate più volte al giorno, o ricoperte con un foglio di plastica sostituito ciclicamente. Pensare a una città più sicura vuol dire inglobare queste esperienze nella progettazione del nuovo e nella riprogettazione di quello che già c’è. Partendo dal problema della densità, delle città verticali che fanno da propulsore al contagio, su un pianeta dove la popolazione è sempre più concentrata in aree urbane. Quando ricominceremo a parlare di città del futuro, sono tutte cose che dovremo tenere in conto.
(AS)

23 marzo

Adamo–Faiden: anatomia di una quarantena a Buenos Aires

Sebastián e Marcelo – i due partner dello studio di architettura Adamo-Faiden – hanno iniziato a insegnare alla Princeton University quest’anno. Arrivano a New York il 7 marzo ma ripartono in anticipo rispetto alle previsioni: venerdì 13 riescono a prendere uno degli ultimi aerei per Buenos Aires, appena prima che il governo argentino mettesse limitazioni sui voli provenienti da paesi a rischio Covid-19, Stati Uniti inclusi.
Il loro ritorno a casa però terminerà con lo scadere dei 14 giorni della quarantena, venerdì 27 marzo. Bizzarra situazione per i due architetti, è quella di trovarsi – dopo diverse peripezie – ad occupare due appartamenti in due distinti edifici da loro progettati: Edificio Bonpland 2169 e La Vecindad a Plaza Mafalda. Li separano 15 minuti a piedi ma le loro condizioni spaziali e di vita sono totalmente differenti.

Screenshot della call: a sinistra Sebastián Adamo e, a destra, Marcelo Faiden dello studio Adamo-Faiden
Screenshot della call: a sinistra Sebastián Adamo e, a destra, Marcelo Faiden dello studio Adamo-Faiden

La legge del contrappasso
“Nel mio caso, la storia è piuttosto semplice, sono separato dalla mia famiglia”, dice Marcelo dall’ultimo piano dell’Edificio Bonpland 2169, dal quale vede la città dall’alto. Mi racconta che, dopo aver fatto varie chiamate per trovare una soluzione abitativa per questo periodo, ha realizzato che l’appartamento era sfitto. “Avevo le chiavi e ho portato qui mia valigia (…) mi sento un monaco: ho poche cose e molto tempo”. Marcelo si trova ad abitare uno spazio che ha sviluppato, disegnato e realizzato assieme allo studio, ma che mai prima d’ora, “nemmeno durante il cantiere” aveva passato tanto tempo lì dentro. Javier Agustín Rojas, un fotografo che lavora spesso con loro, ha lo studio giusto due piani più sotto e gli porta ciò di cui ha bisogno. Marcelo mi spiega che le fotografie che mi ha inviato sono per lui il modo più immediato di raccontare “l’esperienza di vivere in uno spazio che ho progettato, dove sto cercando di scoprire nuove cose del vivere qui” ma, prosegue, “ci vorrà del tempo prima che possa trarre delle conclusioni”.

 

Uno spazio completamente normato
“La mia situazione è totalmente opposta”, mi dice Sebastián su Zoom, “sto nel seminterrato della casa che abito normalmente, e condivido con la mia famiglia una parte di questo spazio”. Tale spazio è di norma condiviso in totale libertà dai tre membri della famiglia ma ora, evidenzia Sebastián, hanno creato tre categorie di ambienti: “alcuni di questi li usiamo in maniera rigidamente individuale, ci sono poi quelli che siamo obbligati a condividere – come il bagno principale – e poi c’è lo spazio in cui circoliamo”. Mi dice che il seminterrato in cui sta vivendo in questi giorni è parte della sua casa, lo usano come dépendance, e che è equipaggiato con un bagno, ma che è sguarnito di doccia. Le due parti della casa due sono separate da un patio: “non condividiamo la stessa aria e lo stesso spazio”. Mi dice che il figlio Aldo è troppo piccolo per sapere come gestire queste condizioni. Fra Sebastián e la compagna devono invece “essere molto specifici sui confini fra i nostri spazi vitali, su come usiamo le stanze, sul come pulirle e sterilizzarle: la casa era lo spazio principale in cui si dispiegava la nostra libertà, ma ora è uno spazio completamente normato”.
(GR)

21 marzo

Le case degli altri: un racconto

Quello là dietro è uno stendibiancheria. O almeno sembra.
Mi distraggo cercando di capire se si tratta di calzini o mutande.
Sì, è proprio uno stendibiancheria. E quelli sono calzini blu.
Marco vive in un monolocale senza balcone, è probabile che sia uno stendibiancheria.
Luciana si è comprata lo scorso anno un attico meraviglioso, mi ricordo la festa di inaugurazione. Dietro di lei c’è la luce, tantissima, e l’aria, il lusso più grande in questi tempi. Facile quando hai il marito dirigente e l’eredità dei genitori.
C’è quel collega nuovo che ha una casa orribile.  Non lo conosco bene ancora, è arrivato poco prima della quarantena, ma quella sedia da ufficio (abbinata all’armadio marrone) mi dice che non abbiamo molto in comune.
Filippo deve vivere in un seminterrato: alle 4 di pomeriggio già deve accendere la luce. Mi spiace molto per lui, deve essere tosta in questi giorni di reclusione.
Ruggero ha schierato alle sue spalle una caterva di libri, tutti con i titoli ben in vista. Molti li conoscevo, altri li ho cercati su internet. Il quadro che ne esce di lui è schizofrenico ma interessante, mi sono ripromesso di uscire qualche sera con lui e la sua famiglia.
Marisa deve avere la mia stessa fissa, si è studiata bene lo sfondo che la incornicia, con un angolo di finestra e un vecchio quadro di famiglia.
Il contrario di Daniela che si collega dalla cucina con tutti i piatti sporchi sullo sfondo, senza vergogna.
Anna ha la passione per le piante, e questo lo sapevo già perché è l’unica che in ufficio ha un vaso sulla scrivania. Il fondo del suo mezzo busto sembra una giungla e il suo gatto grigio una pantera. In lontananza nel suo audio mi sembra di riconoscere anche il fischio di un uccello.
Benny, quello indiano che lavora ai computer, ha sei figli e durante le videochiamate li ho visti tutti: entravano per chiedergli di aprirgli un succo di frutta, di essere accompagnati al bagno, volevano un gioco, piangevano perché feriti da un fratello.  La sua è una casa modesta, probabilmente in affitto, piena di mobili troppo ingombranti per spazi così piccoli. È un grande Benny, stoico e sempre con il sorriso. Merita un aumento di stipendio, ne parlerò con il suo capo reparto.
Vania non la sopporto in ufficio e non sopporto la sua casa, con i nani da giardino nel salotto.
Massimo fa le videochiamate dal cellulare e cammina tutto il tempo. Ottima cosa per me, mi sono potuto studiare tutta la casa, ne ho disegnato anche la pianta. È enorme per essere un appartamento di città.
La stanza di Alfonso sembrava triste, nonostante lui non lo fosse mai. Poi ho capito che si era trasferito a casa della madre anziana, la cui badante era scappata in Ucraina appena era iniziata la pandemia.
Il mio sfondo è diverso da quello di tutti gli altri. È bianco.
Per non mostrare nient’altro che il muro ho dovuto spostare la scrivania, bloccando metà soggiorno, così però mantengo la mia privacy.
Mentre faccio il guardone e ingrandisco le caselle degli altri per studiarne i dettagli.
Amo lo Smart Working.

Giona Peduzzi, autore tv, ha compiuto quarant’anni in quarantena.

20 marzo

La finestra “aumentata” di Sovrappensiero

Artivive è una app che nasce per “aumentare” digitalmente l'arte. Si inquadra con il telefono un'opera e la si vede in movimento; in realtà, il telefono è stato semplicemente addestrato dalla app a mostrare al posto dell'immagine un certo video che crea l'effetto di illusione. Ernesto e Lorenzo di Sovrappensiero Design Studio hanno hackerato questo sistema per ottenere qualcosa di diverso con “Somewhere”. Il loro progetto trasforma un disegno che chiunque può stampare e appendere in casa in una finestra aperta verso un paesaggio virtuale ogni giorno diverso. “Di solito facciamo prodotto per grandi aziende”, spiega il duo, ma la quarantena ha rallentato il lavoro: “quindi abbiamo deciso di fare qualcosa legato a questa situazione”.

“Somewhere” di Sovrappensiero Design Studio

“Somewhere” è un progetto che vuole creare una narrazione e portare le persone fuori di casa, restando a casa. “Abbiamo spiegato che il modo più veloce fosse la realtà aumentata”, mi racconta Lorenzo, chiedendomi se ho provato la app. C’è chi ha stampato il foglio e l’ha appeso con una puntina, racconta; altri l’hanno nastrato alla parete; alcuni anche incorniciato. E poi immagino ci sia chi, come me, non ha una stampante, e se lo guarda sull’iPad. “Ci piace che ci sia una componente materiale e che ognuno si approcci in maniera diversa”, spiega Sovrappensiero, aggiungendo che l’ispirazione per il disegno arriva dalle parole cancellate di Emilio Isgrò: le uniche che rimangono leggibili compongono la scritta stay at home and go somewhere. “E ci piace anche pensare che questo viaggio sia condiviso”. Quando chiedo a Ernesto cosa vede dalla sua finestra reale, quella di casa, mi parla di tanta luce naturale, ma anche un paesaggio di cemento fermo e privo di stimoli visivi, così che anche il pensiero si ferma. È questa l’importanza di “Somewhere”, spiega, “un piccolo movimento e un po’ di colore che ci riportano ai mondi che invaderemo finita la quarantena”.
(AS)

Sovrappensiero Design Studio è stato fondato nel 2007 da Lorenzo De Rosa ed Ernesto Iadevaia. L'immagine che dà accesso a Somewhere gli può essere chiesta su Instagram @sovrappensierodesign o con una mail.

7 anni e 7 settimane, forse

Durante la mia vita lavorativa per sette anni ho lavorato in casa. Un ingresso d’altri tempi, grande quasi come una stanza con una finestra, è stato dapprima quello che era: lo spazio in cui si lasciavano i cappotti, le scarpe – delle mie figlie e dei loro amici –, i pacchetti. A un certo punto però è diventato il mio spazio di lavoro con il tavolo, ricavato da un’installazione che fu alla Biennale di Venezia, la stampante, il modem, la sedia, una chiavarina anni ’60 che avevo ereditato da mio padre. Dietro, al posto di una lampada da terra, si è aggiunto un tavolino che pian piano si è riempito dei libri delle mie figlie e di scartoffie varie – e no, non si è mai liberato e non ho mai letto il manuale di Marie Kondo. La pausa caffè la facevo al bar oppure stendendo la lavatrice.

Questo spazio è rimasto quello degli strumenti di lavoro anche quando ho ricominciato a lavorare in ufficio, la redazione di Domus, e lo ho usato solo a tratti. Oggi mi ci ritrovo a lavorare tutto il giorno, con la fibra invece dell’ADSL, una stampante un po’ più evoluta che non uso quasi mai, un lettore di cd esterno che uso ancora meno. La sedia di Eames, in vetroresina del 1954, ha sostituito la chiavarina, ma non so se è davvero più comoda per starci tutto il giorno. Da qui faccio anche lezione ai miei studenti dello IED, e questo tutti gli insegnanti d’Italia lo stanno imparando. La pausa caffè la faccio in cucina, dove mi sono ritrovata a cucinare furiosamente – e sì, in tutte le chat in cui mi ritrovo si condivide questo cucinare estremo. E ogni giorno sembra un sabato un po’ anomalo. Sarà per 7 settimane?
(Simona Bordone)

19 marzo

La profezia di Ugo La Pietra

Ugo mi risponde al telefono con una voce squillante, da “un posto sperduto, su una collina dell’entroterra ligure”, lo definisce lui. Ci scambiamo le nostre impressioni sugli avvenimenti di questi giorni di epidemia a Milano, che ha lasciato 20 giorni fa, assieme ai suoi strumenti di lavoro, il suo archivio, i suoi oggetti. Mi racconta che sta cercando di ricostruire la sua vita domestica su quella collina, non senza una certa difficoltà. Gli racconto del mio rapporto con la scrivania in questi giorni, lo chiamo forse un po’ nella speranza che mi sappia dare quelle “istruzioni per abitare la casa” di cui ho scritto il 17 marzo. Mi dice però che la prima indicazione sulla trasformazione dello spazio domestico non si trova fra i muri delle nostre case ma appena fuori: “il balcone, da reclusi quali siamo, è l’oggetto domestico surrogato del rapporto con la città ed evasione dalla nostra condizione”.

Gli è misterioso però capire come le generazioni più giovani  “abituate a stare all’esterno” stiano affrontando questo momento. Negli ultimi 20 anni “le nuove generazioni hanno perso l’interesse verso gli oggetti d’arredamento – tranne il computer – e lo spazio domestico”.
In tempi non sospetti, vale a dire negli anni ’70, con la sua ricerca Interno/Esterno – poi in parte pubblicata da Corraini con il libro dal titolo omonimo nel 2014 – Ugo proiettava elementi dello spazio domestico sulle facciate delle sue casette di ceramica (per Fusella, 1977). Questi manufatti richiamano un immaginario post-moderno: il balcone prende la forma di una poltrona, o alla facciata si adagia mollemente una tenda. Viste con gli occhi in quarantena di oggi, sembrano quasi profetiche.
La ricerca, che segue la linea di Abitare è essere ovunque a casa propria, parlava dell’abbattimento della soglia pubblico/privato, ispirandosi “a Gio Ponti, alla casa che si apriva verso l’esterno”. In questa situazione, in parte secondo lui causata da una “globalizzazione che ci è sfuggita di mano”, il balcone è “la salvezza, l’unica possibilità di sentirsi ancora, almeno in parte, nello spazio urbano”.
(GR)

Ugo La Pietra è artista, architetto, designer e teorico italiano

Ugo La Pietra, “Ex-Voto”, tecnica mista su carta, 19 marzo 2020
Ugo La Pietra, “Ex-Voto”, tecnica mista su carta, 19 marzo 2020

Teoria e pratica delle code

L'Italia è simbolo di tante cose. Sicuramente non di come si fanno le code. Quello lo associamo più facilmente con altri contesti, altri paesi. Nel 1909 l'enfant prodige della statistica danese, Agner Krakup Erlang presentò The theory of probability and telephone conversation, inaugurando un nuovo campo di studio, la teoria delle code. Oltre al traffico telefonico, la si applica nel campo dei trasporti e delle forniture e, più banalmente, alle file che le persone fanno prima di accedere alla cassa di un supermercato o ai controlli in aeroporto. Con l'intenzione di “disegnare” code fluide anche se c’è chi tende a gestirle in maniera poco efficace, come noi italiani. Vi siete mai chiesti se dietro allo schema di una coda di Primark o dell’Ikea ci siano un ragionamento e la sua applicazione? Ora avete la risposta.

Filaindiana.it

La mia abitazione non ha uno di quei terrazzini dove ora si fa la macarena alle 18 o si canta volare-ooo-ooo tutti insieme. Non invidio l'affaccio su strada tranne per un chiaro vantaggio: quello di chi può vedere in tempo reale quanta coda c'è al supermercato di zona. Perché dopo il primo assalto alle rivendite a fine febbraio, con esaurimento di amuchina, carne rossa e carta igienica, e una successiva calma piatta, ora gli ingressi ai super sono contingentati. Dentro si sta in pochi e fuori in fila, a un metro di distanza almeno. Sono code che possono durare alle volte anche ore. Per fortuna, l'affaccio al mondo non è solo il terrazzino, ma anche quello digitale. Sulla social street del mio quartiere su Facebook, gli angeli delle code ne condividono le foto scattate dai loro punti di osservazione privilegiata, azzardano ipotesi sui tempi di attesa, fluidificano il traffico, lo razionalizzano condividendo i dati, danno una forma accettabile allo scempio dell'attesa nei giorni del virus. E sul sito filaindiana.it trovate tutti i tempi di attesa. Se esiste un premio dedicato a Erlang, quest'anno dovrebbe andare a tutti loro.
(AS)

18 marzo

Le storie in tempi difficili di twenty14

Nel 1897 lo scrittore americano Stephen Crane condensò in un racconto (The open boat, in italiano La scialuppa) la terribile esperienza di naufragio che aveva vissuto qualche mese prima. Oggi, quel racconto viene ricosciuto come il suo capolavoro. È questa la prima delle “Art stories in hard times” di twenty14, racconti di “grandi figure che in situazioni difficili ci hanno lasciato qualcosa di prezioso” pubblicate sotto forma di instagram stories sul profilo @t14contemporary. “Sono spunti per rendere produttive in termini creativi le nostre giornate”, spiega Matilde Scaramellini, metà del duo curatoriale insieme a Elena Vaninetti. Soprattutto si tratta, spiegano, di “una forma di intrattenimento pensata per un pubblico di appassionati d'arte e di artisti”.

L’attività di twenty14 si divide da sempre tra la consulenza per artisti e l'organizzazione di mostre. Il contatto di persona è cruciale, “ma questa situazione rende impossibile lavorare come dovremmo”, spiega Scaramellini; “è evidente – aggiunge – che queste storie siano qualcosa di diverso rispetto alla nostra attività usuale”. Si inseriscono nel tumultuoso, variegatissimo flusso di proposte condivise durante questi giorni di quarantena attraverso i social media, che passano dallo yoga ai comici alla performance, e sono tante, tantissime, forse troppe. Matilde osserva come eventi e racconti digitali abbiano preso il posto della “frenesia“, del “presenzialismo” che era normale a Milano fino a meno di un mese fa. Secondo twenty14, per una città assuefatta a un concetto di benessere che passa dal consumo di tutto, anche di eventi, questa nuova situazione abitativa ci costringe comunque a “guardarci dentro“.
Bisognerà anche capire di questa esperienza in quarantena cosa resterà in futuro. “La diversificazione del contenuto sarà un tema che ci porremo quando sarà finito tutto quanto”, spiegano le ragazze di twenty14, fermo restando che “un'opera d'arte, per quanto te la possiamo raccontare, poi la devi vedere di persona”.
(AS)

Luca Molinari e il tempo dilatato

“Viaggiando molto sono abituato a vedere il mondo mentre lavoro attraverso i device, con lo studio poi condividiamo tutto attraverso il server” dice Luca Molinari al telefono, dalla sua casa milanese. Nell’abitudine all’accesso alla rete sempre disponibile “ti svegli la mattina, spegni la sveglia e prendi il telefono: hai la rete a letto con te”. Sta però notando in questi giorni che “ciò che è cambiato è il tempo”, il quale sembra star subendo un’interessante dilatazione, talvolta una vera e propria dispersione.
In questo momento, per molti di noi, i device e la rete sono l’unico accesso al mondo esterno e la nostra tensione relazionale sta trovando espressione lì. Per Luca, il loro uso è diventato “più lento e più intrigante” e che riesce finalmente a “godere di quei contenuti che mi interessano e che finalmente ho il tempo per approfondire”.
Conveniamo però che nel marasma del tentativo di stabilire dei ritmi per lo smart working, ciò che sembra sempre fuori controllo è la lunghezza delle riunioni e la moltiplicazione dei programmi per farle: ci colleghiamo via Skype, poi Hangouts, poi Zoom, poi Facetime, ne scopriamo di nuovi di ora in ora. Alla luce di ciò che ha scritto nel libro Le case che siamo (nottetempo, 2016), gli chiedo se ha adeguato in qualche modo la sua casa per accogliere questi incontri virtuali. Lui mi risponde di no, e che è convinto che la privacy “parametro su cui la società moderna è stata costruita” sia saltata da anni.
In tutta questa virtualità, da neo-nomade, mi racconta ridendo che la cosa che gli manca di più in questi giorni è “quell’aria che sa un po’ di sanificante, quella delle cabine d’aereo”.
(GR)

Luca Molinari è critico, docente e curatore di architettura.

Orizzontale di Katia Fucci

Katia Fucci, “orizzontale”, inchiostro di china su carta, Milano, 2020
Katia Fucci, “orizzontale”, inchiostro di china su carta, Milano, 2020

17 marzo

Corolla, progetto artistico dall’auto-isolamento

Giuseppina Giordano cita il celebre haiku di Kobayashi Issa: “Mondo di sofferenza/eppure i ciliegi/sono in fiore”. L’artista, che vive a Milano, doveva partire per il Giappone a fine febbraio. Il Giappone dell’hanami, lo spettacolo della fioritura. Invece è tornata nella sua Sicilia, in casa dai genitori medici. In quarantena per 15 giorni nella stanza che è stata del fratello. “Era il 23 febbraio, erano appena scoppiati i primi casi in Lombardia. Ero a Firenze e hanno cancellato i treni per Milano. Una volta arrivata dai miei, mi è stato chiesto di autoisolarmi e di usare un solo bagno. Loro disinfettavano maniglie e quant’altro”.

È in quella stanza, dove ancora ci sono le cose del fratello, i fumetti e i libri e il suo basso elettrico, che nasce Corolla, una collezione di sculture indossabili con forma di petali flessibili, pensate perché la maggior parte di persone possa indossarle. “Mi mancava l’idea di non potere toccare l’altro e queste sculture sono delle estensioni del nostro corpo”: l’artista racconta che questo progetto nasce dall’idea che non si possa essere sempre contro, anche quando non si può essere solo con. E che l’idea di sentirci come una famiglia di umani in questo momento di crisi possa aiutarci.
Il progetto è in crowfunding su Indiegogo.
(AS)

Sono gli oggetti che fanno lo spazio?

In tempi non sospetti, su Domus 1021 di febbraio 2018, dal titolo Time, Michele De Lucchi scriveva nel suo editoriale: “sono gli oggetti che fanno lo spazio e non lo spazio che fa gli oggetti”. Era il mese in cui entravo a far parte della redazione, ma quell’editoriale ritorna oggi in un senso tutto nuovo.
Con l’avvio dello smart working, nella mia stanza è arrivato il lavoro, sotto forma del grande computer, compagno nelle mie giornate in redazione. In questi giorni è contemporaneamente la mia finestra sul mondo e la finestra del mondo sulla mia stanza. Dovendo fare i conti con l’arrivo di questo poderoso oggetto, mi sono involontariamente ritrovata ad essere esploratrice della mia scrivania, una giungla di oggetti. Prima non avevo la necessità di considerarne peso, colore e dimensione ma ho iniziato a farlo questa settimana per renderli funzionali a questa nuova dimensione di vita.

Giuseppe Arezzi, Gabbie, collage digitale, 2018
Giuseppe Arezzi, Gabbie, collage digitale, 2018

Immagino Alessandro Mendini nella sua casa – nel periodo in cui in Triennale si chiedeva “Quali cose siamo” con l’omonima mostra del 2010 – scrivere mentre guardava l’eterogeneità degli oggetti attorno a sé, come costituenti di un “micro-sistema di una vita”. Immagino, come l’ex direttore di Domus  scriveva in Scritti di domenica, che “se mi sposto dieci metri c’è un altro sistema ancora, e poi un altro, e poi mille e mille in tutte le direzioni. Sistemi miei e degli altri, di tutti noi (…) l’insieme dei palcoscenici infiniti delle nostre menti e dei nostri corpi”.
La casa che ciascuno di noi abita sta prendendo lentamente ma inesorabilmente una forma più compatibile alla nostra rinnovata dimensione esistenziale, quella dell’eremita digitale. Lo ha dimostrato il proliferare di “regole per lo smart working” rivolte a chi, come me, la casa la frequenta molto poco. Più che di “istruzioni per abitare la città” (citando Ugo La Pietra) – adesso abbiamo bisogno di formulare nuove “istruzioni per abitare la casa”.
(GR)

Giuseppe Arezzi, Gabbie, collage digitale, 2018
Giuseppe Arezzi, Gabbie, collage digitale, 2018

35mq

Vivo in un cubotto di trenta metri quadri non troppo abbondanti sulla sponda orientale di Nolo, il nuovo quartiere “che piace alla gente a cui piace piacere” di Milano. In casa ho comfort e tecnologie q.b.: un tv 49 pollici, frigo grande, forno combi, tre console da giochi, giradischi, divano comodo, Alexa e Google Home, un tappeto morbido su cui ogni tanto mi piace sdraiarmi, un tavolo allungabile (su cui tornerò). Nonostante questo, se mi chiedi i luoghi che abito più spesso e volentieri, ti rispondo che sono da Marco e della sua famiglia; Marco viene dalla Cina, dalle montagni cinesi, e gestisce il bar con biliardo che piace tanto agli anziani della zona (e a me); la palestra Heracles, dove si praticano le nobili arti del pugilato, della musica, del teatro, e altre ancora; il supermercato di fronte, dove passo quasi sempre di ritorno dal lavoro, quasi una camera di decompressione per me; il bar-libreria che ha appena aperto dietro casa, Anarres; il dehors del mercato comunale, incantevole con la bella stagione; la Carmen, paffuta signora che vende di tutto e ti inchioda di chiacchiere. Per non parlare dei ristoranti, del Q Club, in piazza Morbegno, la sera folle e birrette. E poi la fermata MM Loreto, i treni della metro verde, il tram 15 quindici e i bus numero 230 che portano a Rozzano, dove c'è la redazione di Domus.
Tutto questo all’improvviso non c’è più. Spazzato via. Resistono i supermercati, ma si entra a scaglioni e a terra ci sono le strisce per tenere la distanza. All’improvviso, abito solo in casa. Dalla mattina alla sera. Lavoro qui. Vivo qui. Ogni tanto, in pausa pranzo, scappavo al parco per fare una corsa e qualche squat.
(AS)

16 marzo

Siamo entrate in cucina quando era già buio, ci abbiamo messo qualche secondo per realizzare che era la voce di Chubby Checker a rimbalzare sulle facciate della corte. Abbiamo aperto la porta-finestra del terrazzo, ed eccoli lì, tutti i nostri vicini, a loro volta affacciati – chi alla finestra, chi al terrazzo – che salutano me e F., la mia coinquilina, al ritmo di Let’s Twist Again. Ci siamo ritrovate quindi affacciate anche noi, sorridenti nuove arrivate a una festa che sapeva quasi di una nuova forma proibizionismo.
Era sabato e, poco prima, avevo disegnato metaforicamente la prima barretta orizzontale sopra alle prime quattro verticali. Una per ogni giorno in cui sono rimasta a casa, dall’inizio della quarantena, che per me era iniziata martedì 10 marzo, assieme allo smart working.
La nostra casa è un lunghissimo corridoio, uno spazio apparentemente insensato, dove le stanze sembrano quasi delle appendici. Talvolta l’appartamento mi sembra sia stato scavato, più che disegnato: da un lato due camere da letto, dall’altro bagno e cucina.
Da martedì 10 marzo, tutti i piani delle nostre vite si sono ritrovati schiacciati in uno unico e inevitabile spazio: quello delle nostre case. Tutte le persone sono diventate improvvisamente equidistanti, di una distanza che corrisponde alla lunghezza ancora incerta di questa quarantena.
(GR)

La balconanza: terrazze, nuove piazze

Ci siamo chiamati come si chiamano gli amici in questi giorni, per raccontarci cosa stiamo facendo nelle nostre case. Giuseppe risponde che dalla sua casa a Roma, al Pigneto, vede l’acquedotto e, sotto di esso, le terrazze e i tetti del Mandrione. Abita a pochi minuti a piedi dalla sede del suo studio di architettura, Orizzontale, ma l’estensione delle regole al territorio nazionale sono presto arrivate anche alla capitale. Per chi lavora attorno a cantieri partecipati e in autocostruzione come loro, ciò ha significato una riconfigurazione del calendario di eventi programmati.

Orizzontale, 8° giorno di quarantena al Mandrione, Roma, 2020
Orizzontale, 8° giorno di quarantena al Mandrione, Roma, 2020

Nell’ottavo giorno di quarantena, ci siamo trovati a riflettere sulla crescente riscoperta delle terrazze come “palcoscenici della relazione”. Nel disegno di Orizzontale c’è chi organizza una festa su un tetto, chi scambia cestini da un edificio all’altro tramite carrucole, chi coltiva l’orto per il quartiere, chi mette a disposizione il proprio giardino per l’attività sportiva mentre l’insegnante dà indicazioni dal tetto dell’abitazione di fronte, dall’altra parte della strada. Il disegno di Orizzontale è quindi un auspicio a riflettere su questo momento che ci vede tutti costretti a casa, per superarlo con un rinnovato senso dello stare insieme fra vicini: incontrarsi dalle terrazze può essere un modo per esercitare una rinnovata dimensione di quartiere.
(GR)

Con Giuseppe Grant, co-fondatore di Orizzontale, collettivo di architetti con base a Roma

Lidia

Come influisce la quarantena su chi ha fatto del palcoscenico e delle sale prove la propria casa putativa? Lidia Carew è una ballerina, attrice e performer che vive a Milano. “Sono a casa e lo sto vivendo bene”. Così racconta la sua quarantena. E aggiunge la cosa che non ti aspetti: “Forse avevo bisogno di mettere in pausa questo mondo che va super veloce”.
Lidia vive da agosto con il suo compagno Matteo Caccia e il loro cane, in un appartamento che descrive come “non troppo grande ma neanche piccolo, per come sono le case a Milano”. Oltre al salotto e alla stanza da letto, c’è uno studio-guardaroba, “che da quando viviamo insieme è più guardaroba che studio”, sottolinea. In questi giorni quella stanza, che rappresenta forse meglio di ogni altra l’equilibrio delicato di una nuova convivenza, ha cambiato di nuovo funzione: Matteo, che lavora a Radio 24, ora lo fa da casa, e lo spazio è stato trasformato in un piccolo studio di registrazione. Tra relle e cappotti.

Lo studio-guardaroba di Lidia e Matteo

 “È un test molto grande per le coppie, specialmente in una città come Milano, dove gli spazi sono ristretti”, racconta la danzatrice, spiegando come l’uso delle cuffie serva a entrambi per delimitare degli ambienti che non sono soltanto fisici, ma anche sonori. In soggiorno fa esercizi di stretching e potenziamento muscolare: “Il mio scopo ora è mantenere una forma decente”, ammette. Non sempre usa la musica.
Questa pausa forzata dà a Lidia più tempo per occuparsi dellassociazione “che si occupa di talento improbabile”, fondata 4 anni fa. Lidia non ha riconfigurato solo gli spazi di casa: sta riconfigurando la sua vita, e lo racconta con il sereno ottimismo di una voce che, vocale dopo vocale via Whatsapp, non si piega mai alla paura. C’è vita dopo la quarantena, nuove opportunità. “Pensiamola così, o ci buttiamo tutti giù dal balcone”.
(AS)

Cos'è questo diario

Il primo numero di Domus esce nel 1928 con un sottotitolo eloquente: “Architettura e arredamento dell’abitazione moderna in città e in campagna”. È la nascita di una rivista che ha sempre avuto casa a Milano, ma con una vocazione internazionale. Quasi 100 anni dopo, Milano e il nord Italia hanno gli occhi del mondo puntati addosso: l’area del lombardo-veneto è l’epicentro del più grande contagio da Coronavirus dell’Occidente. Con l’entrata in vigore della zona rossa, la capitale economica d’Italia diventa teatro di una situazione inedita: i suoi abitanti non possono uscire dalle mura domestiche. Chiudono le palestre e le scuole, chiudono i musei e i bar, chiudono anche i parchi recintati. L’indicazione è chiara: state a casa. Anche la redazione di Domus comincia a lavorare in smart working. È un’esperienza nuova: per gli abitanti e per le abitazioni. Un’esperienza a cui non eravamo preparati: come si abita in quarantena?

Da qui l’idea di questo pezzo: una raccolta di storie di luoghi e di persone, di idee, di progetti. Di azioni e reazioni, raccontate giorno per giorno. Coinvolgendo architetti, designer, artisti e oltre. Nel pieno della vocazione di Domus, partiamo da Milano, ma allargandoci al mondo.

“Come abitiamo in quarantena" è coordinato da Giulia Ricci e Alessandro Scarano. Per contattarci potete scrivere a giulia.ricci@edidomus.it e alessandro.scarano@domusweb.it

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