Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1064, gennaio 2022.
Ho sempre avuto l’istinto, prima di mettermi a scrivere, di trasmigrare nelle case degli altri. A tutt’oggi non so dire quale sia stata la ragione iniziale, quando per la prima volta ne ho sentito l’urgenza, poco prima dei miei 30 anni. Non so dire, cioè, se la scrittura ne fu il motore oppure solo il pretesto, ma certo è che la spinta era doppia: da un lato volevo sottrarmi a chi sapeva tutto di me (la mia casa) e dall’altro sparire dentro la trama, arredata, della vita di un’altra persona.
Mi pareva, credo, che soltanto sottraendomi del tutto a me stesso mi fosse data in qualche modo rinascita. Detto in altro modo, potevo diventare un altro da ciò che ero, senza testimoni e con un’estetica, un paesaggio e una metratura differenti. Il che mi faceva essere una specie di me stesso in purezza, e al contempo un impostore. Cioè potevo inventare una storia: dire ‘io’ parlando di me, ma smettere di essere Andrea. Quello che poi sarebbe diventato un metodo nacque dunque così, con uno zaino fatto un po’ in fretta, qualche cambio di biancheria e il computer portatile.
Dentro le case degli altri mi sento il personaggio di una storia che non ho scritto io, ma in cui mi è facilissimo inserirmi.
Ai tempi, stavo a Torino e per arrivare a Genova erano sufficienti un treno regionale e una decina di euro. Il resto fu la pianura alessandrina da attraversare, il vento che arrivava dal porto appena sceso dal treno e, infine, un appartamento sopra piazza Corvetto. Poggiare lo zaino all’ingresso, scrivere un sms alla mia compagna di allora (“Sono arrivato”) fu dunque l’inizio. Ero a nemmeno due ore da casa e per di più ai tempi avevo già viaggiato parecchio, eppure quello sembrava il mio primo viaggio.
La casa era al primo piano di un edificio del 1890, ci si arrivava scarpinando su due tornanti di acciottolato, su cui pure le automobili, con misteriose destrezze, riuscivano a parcheggiare. L’appartamento era luminoso, svettava come tutto a Genova o svetta oppure sta soffocato dall’ombra di chi svetta davanti. Un centinaio di metri quadri, librerie a soffitto stipate di libri, e uno spazio suddiviso con estro in una ristrutturazione. Ricordo soprattutto il bagno, che era la stanza più grande di tutta la casa, un piccolo labirinto iniziale e poi una poltrona accanto alla doccia. Il resto era il gusto dell’amica che vi abitava, un gradino per entrare in cucina, la sua stanza in una sorta di tasca nascosta, e accanto al suo letto la cuccia del cocker che divideva la vita con lei.
Di oltre 20 anni più grande di me, la mia amica – Lorenza – era, come è proprio dell’amicizia, lei stessa una casa. Andava e veniva, lasciava che disponessi dello spazio e del tempo come credevo. Di mattina, occupavo la sua scrivania, la sera le ingombravo il soggiorno: dal divano estraevo il mio letto e me ne stavo lì, come un’isola spartitraffico, doveva circumnavigarmi per raggiungere bagno e cucina. Prima di dormire le urlavo la buonanotte, e dalla sua tasca nascosta mi rispondeva.
Adesso che ci penso, a quasi 20 anni di distanza da allora, mi rendo conto che in questo mio traslocare lì, giocò un ruolo importante la protezione. Scrivendo, avrei dovuto attraversare l’ignoto e, per farlo, avevo bisogno di sentirmi le spalle coperte. Ma in fondo lo sapevo anche allora.
Gli oggetti, le foto disposte sugli scaffali, gli arredi, raccontano quel che c’è di più umano: trovare il proprio posto nel mondo e fare del mondo un posto che ci assomiglia.
Stavo scrivendo una lunga lettera che era anche il congedo di un figlio a una madre che se n’era andata, prima a migliaia di chilometri di distanza, per poi finire per sempre tra quelli di cui si può avere solo memoria. Incamminarmi per quella strada battendo le dita sulla tastiera, mi faceva trattenere il respiro, combinando ogni giorno commozione e paura. Sentivo di dover camminare leggero, di dover perdere peso per non rompere tutto, per non spaccare le frasi che distendevo sul foglio.
Ogni mattina, finito di scrivere, prendevo il cocker di Lorenza, le aprivo lo sportello e ce ne andavamo a correre al Righi. Lasciavamo la macchina al parcheggio e poi prendevamo per i sentieri, in altro sopra il mare. Lupe mi correva davanti, mi apriva la strada contenta, le sue orecchie come due ali. Di quei mesi ricordo il silenzio dell’appartamento, quelle cene di poche o tante parole, e Lupe acciambellata ai miei piedi mentre scrivevo, sotto gli occhi che mi guardavano da dentro le foto appese dovunque.
E le visite della mia compagna, che mi veniva a trovare in quell’altrove, che era molto più lontano dei 170 chilometri che separavano Genova da Torino. Mi guardava girare per quello spazio straniero, camminare per una città che non era la mia e mi chiedo cosa vedesse negli occhi di quell’uomo visibilmente distante.
Scrivere di quelle case significa scrivere di ciò che nel più profondo cerchiamo, il senso di noi stessi dentro una storia.
Salvo rientri sporadici, sarei tornato a casa un paio di mesi più tardi, 15 chili di meno, un romanzo finito, e insieme avremmo capito che non c’era viaggio più rischioso di quello che ogni volta faccio con le parole. Ma ci conoscemmo di nuovo, e la vita proseguì uguale e tutta diversa. La casa sopra piazza Corvetto da allora ha preso forme differenti. Il bagno è stato nel frattempo convertito in camera da letto, che forse era il suo destino naturale, e la stanza è diventata una camera per gli ospiti. Ci vive dentro una coppia, in affitto.
Lorenza oggi abita a Milano, in un appartamento che non ho mai visto. Lupe non c’è più, a marzo del 2020 se n’è andata anche lei tra quelli di cui si può avere solo memoria. E la memoria, ancora una volta, la si lascia scrivendo. Se consideri le colpe, il romanzo che scrissi in quell’appartamento, le deve molto. Tutto quello che c’è scritto lì dentro sulla paura dell’abbandono e sull’amore incondizionato me l’ha insegnato lei dormendomi tra i piedi e facendo volare le sue orecchie da cocker felice quando mi sentiva rientrare.