Per trovare le radici della sua fotografia, Francois Halard ha fatto il test del DNA. Lo racconta divertito, mentre attraversa le decine di stanze dell’Hôtel Particulier in cui vive da trent’anni nel centro di Arles. È il periodo dei Rencontres d’Arles – lo storico festival francese della fotografia – la cittadina provenzale è piena di fotografi, ma Halard chiarisce subito che la scelta di vivere qui non ha niente a che vedere con la fotografia che si respira qui intorno. “Arles è la cosa più italiana che si possa trovare in Francia” dice: “nel XVIII secolo era chiamata la piccola Roma”. E in effetti il test del DNA ha confermato che il suo sangue è molto italiano. “Ho scoperto di avere radici più italiane che francesi, e questo mi ha dato diverse spiegazioni, il mio modo di vedere il mondo è italiano, è un continuo mescolare l’antico al contemporaneo. È questa la mia fotografia, passato e presente che si tengono insieme”.
Durante il primo lockdown è rimasto chiuso in questa casa per cinquantasei giorni e ne ha approfittato per riappropriarsi, con la macchina fotografica, di tutti gli oggetti – centinaia, forse migliaia – appoggiati sulle librerie, sui mobili, sui tavolini, ovunque. Ne è uscito il libro “56 Days in Arles” che è servito a Francois Halard per tornare a fotografare ciò che gli interessa davvero. “Dopo anni in giro per il mondo a fotografare per i magazine, questo è il momento di lavorare per me stesso, questa ora è la mia priorità” spiega “il periodo del Covid mi ha spinto a cambiare, sono tornato a fare le cose che facevo tanto tempo fa, per esempio dipingere quadri, lo facevo negli anni Ottanta e poi non l’ho più fatto. Ho voglia di lavorare di nuovo per me, con la mia idea, la mia visione e trovo che farlo oggi sia anche più divertente perché nel frattempo c’è l’esperienza”.
Insomma sta riprendendo un discorso iniziato tanti anni fa e interrotto per forza maggiore – “dovevo lavorare” ride – ma questo non significa che lo sguardo sia rivolto al passato, non c’è alcun approccio nostalgico in queste fotografie. “È tutto rivolto al futuro. Gli oggetti che vedi in questa casa sono stati accumulati nel corso degli anni, sono souvenir di viaggio, di servizi fotografici, regali. Quando li fotografo, voglio ridare vita a questa collezione. Tutto qui. È una forma di riappropriazione, è come un nuovo inizio. Non può esserci nostalgia nel rendere vivo qualcosa”.
Ho voglia di lavorare di nuovo per me, con la mia idea, la mia visione e trovo che farlo oggi sia anche più divertente perché nel frattempo c’è l’esperienza.
Qual è il filo conduttore della collezione? “Nessun fil rouge, nessun periodo storico, nessuno stile particolare” osserva Halard “solo l’ispirazione e la memoria guidano la mia collezione. Ci sono vasi coreani, c’è un vaso degli anni della guerra mondiale regalato ai miei genitori, c’è la mia prima opera d’arte acquistata a metà degli anni ottanta, c’è questa stampa con dedica di Schnabel, ci sono ricordi dei miei momenti passati negli atelier degli artisti”.
La casa di Arles non è un museo, e ci mettiamo poco a capire anche che a Francois Halard non fa granché piacere che gli si dica quanto è bella. “Non è una mostra e io non voglio che venga pubblicata sui giornali come una bella casa. È un corpo del mio lavoro. La decorazione di questa casa muta continuamente, cambia in base ai progetti che sto seguendo, cambiano le stampe appese ai muri, la disposizione dei tavoli, degli spazi. Niente è mai fermo qui”.
Nella sua vita, Francois Harald ha fotografato le case più belle del mondo e gli atelier degli artisti del ‘900 che lo hanno ispirato, con i quali il rapporto è stato di amicizia e di ispirazione. È convinto che tutte queste case siano l’autobiografia dei loro proprietari. “La Cupola in Sardegna di Michelangelo Antonioni e Monica Vitti era il riflesso del loro rapporto con l’Italia. La Villa E1027 di Roquebrune Cap Martin ci trasmette tutto della visione di Eileen Gray. Le case possono essere la migliore autobiografia di una persona. Malaparte, con la sua Villa di Capri, diceva di aver disegnato il suo paesaggio, non una casa”.
E queste fotografie raccontano la tua vita? “Credo di sì. Da sempre, la mia vita è legata agli oggetti, al design. A diciotto anni, come regalo di compleanno, ho chiesto ai miei genitori di andare alla Fiera di Milano per il Salone del Mobile. Quando mi chiedevano che regalo volessi, invece di scegliere un motorino o una vacanza al mare, chiedevo un pezzo di design, poteva essere una scrivania Zanotta, amavamo tutti Superstudio e il design italiano di quel periodo, o qualsiasi cosa avesse un legame con il design”.
Poi questi pezzi ha iniziato a fotografarli. Immagini che sono diventati a loro volta degli oggetti. È anche per questo che la macchina fotografica, per Francois Halard, molto spesso è stata una Polaroid? “Sì, perché puoi creare oggetti, fotografie uniche e materiali, è una cosa molto affascinante. Mi capita di stampare le Polaroid in formato molto grande e di dipingerci sopra”. Si chiama manipolazione ma, nel suo caso, anziché avvenire direttamente sulla Polaroid, avviene quando queste sono stampate in grande formato, e l’effetto è davvero potente. È la serie a cui sta lavorando in questi mesi e che presenterà a novembre a Parigi. Ci sono le icone dell’architettura moderna, c’è molto cemento, di cui Halard ama l’estetica e il fatto che struttura e decorazione finiscano per coincidere, c’è Villa E1027 di Eileen Gray a Roquebrune-Cap Martin con i murales di Le Corbusier che la storia racconta abbiano deturpato la purezza dei muri voluti dalla designer irlandese, c’è la Cupola di Dante Bini oggi in stato di abbandono – “ho firmato la petizione per salvarla” dice il fotografo – e su tutto questo c’è il suo intervento attraverso la pittura, una reinterpretazione affinché “queste fotografie all’improvviso diventino qualcos’altro”.
Quando fai una fotografia, anche se la fai per altri, stai fotografando per te stesso, non devi dimenticarlo mai.
Design, struttura, materiali, decorazione: che cosa è che tiene insieme tutto questo nelle fotografie di Francois Halard? “La decorazione mi interessa solo se entra a far parte dell’architettura e se c’è una connessione vera con la vita di chi abita la casa. In questa casa di Arles, per esempio, è come se stessi lavorando a un dipinto tridimensionale, un dipinto in cui le stanze sono reali e le cose cambiano continuamente. E sai perché cambiano? Perché la decorazione è la mia opera, il mio lavoro, le stampe appese alle pareti sono quelle a cui sto lavorando in questo momento, è la mia attività sempre in progress”.
Un metodo di lavoro dove tutto è connesso, dove la letteratura si mescola con le arti visive, con la società, con la storia e le biografie – mai perfette – che hanno riempito la vita di Halard, la storia della sua famiglia e di tutto il ‘900. Probabilmente sono le connessioni a rendere davvero memorabili queste immagini. La domanda è semplice: perché le foto dei magazine, oggi, sembrano tutte uguali, perché le guardiamo e ce le dimentichiamo, mentre le sue no? “Perché cerco di avere un rapporto vero con l’immagine, che è l’opposto di essere un influencer, non mi interessa in nessun modo la velocità. Una foto di interni è una foto degli interni, non una foto di decorazioni. C’è una vera ricerca fotografica, che non è ricerca estetica. Ma queste non sono cose che non vengono da sole, è il lavoro di ogni giorno. Non si può insegnare. Bisogna provare e fare, bisogna essere davvero ossessivi”. Ed esistono regole? “L’unica regola è che tutto è sempre un tentativo. Quando fai una fotografia, anche se la fai per altri, stai fotografando per te stesso, non devi dimenticarlo mai. Per scattare una buona foto bisogna accontentare prima di tutto se stessi”.