La luce come narrazione per il Sé
Paolo Inghilleri
I luoghi della città, gli edifici, gli spazi della casa e del lavoro, gli oggetti che ci circondano posseggono funzioni profonde non solo dal punto di vista dell’architettura e del design ma anche dal punto di vista della psicologia, della sociologia, dell’antropologia e della biomedicina. È da questa riflessione, che porta a considerare gli oggetti come memoria delle nostre emozioni e dei nostri valori, che prese vita una decina di anni fa il progetto Human Light di Artemide, di cui My White Light rappresenta la terza tappa. Questo progetto di ricerca, che ha coinvolto un gruppo di architetti e designer come Branzi, De Lucchi, Manzini, Nicolin e Santachiara – coordinati da Carlotta de Bevilacqua – e di psicologi, antropologi, filosofi, medici di diverse Università – coordinati da me – cominciò a pensare che al centro dell’attenzione del designer (e del produttore) dovesse esserci non tanto la lampada ma piuttosto la luce. La luce, con i suoi apparecchi e nei suoi spazi, viene così vista come mezzo essenziale della relazione tra il sé personale e il mondo esterno, privato e sociale. Dal punto di vista del progetto si superano le divisioni troppo nette tra i diversi spazi della nostra vita (la casa, il lavoro, il tempo libero) e la luce viene intesa come facilitatore di legami tra i vari aspetti dell’esistenza, tra le differenti parti del nostro mondo psichico, da quelle più razionali a quelle più emotive. La possibilità, direi quasi la necessità, di poter avere una luce personale e che si colleghi in modo profondo al Sé, stava alla base del progetto Metamorfosi, della sua tecnologia, dei suoi prodotti. Una tecnologia sofisticata si mise al servizio di un prodotto che sembrava rispondere pienamente e contemporaneamente alle funzioni dei tre tipi di design che più tardi Donald A. Norman in Emotional Design, avrebbe chiamato design viscerale (quello attento alla forma, all’aspetto fisico, ma anche quello della natura), design comportamentale (quello attento alle funzioni e all’utilizzo concreto degli oggetti e dei luoghi), design riflessivo (quello legato al messaggio, alla comunicazione, al significato, alla cultura). L’elemento unificante, per il nostro studio, era la persona con i suoi lati psicologici, il suo corpo, le appartenenze culturali, le sue narrazioni: era appunto, con un’idea e un termine proposti da Carlotta de Bevilacqua, Human Light.
Negli anni successivi la riflessione progettuale e teoretica si allargò. Nacque così il progetto A.L.S.O. L’aspetto saliente era quello di introdurre, nel quadro progettuale di Metamorfosi, l’attenzione al tema della polisensorialità: luce, aria e suono venivano studiati e integrati in funzione del benessere bio-psichico. Ed è sulla scia di queste considerazioni, e in piena sintonia con alcuni dei movimenti più importanti della nostra società, che nasce My White Light, l’ultimo attuale progetto di Artemide (sviluppato anche in collaborazione con alcuni ricercatori dell’Università degli Studi di Milano). È di fronte alla porosità, ma anche alla fragilità della contemporaneità, che si cominciano a ricercare nuovi valori, nuove certezze non stereotipate ma frutto di scelte e comportamenti attivi e sensibili anche all’Altro. E ciò comincia a valere anche per quanto riguarda l’uso degli oggetti: potremmo dire, citando un termine della sociologia più interessante, che si cercano oggetti solidi per una società liquida. Viene allora da leggere in questo modo, per quanto riguarda la luce, il ritorno dell’interesse dei designer e dei produttori a elementi basilari, primari dal punto di vista percettivo ma anche psichico, come appunto la luce bianca. Una luce che mantiene intatte tutte le possibilità di flessibilità, di intensità differenziata, di legame con le emozioni, ma che, a differenza di Metamorfosi, non enfatizza tanto il lato mimetico, di riproduzione di ambienti personali e naturali conosciuti, quanto piuttosto sottolinea la costruzione attiva del significato ambientale. Questa costruzione soggettiva dell’ambiente è sia cognitiva, razionale, sia affettiva, emozionale; è fatta di proiezioni di parti profonde del sé, anche di tipo inconscio; è caratterizzata, al contempo, da esperienze cognitive organizzate, dotate di senso rispetto alla cultura a cui apparteniamo. I nuovi oggetti devono cioè invitare ad un’appropriazione sensata dei luoghi, a nuove appartenenze, ad usi degli spazi (dalla città agli ambienti domestici o del lavoro) caratterizzati da una semplicità non ingenua che deriva da meccanismi profondi e quindi complessi.
Paolo Inghilleri Medico specializzato in psicologia, è professore ordinario di Psicologia Sociale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Le sue ricerche riguardano la relazione tra biologia, mente e cultura, l’esperienza ottimale, la creatività, la psicologia ambientale.
Trifluo: Franco Raggi
Oltre a Sarissa, disegnata da Michele De Lucchi e Philippe Nigro, e Trifluo di Franco Raggi (in queste pagine), My White Light comprende altre quattro versioni: Orgia di Ernesto Gismondi, Attalo di Wilmotte & Associés, Lara di Michele De Lucchi e Philippe Nigro, Metacolor di Ernesto Gismondi. My White Light è un sistema di illuminazione che utilizza sorgenti fluorescenti RGB (red, green, blue) che consentono di ottenere infinite declinazioni della luce bianca, nelle sue diverse intensità e varietà delle temperature colore. La miscelazione dei tre tubi fluorescenti avviene tramite il foglio in metacrilato prismato (nel dettaglio a sinistra), che viene applicato nella parte inferiore del diffusore. La regolazione delle funzioni avviene attraverso un comando remoto bifacciale di facile utilizzo: su un lato ci sono due sole leve che consentono di regolare l’intensità e il ‘calore’ del bianco; sull’altro lato compare anche una terza leva, per attivare l’opzione colore. Una scheda elettronica consente poi di programmare la tipologia di luce per l’intero arco della giornata.