Quanto può essere delicata la relazione tra l’opera d’arte e lo spazio – tanto da mobilitare un dibattito che coinvolgerà da Benedetto Croce al Franco Albini di Palazzo Rosso a Genova – o ancora quella tra contenitore e contenuto, tra museo, opere e mondo? Una domanda complessa che, sul finire degli anni ‘80, dopo la stagione di musei postmoderni molto linguisticamente ingombranti, con le loro forme cariche di estetica, riferimenti e sottotesti, quasi stancava chi si trovasse a porsela. Per questa collezione di arte moderna presso Basilea che invece cercava valorizzazione delle opere, contatto con la dimensione pubblica della città e chiarezza nelle identità degli spazi, Renzo Piano porta la sua formula di risolutore delle complessità che proprio in quel periodo ha ormai affermato il suo ruolo centrale sulla scena globale dell’architettura, traducendosi quasi in un suo “stile” fatto di processo ed estetiche della discrezione, capace di trasformare un muro in “un elemento che allo stesso tempo separa e unisce”. Domus pubblica il progetto sul numero 798, nel novembre del 1997.
La Fondation Beyeler di Renzo Piano, dall’archivio Domus
Nel 1997 Domus pubblicava il progetto con cui Piano dopo il Pompidou si confermava come garante di una relazione aperta tra arte, architettura e società urbana.
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- Markus Brüderlin
- 28 marzo 2023
Dopo che il boom degli anni Ottanta aveva prodotto una grande quantità di musei, nei quali il manierismo postmoderno si preoccupava più dell’involucro che del contenuto, negli anni Novanta si è sviluppato un maggiore interesse verso architetture espositive che corrispondessero all’arte. L’edificio di Renzo Piano per la Fondazione Beyeler al Berowerpark di Riehen, presso Basilea, potrebbe costituire una pietra miliare in questa nuova era dell’architettura museale. In oltre quarant’anni la coppia di galleristi di Basilea formata da Hildy ed Ernst Beyeler ha messo insieme una collezione importante con opere dei classici moderni, da Monet fino a Fabro passando per Picasso. In Piano essi hanno trovato l’artefice di un edificio nel quale le circa 160 opere raccolte possono venire esposte e salvaguardate in maniera ottimale. Tuttavia i committenti desideravano che questo allestimento non diventasse un museo tradizionale che si limitasse a “dare un tetto a un tesoro”, ma uno spazio pubblico destinato alla comunicazione e all’innovazione. Per questi motivi un terzo della superficie espositiva, di 2700 metri quadrati, è stato dedicato alle mostre tempora-nee, in modo che venga instaurato un dialogo vero con il presente. Per l’architetto si trattava di mettere in relazione i vincoli interni, derivanti dal carattere della raccolta e dalle finalità della fondazione, con i condizionamenti esterni prodotti dal contesto urbano. Così nello spazio di tre anni è nata un’architettura sobria e di un’eleganza senza tempo, che riunisce in scala ridotta la natura, lo spazio, la luce e l’arte in un rapporto armonioso.
L’edificio deriva così dalla combinazione di due temi fondamentali e tipologicamente opposti; i muri lunghi e massicci e il tetto vetrato sospeso nell’aria, leggero e abbagliante.
L’architetto ha inserito mimeticamente l’edificio, lungo circa 110 metri e provvisto di una copertura vetrata che si libra nell’aria, nella situazione preesistente, un parco a ridosso di un’importante arteria di traffico. Dall’esterno l’edificio sembra ancorato, come una nave, di fianco alla strada rumorosa. Tuttavia non appena si varca il muro di recinzione si viene conquistati dalla quiete e dall’armonia del giardino all’inglese piantumato con una vegetazione secolare. A destra, subito dopo l’ingresso e in posizione un po’ defilata, appare l’edificio a forma di padiglione, caratterizzato da una composizione armoniosa di pietra, acciaio e vetro. Già a un primo sguardo si percepisce la concezione fondamentale di questa architettura, sviluppata partendo dalla preoccupazione di fornire una luce naturale alle opere d’arte esposte all’interno e dalla forma del lotto, tanto stretto quanto “compresso” tra vecchi muri di recinzione. L’edificio deriva così dalla combinazione di due temi fondamentali e tipologicamente opposti; i muri lunghi e massicci e il tetto vetrato sospeso nell’aria, leggero e abbagliante.
Lo scopo della complessa struttura del tetto era di evitare di rendere uniforme la preziosa luce naturale zenitale con dei lucernari dotati di filtri in vetro, permettendole invece di penetrare all’interno in una forma il più possibile genuina. I mutamenti climatici che avvengono all’esterno, come per esempio i cambiamenti d’insolazione, devono essere percepibili all’interno senza essere visibili direttamente, in modo da presentare le opere d’arte in una luce continuamente mutevole. Questo studio così preciso degli effetti di luce trova un’adeguata corrispondenza nella visione pittorica che in questa collezione assume grande rilievo, da Monet fino agli espressionisti astratti come Rothko.
La pianta degli spazi espositivi è formata da un reticolo ben proporzionato di grandi ambienti di 7x11 metri, che vengono ampliati e ritmati con risultati differenti. Non si tratta dunque di una sequenza lineare e rigida di sale, ma di un percorso casuale al quale il visitatore è invitato ad adeguarsi, avendo ben chiaro in qualsiasi punto del museo quale sia la sua posizione e quanto manchi al termine della visita. Ne deriva un compromesso meditato tra la visione moderna di uno spazio scorrevole e le divisioni in compartimenti chiusi che ci sono note dai musei del XIX secolo. Inerente a questo concetto di spazio è la consapevolezza dell’importanza dell’alternanza armonica di quiete e movimento, di osservazione assorta e di “apprendere camminando”. Alla sensibilità per il comfort appartiene anche il giardino d’inverno che conclude la facciata ovest, con il quale Renzo Piano tiene conto della “necessità della distensione fisica e psichica” che l’incontro con una collezione di tale suggestione può richiedere. Senza sacrificare superfici verticali di grande rilievo alle finestrature, è stata creata una zona di riposo con vista su un paesaggio piacevole. L’obiettivo, perseguito con determinazione, di ospitare la fondazione Beyeler in ambienti espositivi assolutamente pacati, privi di qualsiasi dettaglio tecnico o formale che arrechi disturbo, potrebbe essere visto come un’altra caratteristica di questo museo. In effetti tutto ciò che solitamente è fonte di distrazione viene trattato qui in maniera molto sobria (luci di segnalazione delle uscite di emergenza, rivelatori antincendio ecc.): le stesse strumentazioni di rilevazione dell’impianto di climatizzazione sono completamente occultate nell’intercapedine delle murature a secco.
Non soltanto l’estetica chiara e sobria, ma complessivamente anche la pianta e le dimensioni dell’edificio corrispondono al rapporto tra il carattere privato della collezione e la necessità di metterla a disposizione del pubblico, che viene rispettata con l’apertura del museo. Questo rapporto è sviluppato nel disegno architettonico tanto dell’interno quanto dell’esterno: alle estremità dell’edificio il visitatore s’imbatte infatti in un fronte vetrato esteso da terra fino alla copertura. La vista dall’interno verso l’esterno si presenta duplice, come nelle architetture di Mies van der Rohe: da un lato il parco appare come in sezione, inquadrato entro la cornice formata dal piano aggettante del tetto e dalle pareti, e percepibile come un confine estetico. A creare questa impressione di un’immagine del tutto statica corrispondono d’altra parte le murature, che proseguono esternamente con un andamento prospettico, facendo apparire lo spazio esterno come una prosecuzione di quello interno.
Esternamente, accanto al tetto leggero e abbagliante, l’elemento dominante è costituito dalle pareti rivestite di porfido argentino: esse circondano il lotto e lo proteggono dal rumore del traffico, rendendo percepibile l’andamento ondulato del terreno. Da questa situazione, che esprime perfettamente il Genius loci, Piano ha sviluppato un’idea tanto stratificata quanto chiarificatrice. Il visitatore si confronta dapprima con un muro, composto da più tratti che si susseguono con ritmo sincopato: l’interruzione di linee che lo caratterizza stabilisce una mediazione armoniosa tra la lunga curvatura della strada e lo stretto rettilineo del lotto. Il muro nel terreno si tramuta poi lentamente in un elemento dell’edificio, assumendo gradualmente la forma di parete esterna dei vari locali funzionali (guardaroba, bookshop, servizi igienici ecc.).
Non si tratta di un monumento architettonico autoreferenziale ma di un involucro per l’arte, tanto leggero quanto funzionale. Anche questo può essere definito un capolavoro.
Parlando di questo muro Piano citava una sorta di “spina dorsale” o di “zona di formazione”, dalla quale si sviluppa poi l’intera architettura: in effetti l’analisi architettonica di questo elemento sembra offrire la chiave per comprendere l'essenza non soltanto urbanistico-funzionale, ma anche costruttiva del museo. A partire dalla “zona di formazione” quattro muri paralleli, della lunghezza di 110 metri e posti a una distanza di circa sette metri l’uno dall’altro, si protendono nel paesaggio: essi formano il nucleo a quattro navate dell’edificio, racchiudono gli ambienti della galleria e sorreggono la copertura. Verso nord e verso sud essi proseguono dapprima come pilastri e in seguito percorro-no il paesaggio sotto forma di bassi muri, che procedono lentamente nel terreno. In questo modo si ottiene una sorta di penetrazione dell’architettura nella natura: secondo il progettista, i muri dell’edificio devono trasmettere l’impressione di appartenere al paesaggio e di sorgere dal sottosuolo come un elemento statico e geologico. A essi va aggiunta solamente la copertura in vetro trasparente, simile a una farfalla che si sia posata sui setti murari dispiegando completamente le sue “ali”.
In seconda battuta è possibile valutare il rapporto tra interno ed esterno e la funzione delle murature anche come una cristallizzazione architettonica del principio museologico della fondazione. Nonostante Piano interpreti la “qualità della raccolta” come qualcosa di grande valore, come un tesoro da custodire entro un involucro in pietra coronato da un tetto in vetro splendente, egli non ostenta da subito il muro come elemento di chiusura: la funzione del museo non può essere infatti ridotta a semplice “protezione delle opere”; esso deve presentarsi come un luogo, chiaramente delimitato e tuttavia facilmente percorribile, in cui gli individui possano sviluppare un’esperienza collettiva dell’arte, cosa che non è possibile in nessun altro luogo. Per Piano il muro è – per esprimersi con le parole della filosofia contemporanea – un “meccanismo per la produzione di differenza”. Tramite la differenza quest’architettura descrive infatti il rapporto tra la collezione e il mondo esterno. Negli anni Settanta si consideravano i musei come fastosi templi della borghesia elitaria, e ne si chiedeva la distruzione: si cercava di liberare l’arte dalla protezione dei muri per calarla nella vita quotidiana. Gli anni Ottanta hanno intrapreso invece la strada opposta, cioè l’eliminazione della differenza tra museo e mondo, nel senso che il museo diventava esso stesso mondo; la quotidianità si aggirava per il museo. Il risultato comune di queste due tendenze del tutto opposte è stato l’annullamento della differenza e la museificazione del mondo stesso (Henri Pierre Jeaudy, Il mondo come museo). Non sono solo i filosofi della cultura e gli addetti ai lavori a mettere in guardia dal pericolo che il museo nell’età dei media diventi un semplice trailer nell’offerta pluralistica dell’industria del tempo libero. Anche tra il pubblico diventa sempre più evidente l’esigenza di un luogo dove recarsi consapevolmente e nel quale le voci e la qualità dell’arte possano essere ascoltate e apprezzate in tutta tranquillità. C’è dunque – per quanto espresso in modo astratto – un bisogno di differenza. Anche se non con cognizione di causa, non spiegabile in maniera così evidente, tuttavia il background culturale dei nostri giorni è presente nella struttura museale di Renzo Piano e nella sua assunzione del muro come elemento di differenziazione, che allo stesso tempo separa e unisce.
- Renzo Piano Building Workshop, Parigi
- Bernard Plattner (responsabile), Loïe Couton
- William Mathews, Ronnie Self, Pascal Hendier, William Vassal, Lukas Epprecht, Jan Berger, Eva Belik, Jean Philippe Allain (modelli), Christophe Colson (modelli)
- J. Burckhardt + Partner AG
- Ove Arup & Partners; Cyrill Burger + Partner AG; Bogenschüts AG; Jakob Forrer; Elektrizitäts AG Basel