Scorrere le immagini del primo iPhone, uscito quasi venti anni fa, è una esperienza spiazzante. Perché il dispositivo che ha inaugurato l’età dello smartphone è parecchio diverso da come ce lo ricordiamo. Un po’ un tuffo al cuore, molto bagno di realtà. E non c’entrano solo le dimensioni ridotte, le grandi cornici o quello schermettino dove si legge l’evidenza della rete di pixel che lo forma. Lo shock è iconografico. Si riassume con una parola: scheumorfismo, ovvero l’uso di interfacce grafiche che simulano gli oggetti del mondo fisico, in gran voga nella Apple di quegli anni.
La calcolatrice aveva tasti smaccatamente tridimensionali, le note sembravano delle pagine di quaderno e i memo vocali presentavano un bel microfono sullo sfondo. I libri stavano su scaffali di legno e tutte le icone simulavano una fisicità che oggi ci sembra strampalata e poco elegante, e che almeno nel mercato occidentale sa di “vecchio”. Come il vagamente inquietante girasole che compariva nel tasto dell’app Foto, prima versione.
Lo scheumorfismo era smaccatamente sincero: rappresentava l’istinto cannibale dello smartphone, capace via via negli anni di “assorbire” al suo interno oggetti fisici, che sono stati decimati nel mondo reale se non proprio spariti, o talvolta si sono radicalmente trasformati. Oggetti che non erano semplici cose, ma fulcri di interazioni, o esito di intere filiere di interazioni, modalità di commercio o comunicazione, oggi dissolte. Sostituire le cose ha cambiato irreversibilmente le persone e come si relazionano tra di loro.
Alcuni esempi di questi “oggetti cannibalizzati” sono così clamorosi che quasi non meritano di essere citati. Il telefono, di cui lo smartphone costituisce del resto una esplicita evoluzione. Il computer, di cui ha assorbito tante funzioni – non ci si crede, ma un tempo tornavamo a casa per leggere le mail. E poi c’è da dire che l’ubiquità dello smartphone insieme all’avanzamento delle tecnologie hanno sdoganato la smaterializzazione dei dati nel cloud, facendo evaporare non solo gli oggetti fisici, ma anche quelli digitali: pensate a tutte le collezioni di mp3 o file video, quando oggi la musica e i film corrono via streaming.
L’oggetto “cannibalizzato” per eccellenza è sicuramente la macchina fotografica. Non solo lo smartphone l’ha di fatto soppiantata nel mercato di massa, mettendo in crisi grandi e piccoli produttori, ma per anni, almeno prima che l’AI diventasse il nuovo epicentro di storytelling intorno a cui le narrazioni dei produttori di smartphone impostano le loro campagne di comunicazione, il “cameraphone” ne era l’indiscusso protagonista. Con l’idea che lo smartphone fosse soprattutto una fotocamera con il telefono attaccato. E c’era sempre un telefono che faceva foto migliori, con più megapixel, più nitide al buio, con un bokeh più raffinato nella modalità ritratto. Ed è stato proprio in merito alle fotocamere che abbiamo sentito parlare, forse per la prima volta in maniera esplicita e diffusa, di ottimizzazione tramite machine learning e AI.
Non è raro, soprattutto nelle strade delle grandi città, notare qualcuno con una reflex al collo, magari a pellicola; o che al tavolo di fianco al tuo in un caffè sia appoggiata una Olympus mju, una Yashica T4 o qualche altra vecchia compattina analogica. Per ogni grande tendenza, ci sono sacche di resistenza. E negli anni i media hanno sottolineato spesso con enfasi eccessiva l’amore delle nuove generazioni – gen z, gen alpha, gen vattelapesca – per le retrotecnologie di una volta, dalla musica in vinile al walkman, dai telefoni “dumb” a conchiglia alle collezioni di volumi cartacei di manga a qualsiasi altro oggetto che probabilmente rasserenava soprattutto il giornalista pre-nativo digitale davanti all’irreversibile dissoluzione di tanta parte del mondo materiale con cui era cresciuto in un tutto sommato banale oggettino che si tiene in tasca.
Immagine di apertura: Steve Jobs. Foto Justin Sullivan da GettyImages