Flos, una generosa Utopia

La capacità di spostare lo sguardo verso autori imprevisti e tecniche inusuali.

Dagli anni Novanta non sono poche le imprese del design italiano scivolate in una sonnolenta normalità, con management appiattiti sulla sola ricerca del successo commerciale – magari per virtù divina di brand tanto prestigiosi quanto in sé vuoti senza una vera strategia imprenditoriale – e quindi totalmente incapaci di riprodurre i grandi balzi in avanti, la genialità e anche un po' l'incoscienza dei "padri fondatori". La recessione globale, ancora in atto, ha fatto il resto, eliminando dalla scena gli equivoci più evidenti: così pare molto istruttivo in questa fase critica esaminare esempi di industrie che, con molta determinazione, sopravvivono nell'uragano dei mercati, anche grazie al notevole anticipo con cui si sono preparate per la successione generazionale.

Nel caso di Flos, Sergio Gandini già dalla fine degli anni Ottanta ha trasmesso la direzione dell'azienda al figlio Piero, come in un lungo addio, continuato negli anni Novanta fino alla certezza che l'impresa di famiglia sarebbe rimasta autentica industria leader nella cultura del design italiano. Personalmente ho avuto modo di conoscere Sergio Gandini, durante l'organizzazione della grande mostra su Achille Castiglioni, ordinata da Paolo Ferrari, allestita dallo stesso Castiglioni e da me curata per il consorzio appositamente formato per l'occasione di cui facevano parte altre aziende sponsor – un Gotha anni Ottanta che andava da Flos a Zanotta, da Danese ad Alessi, fino a Ideal Standard e Abet Laminati. Già allora Sergio Gandini mi apparve un distaccato aristo-democratico per cui era del tutto naturale sostenere (con Zanotta) il maggior peso del progetto. Forse allora la parola giusta per definire il DNA Flos è generosità: lo spirito leggero del dono – contrapposto all'avidità di chi non intende dare nulla più dello strettamente necessario – l'amore per una creazione dove progettisti, prodotti, immagine di un'azienda sono altrettante creature delicate e bisognose di attenzioni e non di sberle, di comprensione e non di ricatti. Anche i grandi amori, però, sono destinati a finire, nel caso di Flos per la scomparsa di Sergio Gandini prima, di Achille Castiglioni, poi. O meglio, quel certo DNA di generosità si è semplicemente trasmesso da una generazione all'altra, così da resistere al vento dell'eclettismo che da vent'anni soffia sulle pianure aride del design yes global.

Già nel 1988, quando Piero Gandini inizia a occuparsi di sviluppo prodotto Flos, deve prendere velocemente decisioni strategiche: alla cultura del progetto 'classico', rappresentata da Castiglioni e Afra e Tobia Scarpa, tutta fatta di sottigliezze e understatement, si oppone con forza una complessità molto più ibrida, quella che ha fatto il successo planetario di designer che al loro emergere sono stati ampiamente criticati. Anch'io l'ho fatto e per alcuni ho dovuto ricredermi: basta pensare a Philippe Starck, che in quegli anni non era ancora l'imperatore/ manager del business in cui si è ormai trasformato. Quando Starck chiede a Flos di produrre per un suo interno una specie di caricatura dell'abat-jour, che diventerà poi lo straordinario best-seller Miss Sissi, la responsabilità della decisione sta tutte nelle mani di Piero Gandini, che ostinatamente si precipita a metterlo in produzione.

"In dieci giorni abbiamo venduto ottomila Miss Sissi; siamo stati costretti a rimontare gli stampi quattro volte in due settimane e, l'anno seguente, ne abbiamo vendute oltre centomila", dichiarerà in un'intervista.

Anche per un giovane, anche per chi nasce in una famiglia di industriali, l'unica conferma delle capacità manageriali è il successo economico, e la scelta di Piero Gandini si dimostra dunque indovinata, soprattutto per l'intelligenza di gestire contemporaneamente un autore come Castiglioni (che disegnerà prodotti Flos fino alla sua scomparsa, otto anni fa) e personaggi all'epoca ancora indefinibili, come Starck o Marc Newson: altra figura che sembrava semplicemente il passaggio di una cometa – per quanto scintillante – e che invece si è trasformato in una specie di Raymond Loewy del Terzo Millennio, anche grazie al forte sostegno datogli da Flos. Ovvio, per mantenere lo status finanziario e d'immagine di un'impresa del genere non basta far disegnare prodotti 'belli' a designer giovani (relativamente) e simpatici (relativamente). Occorre anche una certa capacità trasformistica, saper assumere contemporaneamente più identità parallele: quindi, ad esempio, acquisire negli anni altre aziende straniere, incrementare sempre più il settore contract cui nel 2007 viene dedicato uno specifico showroom a Milano disegnato da Jasper Morrison (vedi Speciale domus 904, giugno 2007) accanto a quello storico di Corso Monforte, senza però dimenticare l'attività di promozione culturale: ad esempio, dando supporto organizzativo, tecnico e finanziario alle installazioni italiane dell'artista, poeta dei Truisms Jenny Holzer, con cui poi realizzare una singolare lampada/scultura, ancora disegnata da Starck in cristallo Baccarat, dove gli stessi Truisms si animano grazie al know-how di Moritz Waldemeyer... Interrogato oggi sul "Che fare?" nella crisi globale e soprattutto nella crisi di identità delle industrie italiane del design, Piero Gandini dà risposte veloci, come chi è abituato a gestire complessità vecchie e nuove nel tempo imposto dall'economia, misurabile ormai in frazioni di secondo.

Al fondo della ricerca di collaborazioni con Flos c'è un desiderio di poesia, la presa di coscienza che nelle ultime generazioni i progettisti – da Paul Cocksedge a Joris Laarman, fino all'ultimo arrivato Ron Gilad – non sono quasi più neanche designer, ma piuttosto curiose figure al confine tra ricercatori scientifici, fan della tecnologia e artisti che hanno semplicemente scelto di lavorare, ogni tanto, sulla produzione di serie. Certo, occorre anche il grande professionismo di autori come Piero Lissoni o Antonio Citterio, a cui Gandini pensa bene di rendere omaggio installando nell'appena aperto nuovo showroom di New York una gigantesca Kelvin, la lampada a Led probabilmente più indovinata mai realizzata finora dall'industria dell'illuminazione, senza rinunciare a un minimo d'ironia nell'impiegare dei monitor come grandi finti LED. Per certi aspetti, Gandini oggi ricorda altre figure di imprenditori, avventurosi esploratori che hanno fatto grande la fisionomia del design in Italia – malgrado tutto ancora resistente nella confusione dell'era digitale. La sua generosità, che sappiamo essere non solo intellettuale, offre ad altre aziende e progettisti in difficoltà esistenziali, se non un metodo (non esistono metodi per fare poesia), almeno una chiave di lettura per progettare nuove 'cose' in un mondo di manufatti che all'attuale stato delle conoscenze scientifiche potrebbe essere quasi quello ideale, ma non lo è.

C'è una buona dose di utopia in tutto questo e a noi irriducibili sognatori di mondi migliori non può che far piacere.

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