Oggetto seriale per eccellenza, il cestino eredita dall’ancestrale vaso la stessa funzione contenitrice e persino, talvolta, la stessa tipologia formale. Eppure, è grazie alla rivoluzione industriale che nasce e si vede diffondere come un nuovo, imprescindibile oggetto della modernità. Che si parli di un bidone della spazzatura o di gettacarte, il cestino è stato prima di tutto il prodotto di una società in rapida crescita che inizia a confrontarsi con la nozione di rifiuto, sistematizzandola su vasta scala.
È infatti nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo che il cestino inizia ad essere prodotto in serie dopo essere stato precedentemente realizzato a mano come bene di lusso per la nobiltà. La sua evoluzione nel secolo successivo è ancora all’insegna della società di massa. La rivoluzione dei colletti bianchi con l’arrivo dei grandi uffici imporrà la presenza del cestino a ogni scrivania, mentre la rivoluzione della plastica darà un nuovo impulso alla produzione di cestini a basso costo dalle forme sempre più scultoree, lontani zigrinature e scannellature dei primi modelli in metallo galvanizzato.
Oggi, la digitalizzazione concorre a ridurre l’ingombro e la presenza del cestino in ufficio, e impone invece un ripensamento totale di quello domestico, che si moltiplica per accogliere la raccolta differenziata. In una società che diventa sempre più virtuale e si vorrebbe zero rifiuti, il cestino è destinato a cambiare natura? È quello che si potrebbe pensare osservando esemplari recenti flirtare con forme più imprevedibili e suggerirsi come svuota tasche o contenitori per oggetti personali. Al netto di una probabile marginalizzazione, stentiamo a credere che sia un oggetto destinato a scomparire: più probabile che il peso della vita reale, con i suoi rifiuti e le sue necessità di occultamento, continuino a manifestarsi come un’esigenza ineludibile della nostra esistenza.