Nel 2015 Detroit è stata nominata capitale UNESCO del design, un riconoscimento importante che scommette sul progetto come elemento di rilancio di un ambiente segnato da una profonda crisi economica, sociale e culturale.
Il design del grado zero
Il collettivo Akoaki e Detroit saranno ospiti d’onore della decima Biennale Internationale Design di Saint Étienne. Anya Sirota, che coordina il collettivo insieme a Jean Louis Farges, racconta come affrontano la partecipazione alla Biennale.
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- Marco Petroni
- 24 febbraio 2017
- Detroit
Proprio nella ex Motor Town lavora con originale intensità progettuale e creativa il collettivo Akoaki coordinato da Anya Sirota e Jean Louis Farges. Le loro pratiche mettono in campo un progetto di riappropriazione dello spazio pubblico che passa dalla condivisione di luoghi ed economie capaci di non rendere superflue le persone e le relazioni. In questo processo il design lavora per la creazione di imprese inclusive, naturalmente tecnologiche e intenzionalmente sociali. Un lavoro che sta producendo un insieme di luoghi, di occasioni concrete di possibili alternative. Grazie al lavoro di Akoaki Detroit sta creando una via d’uscita da un sistema che ha fallito miserabilmente. Abbiamo incontrato Anya Sirota per avere alcune anticipazioni sulla loro partecipazione alla X Biennale Internationale Design di Saint Étienne.
Marco Petroni: Qual è il vostro approccio allo spazio pubblico e come lo definiresti all’interno di O.N.E Mile project, uno dei progetti che state sviluppando a Detroit? Anya Sirota: Il nostro lavoro sul O.N.E. Mile nasce da una forte aderenza con la città: l’identità di un luogo può essere astratta, proiettata, performata, costruita, resa visibile, persino mitizzata, e il design può partecipare alla manifestazione di simboli e sinergie che lavorano nella direzione della massima inclusione e diversità sociale. Così immaginiamo la produzione di uno spazio pubblico come scenario in precario equilibrio animato da incontri, relazioni che hanno un ampio margine d’instabilità. Combinando le caratteristiche di un dato contesto, in questo caso il mitico North End di Detroit, con una serie di installazioni e attività culturali radicate a livello locale, abbiamo lavorato investigando e rinnovando l’esperienza collettiva in una città ricca di spazi – di cui pochi sono pubblici. In questa situazione lo spazio pubblico non è una neutrale amenità, ma un luogo di espressione, contestazione e valorizzazione.
Marco Petroni: Nel vostro lavoro emerge un’intensa attività di traduzione di attitudini locali. In questo processo il design è un mezzo significativo per indagare conoscenze culturali che prendono forma in installazioni pubbliche, musica e oggetti. Sei d’accordo con questo punto di vista? Puoi chiarire che tipo di processi avete attivato nella zona del North End? Anya Sirota: Il termine traduzione è molto appropriato. Nel nostro lavoro la fase di ricerca è considerevole, intensa, e attualmente in divenire. Si inizia con la costruzione di molteplici relazioni con una vasta rete di produttori culturali e intellettuali, alcuni molto connessi alle realtà materiali dello spazio, altri completamente liberi. Lo scopo non è il totale consenso, piuttosto, si tratta di assemblare e attivare una massa critica plurale. Con questo tipo di quadro operativo, le persone possono collegarsi, progettare dei cambiamenti, trasformarsi e crescere. Il processo chiave del progetto sta nel fondare un metodo di comunicazione fra un ampio numero di attori che non sono sempre a favore ma che in conclusione condividono una serie di valori politici.
Marco Petroni: Pensi che il vostro approccio progettuale sia collegato con le esigenze reali della comunità locale? Come identificate i bisogni? Anya Sirota: Nel North End e in molte comunità di Detroit c’è una situazione molto grave: infrastrutture fatiscenti, un sistema di istruzione pubblica preso a pugni, un accesso vulnerabile ad acqua ed energia, problemi di assistenza sanitaria, mancanza di opportunità economiche e così via… Queste esigenze base restano irrisolte e sono rese visibili dal disinvestimento nei quartieri, sono le conseguenze di mirate ingiustizie sociali che Detroit ha sopportato per molto tempo. Purtroppo, il design non può da solo con le proprie forze rispondere a queste esigenze molto pressanti. Quello che il design può fare è creare un ambiente per ogni singolo individuo, un luogo protetto dove poter esprimere le proprie opinioni, esperienze, aspirazioni e difficoltà, così possiamo modificare la percezione diffusa e rivelare una moltitudine di narrazioni altrimenti invisibili.
Marco Petroni: Come state lavorando alla prossima partecipazione alla X Biennale di Saint Etienne con il progetto Out Site? Anya Sirota: Negli ultimi anni Detroit ha raccolto una giusta quota di attenzione. È stata utilizzata come sfondo scenografico per innumerevoli mostre, workshop, e dibattiti, gli esperti di design hanno spesso usufruito della città come ideale tabula rasa per una serie di esperimenti speculativi. Di fronte al compito curatoriale di inquadrare questo contesto urbano in un modo nuovo e francamente non coloniale, io e il mio partner Jean Louis Farges, abbiamo definito alcune regole. Vorremmo esporre progetti 1:1; cioè, no a modelli, disegni e prototipi, solo traduzioni dirette. Vogliamo schierare inizialmente tutti gli interventi a Detroit, e quindi inviare i progetti alla Biennale già testati e realizzati. In altre parole, privilegiamo il loro andamento sul campo e li esportiamo per approfondirne la validità in base alla loro reale funzionalità. Infine evitiamo di lavorare con progetti in scala, o con rappresentazioni che mostrano i cittadini di Detroit come utenti strumentali. Invece, vorremmo trattare la Biennale come un’occasione per raccogliere fondi e portare il maggior numero di partner, performer, artisti, agricoltori e attivisti urbani che abbiamo coinvolto in questi anni. Il risultato è una mostra che occuperà il cortile centrale della sede della Biennale con tre installazioni su larga scala, spettacoli di musica sperimentale, e una programmazione culturale che evidenziano una molteplicità di scenari e di professionalità importate da Detroit. Nel processo, speriamo di produrre un commentario sui modi in cui il design può essere esercitato al di fuori dei rapporti normativi del capitalismo.
Marco Petroni: Definite il design come un catalizzatore per il cambiamento. A noi, la vostra pratica sembra una piattaforma sociale ed economica per la comunità locale. Sei d’accordo? Anya Sirota: È un dato di fatto che il cambiamento è emerso come centrale grido di battaglia e meccanismo di resistenza. Se il cambiamento punta alla trasformazione di qualcosa, in nessun modo ne garantisce una modificazione per il meglio o per il bene comune. Vediamo, ad esempio, come la chiamata al cambiamento di Barack Obama è stata facilmente cooptata dall’attuale amministrazione degli Stati Uniti. Anche per noi, cambiare è una parola chiave ma non l’obiettivo finale. Riflettiamo e lavoriamo sulla volontà di assorbire e reinventare modelli standard di rigenerazione urbana così che le persone, spesso escluse dal processo possano individuare una piattaforma d’espressione se non di riconciliazione con il loro contesto. Marco Petroni: Il vostro progetto è ambizioso e apre uno spazio per nuove pratiche nella progettazione. Qual è la tua personale opinione sul design del domani e in quale modo deve differenziarsi da quello attuale? Anya Sirota: I progetti che realizziamo come designers hanno affinità politiche profonde, e inevitabilmente sostengono valori aperti alla più ampia condivisione. Nel futuro a noi prossimo il design continuerà a contribuire, intenzionalmente e non, alle tendenze correnti, rafforzando le nostre veementi divisioni sociali e politiche. A Detroit, questo prende forma in un confronto fra l’estetica di un regime votato alla nostalgia e un altro più aperto verso il futuro. Qualcuno afferma, nell’adorazione di glorie industriali passate, che la città è orientata a “fare grande l’America di nuovo”. Ma noi affermiamo che la cosa promettente per il design è la sua capacità di produrre il desiderio di rompere le bolle sociali generate dagli algoritmi in cui siamo imbrigliati. Quindi, mi auguro di vedere il design utilizzare la sua abilità disciplinare per prendere parte appieno al discorso pubblico e all’affermazione politica di un mondo più inclusivo.
Marco Petroni: Potresti dirci chi ci guadagna dai vostri interventi e come? Il quartiere è diventato più attraente? Erano questi i vostri obiettivi? Anya Sirota: In ambienti economicamente depressi, il design è spesso schierato per sviluppare l’appeal di un dato contesto e per indicare una sua disposizione alla riqualificazione. Non è una novità che il design può portare alla gentrificazione e all’involontario trasferimento delle persone. Nel North End di Detroit, è difficile affermare che abbiamo singolarmente migliorato il fattore d’attrazione del quartiere. Molti altri progetti di riqualificazione erano già in atto. Abbiamo sicuramente contribuito alla sua visibilità. Il punto è che questo era uno degli obiettivi: rendere il valore culturale di un luogo distinguibile rafforzando le sue narrazioni, dalla diaspora africana, alla storia musicale, dalla techno alla nascita del movimento Afrofuturism. Abbiamo imparato nel modo più duro quanto questa attività attrae attenzione dal di fuori portando anche investimenti economici. Nei nostri progetti sono coinvolti anche avvocati, economisti, agenti immobiliari e sociologi, con cui definiamo nuovi modelli di proprietà collettiva che mettono in sicurezza territori e spazi a beneficio dei residenti locali. Marco Petroni: Qual è l’obiettivo per il futuro e come pensate di migliorare le vostre pratiche a Detroit e all’estero? Anya Sirota: Da poco abbiamo compreso da Sun Ra che la nozione lineare del tempo è sopravvalutata. Il futuro è già qui. Ora dobbiamo affrontarlo.
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