“La longevità della reputazione di un architetto dipende dall’attitudine all’innovazione e alla continua ridefinizione, non da una ricerca – nevrotica e fine a se stessa – della novità. Renzo Piano sembra l’eccezione: entrato nel pieno dei sessant’anni, ha avuto una carriera a più fasi che non mostra alcun segno di declino, e anzi si dà da fare per continuare ad avere ancora a lungo lo stesso successo, caratterizzato da un’intelligenza architettonica che non perde colpi.”
D’altronde, “Dopo la scomparsa di Aldo Rossi, Piano è diventato il prodotto da esportazione più rilevante dell’architettura italiana”. È il 2003 quando Deyan Sudjic sintetizza in così poche righe un percorso così tanto opulento e complesso (Ripensamenti, Domus 864, novembre 2003). L’architetto ha appena completato la Città della Musica a Roma e la sua ventennale impresa torinese, la riconversione del Lingotto, e venendo momentaneamente meno alla regola di ferro del qui e ora – il luogo dove da sempre Piano opera per poter dire cose sul futuro – ci si volta a guardare il flusso della storia chiedendosi: Renzo Piano, chi è?
L’alfiere di un roccioso understatement genovese tanto frustrante per chi ne deve scrivere quanto fondamentale in un panorama dell’architettura ancora così chiassoso e protagonistico; l’inventore che segue Jean Prouvé in gioventù per scampare alla vita di impresa e avvicinare l’architettura (Renzo Piano: un ricordo di Prouvé. Domus 807, settembre 1998); il ricercatore di dettagli e materiali che definiscono progetti ed epoche; l’ascoltatore dello spirito di una società stratificata, i cui segnali differenti nel tempo vengono processati e ri-espressi in forme e pratiche. In sei decenni di storia, l’architetto del Centre Pompidou, oggi senatore a vita, ha incontrato Domus più di una volta, raccontandosi e condividendo tutte queste facce del suo percorso, abbastanza nello stesso ordine, fino a mostrare come la domanda focale non sia tanto “Renzo Piano, chi è?” quanto “Ma l’architetto, di per sé, cosa fa?”
In realtà, per quanto l’abbiamo associato ad un’immagine spesso profetica, Renzo Piano ha passato molto tempo facendo parlare le sue opere più che le sue parole.
Nel 1967 Domus pubblica i prototipi di strutture leggere che Piano sviluppa con l’impresa di famiglia (Ricerca sulle strutture in lamiera e poliestere rinforzato. Domus 448, marzo 1967): questi sistemi modulari che combinano tecnologia semplice e innovativa, sfruttando con intelligenza i pattern geometrici come dispositivo, sono il debutto di Piano nella sua veste di inventore, tanto che due anni dopo, per presentare il progetto del suo studio genovese, macchina industriale innestata nel paesaggio, che inaugura la High-tech e che sa ancora di Archigram, si enfatizza come questo progetto si riallacci “…all’antica tradizione che vuole che gli sperimentatori provino anzitutto su se stessi i risultati delle loro ricerche”. (Uno studio laboratorio. Domus 479, ottobre 1969)
Il nostro metodo di lavoro è un po’ fuori dal comune. Assomiglia al metodo che si segue nella progettazione di un bene di consumo – un telefono, normali prodotti industriali
Inizialmente Piano si racconta poco in prima persona, tanto che la sua opera italiana con Richard Rogers, la fabbrica per Piero Busnelli a Novedrate del 1971, la racconterà poi Gianni Biondillo, soltanto nel 2011 (Luoghi di produzione. Domus 950, settembre 2011).
Quando poi arriva, sempre in quel 1971, anche l’annuncio di Piano e Rogers vincitori del concorso parigino del Beaubourg, tutte quelle diverse vocazioni su cui ci interrogavamo si manifestano, inclusa ancora una volta quella del discorso indiretto: ancora una volta, infatti, a parlare sono la relazione di progetto, e quei disegni tutti gru, antenne, inserti collage di gusto televisivo, che stanno andando a segnare l’inizio di un’epoca e di una estetica. Il futuro Centre Pompidou è un oggetto, un oggetto pop, un oggetto del suo tempo, più precisamente uno strumento che comunica, fatto di comunicazione pura prima ancora che di ardimenti tecnologici, e impianti e strutture a vista, “…una ‘struttura portante informazione’ all’esterno come all’interno”. (Piano+Rogers=Beaubourg, Domus 503, ottobre 1971)
Dopo un lungo cantiere non privo di peripezie e di attacchi diretti ad un’entità che alcuni vorrebbero perfino escludere dall’appartenenza al campo dell’architettura, nel 1977 il Centre Pompidou apre alla città e al mondo, e lì finalmente Piano apre a Domus in due ricche conversazioni, con Cesare Casati e poi con Pierre Restany, dove scopriamo molto della natura del progetto, ma soprattutto dello sguardo attraverso il quale chi lo ha concepito lo racconta; lo si vede come “…un edificio che sia un utensile-container (…) non solo di oggetti ma anche di azioni, di operazioni; un utensile entro il quale, e col quale, si possa operare in modo creativo in campi diversi, dall'arte alla ricerca nel campo della costruzione, dell’ambiente, della comunicazione. Uno spazio flessibile ed evolutivo. (L’idea è molto bella: se poi la vediamo in termini fisici, ci rendiamo subito conto che fare una costruzione di questo tipo, con piani di 50 m di luce libera per 170, con 500 kg di sovraccarico per metro quadro di pavimento, per ragioni di flessibilità, non è uno scherzo)”.
(Nuovo oggetto a Parigi, Domus 566, gennaio 1977)
Per confermare gli intenti del team progettuale nell’interpretare la richiesta iniziale, Piano ripete poi dopo qualche mese di attività: “È sempre stato concepito come uno strumento attivo di cultura (…) La cultura è vita, è il modo di reagire, è il modo di prendere coscienza, da parte del pubblico, di certi fatti. No? E quindi questa presa di coscienza non m’importa niente che avvenga a livello di lettura, a livello di visione di un film”. (Parigi: l’oggetto funziona!, Domus 575, ottobre 1977)
A me interessa ‘fare architettura’. Però la maniera in cui cerco di lavorare vuole essere, e non per atteggiamento moralistico, estremamente normale
Gli anni ‘80 che si aprono poco dopo sono quindi spinti dalla grande “onda Pompidou”, ma sono anche quelli in cui Piano formalizza la sua prima risposta alla domanda di cui tanto si occuperà: cosa fa l’architetto?
Sono per lui anni di salto di scala, di pratica già globale, anche anni molto Fiat, con i concept per la Tappeto Volante (letteralmente un solaio a motore), dopo quelli che conducono alla Ritmo, e con la trasformazione dell’impianto storico del Lingotto a Torino: è peraltro in quell’occasione che si profila una figura di architetto che è risolutore di programmi complessi, portatore di una soluzione che proviene da ascolto e interpretazione.
Quando Piano incontrerà nuovamente Domus nel 1981 (Domus 617, maggio 1981), infatti, sarà proprio per definire quale sia Il mestiere dell’architetto, dove mestiere già si mostra come la parola più adatta a incarnare la sua visione della missione dell’architettura:
“Il rifiuto della parcellizzazione del processo progettuale tra persone con competenze rigidamente definite e separate, caratteristico del mio modo di lavorare, corrisponde in un certo senso ad una impostazione ‘artigianale’ del lavoro dell’architetto anche quando usa conoscenze estremamente sofisticate: è una nuova immagine professionale, una alternativa all’architetto inutile, quello cioè che, invece di dare risposte circostanziate a domande reali, reagisce soltanto a domande indotte, lasciandosi andare alle ebbrezze di un’esperienza epica, di una creatività selvaggia dove affermare il ritorno al protagonismo individuale. (…) Credo che esista nel mio lavoro una costante ricerca di ancoraggio a presupposti oggettivi, come la ricerca scientifica e la domanda sociale. In tal modo i nodi, apparentemente divergenti dell’indagine tecnologica e della partecipazione sociale, così caratterizzanti del mio lavoro di questi anni, trovano una coesistenza non arbitraria nella loro capacità di fissare i propri modi di produzione alla concretezza di una domanda socialmente e funzionalmente strutturata.”
È raro che incominci a progettare immediatamente. Una specie di disciplina impone di legarsi le mani dietro alla schiena e per un attimo, a volte abbastanza lungo, accumulare. A volte questo attimo dura anche un anno.
Il decennio potrebbe far identificare la soluzione tecnologica come momento cruciale del progetto, scrittura della sua identità, marchio di fabbrica per Renzo Piano come lo sono i grandi frangisole orientabili per la Menil Collection che apre a Houston nel 1987. Ma con la sua pratica Piano ha già segnato una differenza, dando il primato a società e spazio, istanze da cui provengono soluzioni materiali. Lo ribadisce in quell’anno, conversando con Vittorio Magnago Lampugnani: “C’è un’abbondante desiderio di sogno in me (…) di contribuire a dissolvere questo polverone e a costruire una sorta di linguaggio dell’architettura, che sia fatto anche di memoria attraverso i materiali magari, ma anche le forme, è una forma di utopia”. (Dall'archivio. Renzo Piano: sovversione, silenzio e normalità, Domus 688, novembre 1987).
La visione dell’architetto che ascolta e sintetizza diverse traiettorie, poi, si fa ancora più chiara: “Il tema dell’ascolto e del silenzio è molto importante e complesso e non è fatto di ubbidienza cieca e assoluta. Così come la partecipazione che è fatta – caso mai – di disobbedienza, nel senso che si cerca, si capisce e poi, a un certo punto, si fa il nostro diabolico mestiere di mettere insieme tutto quello che si è capito e come lo si è capito (…) L’architetto non può mai rinunciare al proprio ruolo di formalizzatore”.
Si aprono quegli anni in cui Piano occuperà proprio la posizione tracciata con tanta chiarezza, procedendo su quelli che vede come piani paralleli, “…uno che parte dal generale, e l’altro che parte dal particolare, e poi questi due campi si incrociano e restano assieme una volta per tutte”.
Immagine in apertura: Renzo Piano. Foto Giovanni Del Brenna