Perchè anche Pepsi ha cambiato logo?

Le identità visive sono ancora fondamentali oggi? Pare proprio di sì. Ne abbiamo parlato con Mauro Porcini, Chief Design Officer di un brand che da sempre vive di presente.

In caso dopo un decennio accelerato non avessimo ancora elaborato il tramonto delle estetiche Apple – non degli iPhone: qui si parla del Jony Ive tutto minimalismi, Dieter Rams e Helvetica Neue – ci farà bene notare che anche Pepsi, un brand che come unica regola ha esprimere il presente, essere lo sfondo delle immagini più popolari del pianeta, da un anno circa si identifica in un logo nuovo. 

È forse l’idea di identità visuale, quell’idea che sembra evocare espressioni novecentesche come “identità grafica” e “agenzia pubblicitaria”, ad essersi dissolta nell’anno della brat summer e all’indomani delle prime crepe nei templi dell’influencer marketing? Abbastanza serenamente, la risposta è no.

Lo stesso fenomeno brat del 2024 – la cover verde acido di Charli XCX con font new brutalist e linguaggio adeguato – archetipo istantaneo della viralità, è un progetto di design che attraverso segni inventa un mondo; ben poco distante da progetti di art direction che hanno fatto rivoluzioni estetiche, come quello di Mendini per Alessi a fine ‘70. L’appiattirsi dei grandi nomi della moda su loghi tutti uguali, non importa se Celine, Burberry o Balenciaga, basta sia sans serif in campo bianco, ci ha raccontato una storia simile. E anche Pepsi fa la sua, con modi e linguaggi suoi: da fondi bianchi, blu opachi e linee sottili, ha fatto tornare il nero, molto; la linea è forte, la scritta muscolare con note vintage. 

Cosa sta dietro ad una rivoluzione di identità visiva? Quanto impatta sulla presenza sociale del suo contenuto? Tanto, e tanto dipende dalla sua ricezione. Ce lo ha raccontato Mauro Porcini, formazione da product designer al Politecnico di Milano, oggi il primo Chief Design Officer nella storia di Pepsico, l’azienda globale madre di Pepsi e altri brand. Lui faceva il suo debutto in house proprio in un momento di alta criticità, il 2012, quando la missione era unificare un'audience globale attorno ad un’identità che stentava ad essere adottata, quella della “rivoluzione minimalista” portata nel 2009 da Peter Arnell separando una scritta esile dall’iconico globo bicolore. 

Mauro Porcini, Chief Design Officer di Pepsico. Foto Dave Puente

“La prima cosa che ho fatto” racconta Porcini, “è stato quello che ho imparato al Politecnico: sono andato a parlare con la gente. Imbottigliatori, manager, clienti, consumatori. Risultato, quel minimalismo alla Apple, alla Braun non funzionava per il nostro brand. Pepsi è forte, massimalista.

È timely, non timeless come Coca-Cola, è energia. Il claim era ‘Live for now’, oggi è ‘Thirsty for more’”. Il blu diventa più acceso, il logo più grande, il font un po’ più forte. “Io sono un industrial designer, non un grafico, quindi sono abituato da sempre a guardare gli oggetti in tre dimensioni”: ripetere i loghi sulla superficie di una bottiglia o di una lattina diventa più fastidioso che visibile, e allora il logo secondario viene fatto in verticale, col piccolo globo nella seconda “p”.

Il Big Ball Blue è lanciato nel 2013, e tutto il mondo lo adotta. Segue un decennio in cui ogni collezione, ogni evento, è occasione per testare nuove idee, fino all’immediato pre-covid, quando si decide che i tempi sono maturi per una ridefinizione totale: “In anni di ricerca chiedevamo alla gente di disegnare il logo che avrebbero voluto oggi, con motivazioni, e la maggioranza faceva un globo con la parola Pepsi dentro, anche chi al tempo di quel logo doveva ancora nascere. Lo stesso brand è nato prima di tutti noi, oltre 125 anni fa, un linguaggio amato: dobbiamo proteggerlo, ma proiettarlo al futuro”.

Il nuovo logo di Pepsi. Courtesy Pepsi

Quindi, digitale. Un’identità visiva che funzionasse sul digitale, che è “quasi un bottone”, con un pulse nero e blu che irradia. Quindi, zero zucchero. Per loro, significa il futuro, e tutta la comunicazione è centrata su quello: e in Pepsi, zero zucchero vuol dire nero. Il master brand riunisce tutta l’identità, quindi tutti i touchpoint, fountain, camion e simili, virerà sul nero, con un logo grande, meno blu e rosso. D’altro canto, dice Porcini, “Bisogna sempre capire il timing di quello che fai, innovazione è l’idea giusta al momento giusto. E il design qui ha un grande ruolo, è il codice della comunicazione, in un mondo dove tutto è comunicazione, come ci raccontano già Eco e Jacobson”.

Il brand diventa il sender di un messaggio, che il claim riassume: “Thirsty for more”. Ma a far da ricevente ci sono persone radicalmente diverse, rispetto all’era pre-social. Il mezzo attraverso cui comunicare il messaggio oggi prende una molteplicità di forme, dalla lattina al diner temporaneo – come quello aperto a Milano a giugno. Il significato si crea a partire dall’unione dall’unione di tutto questo, si sfuma nei contesti culturali diversi, in un mondo in cui i contenuti vengono consumati alla velocità della luce, il codice è fondamentale: “Oggi devi  avere un codice forte, ed è ciò su cui tutti puntano. Non c’era la pressione competitiva di oggi, in precedenza”.

In anni di ricerca chiedevamo alla gente di disegnare il logo che avrebbero voluto oggi, con motivazioni, e la maggioranza faceva un globo con la parola Pepsi dentro, anche chi al tempo di quel logo doveva ancora nascere.

Mauro Porcini

In 20 anni c’è stato un cambio epocale nel fare branding, da una dimensione top-down, unidirezionale su ricettori passivi, principalmente attraverso la TV come primo canale di contatto col mondo delle celebrities, ad una dimensione contemporanea dove sono le celebrities ad avere i loro canali personali.
 


“Oggi devi creare un’esperienza 24 ore su 24, passi da comprarti a guadagnarti il diritto di essere argomento di conversazione per tutte le persone”, conferma Porcini, ed è lì che intervengono i touchpoint, lattine che celebrano città del mondo, musica, sport e oggi moda e design. Poi il cinema. Diventa tutto potenziale user generated content, e lo diventa oggi: il diner temporaneo in città, 30 o 20 anni fa, non avrebbe mai raggiunto tante persone quanto lo spot TV con Michael Jackson o Britney Spears. Oggi invece sono le persone a condividerlo, creando loro il contenuto, e lo stesso avviene con le partnership nella moda. Sono contenuti potentissimi, per Porcini perché autentici, veri. E la influencer culture va in crisi quando il contenuto da produrre è solo risultato di un contratto di sponsorizzazione, si nota l’artificialità del messaggio.

In poco più di un anno dal lancio, il nuovo logo Pepsi è dichiarato aver un 99% di positive sentiment su 7 miliardi di impressions, anche dall’interno, anche da quegli imbottigliatori che il marchio lo devono applicare.

Trovarsi al timone di un processo così complesso è anche un po’ un tipico case study che ci aiuta a far luce su un “sistema design” sempre più stratificato tra attori singoli e collettivi, creatori e aziende, sul quale chi si forma oggi si affaccia con sempre meno informazioni, proprio a causa della loro sovrabbondanza: “Io cresco come product designer” ci racconta Porcini “al Politecnico ho avuto la fortuna di trovare come docenti Branzi, De Lucchi, Meda; ho incontrato persone di 10-15 anni più di me, i vari Fabio Novembre, Karim Rashid, Philippe Starck e Marc Newson, che oggi sono amici, ma non ho avuto influenze specifiche né in grafica, né in altri ambiti. Direi che mi avvicino più al massimalismo che non al minimalismo” Tornano riferimenti a Novembre, Rashid, Giovannoni, al linguaggio manga. “Ad ispirarmi però è la capacità che queste persone hanno di pensare l’innovazione. Mi ispirano gli innovatori, cenare con qualcuno facendo grandi cose, pensando in grande. Potrei sedermi e godermi la mia posizione creata, una macchina già ben oliata, ho altre cose nella vita”. E invece.

Talento e fortuna sono ciò che serve, per Porcini. E timing. Un talento non solo tecnico, un talento umano che lui ha suddiviso in 24 caratteristiche dei cosiddetti “unicorni”, e che cresce mettendolo continuamente in gioco: allearsi con persone più brave, andare agli eventi non solo per sentire, ma per parlare, chiedere, creare collisioni. Aumentare la possibilità statistica che le cose succedano. “Sono partito a 23 anni, lasciando tanto della mia vita, per andare a Dublino a studiare l’inglese che non sapevo, lavando i piatti al caffè della scuola nel frattempo. Poi sono andato a incontrare Stefano Marzano di Philips: avevo una grande paura, ma l’ho fatto”. Pensare in grande e aiutare la propria fortuna. D’altro canto a Porcini piace citare i Beautiful Numbers di Stefan Sagmeister, quel progetto di data mining, visualizzazione e “propaganda for the living room” che ci racconta che no, in realtà siamo migliori rispetto a 200 anni fa: sta a noi capire che possiamo disegnare il futuro, un design thinking che può cambiare il mondo, anche se non dalla sera alla mattina. 

Immagine di apertura: Foto Alessandro Garofalo

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