Sono bastati meno di tre anni, dal 1977 al 1980, per capovolgere non solo l'immaginario mondiale del clubbing ma per liberare un’intera rivoluzione, estetica e sociale. Sono i disco years, i tre anni di riferimento sono quelli dello Studio 54 di New York (ma non sarà solo, tra Paradise Garage e altri club icona). Finiti questi anni lo Studio chiude, i fondatori Steve Rubell e Ian Schrager attraversano un discreto mare di guai con la legge, e per la metà degli anni ‘80 sono pronti a scrivere un altro capitolo di storia della cultura: ma è cambiato tutto, è cambiata New York, è cambiat la società coi suoi desideri. Siamo in tempi postmoderni e consumistici, e allora ecco il Palladium. Arata Isozaki agli spazi, transavanguardia e street art alle pareti, con Basquiat, Haring e Clemente che producono veri affreschi. Durerà fino al 1998, quando sarà sostituito da una residenza universitaria della NYU. Domus però lo pubblica subito all’apertura, nel novembre del 1985, sul numero 666.
The Palladium: immaterial Building
Ciò che più mi interessava è che la discoteca, come tipologia oltrepassa l’idea convenzionale di architettura e anche la materia si perde all'interno del suo spazio. Ovviamente questo spazio è costituito da forme e dalla composizione dei loro materiali, come succede in un edificio tradizionale.
Tuttavia forme e materiali perdono importanza in una discoteca, mentre sono fondamentali le luci, i suoni e le immagini. Questi elementi sono i nuovi materiali e i nuovi mezzi di comunicazione emersi dalla tecnologia contemporanea. Se è chiaro che lo spazio può esserne trasformato, ciò avviene raramente nell’ambito dell'architettura contemporanea dove il gusto della sperimentazione è andato perduto. Prima di tutto, in una discoteca, queste tecnologie si riversano come una doccia sui corpi delle persone e ne stimolano i sensi. È un modo per evocare desideri nascosti. Forse sarebbe meglio dire che una doccia di tecnologie dà vita a desideri nuovi.
La discoteca Palladium è la ristrutturazione di un grande teatro, con 3.500 posti a sedere, costruito cinquant’anni fa. L'interno dell'enorme guscio del teatro – trenta metri di altezza – era interamente decorato. Decisi di lasciare questo guscio così come era e di inserirvi una pista da ballo, come un palcoscenico che si estende nella platea, circondato da una struttura di passaggio. Così lo spazio interno risultava doppiamente composto: le persone avrebbero potuto muoversi nella struttura interna, riempita dalle energie della luce, del suono e delle immagini, e poi rifugiarsi negli spazi intorno, tra il vecchio edificio e la nuova struttura.
Ma le dittature pensano solo alle masse, le masse convinte che ‘il più è il più’, e che merita andare solo dove c'è coda per entrare.
Questa, vista dall’esterno nel suo turbinio di luci suoni ed immagini, potrebbe forse non chiamarsi più architettura, anche se per me è architettura, senza dubbio. La strana struttura sembra agitarsi, come sotto l'influenza di una fonte di calore. La discoteca è un luogo di divertimento, come lo erano in passato il teatro o il cabaret.
Tuttavia viene solo marginalmente considerata. Generalmente in un museo o in una sala da concerto solo le arti riconosciute come istituzionali vengono esibite o rappresentate. Questo certamente non stimola l'emergere di eventi che portano messaggi nuovi o sconosciuti. Tuttavia può essere che sia proprio la discoteca, considerata marginale, il luogo generatore di qualcosa di nuovo. Il Palladium è composto da vari frammenti d’arte, come un patchwork che sono stati inseriti tra la vecchia e la nuova struttura, realizzando uno spazio intermedio, un'esperienza bellissima.
Arata Isozaki
Il divertimentificio
Progettato da un architetto, decorato da artisti, il più sofisticato club di New York doveva avere più altoparlanti, più video, più schermi, più d.j., più luci, più spazio di ogni altro club in New York. E ha più altoparlanti, più video, più schermi, più d.j., più luci, più spazio di ogni altro club in New York. Ma chi di noi ha più di due soli occhi per guardare, più di due sole orecchie per sentire, più di un solo cervello per capire? E chi può vedere la faccia dell'altro, in questa luce a mitraglia, o ascoltare la voce dell’altro, in questo frastuono da fabbrica? O trovare un amico, nel buio e nel fumo di questo “divertimentificio”? Stiamo resuscitando gli anni settanta? Chi ti ha toccato il gomito? Chi può vederti ballare? Chi può sentire la tua barzelletta? Chi è l'uomo che siede al bar? Dov’è l'uomo che un attimo fa sedeva al bar? Guarda quei capelli verdi, guarda quello scenario che si alza, quei video che si abbassano, quella folla minuscola che sciama per le scale, che fluttua sulla pista. Tu, chi sei qui? Una molecola eccitata, che cerca – dentro la dittatura disco – di acchiappare il desiderio per la coda. Ma le dittature pensano solo alle masse – le masse convinte che “il più è il più”, e che merita andare solo dove c'è coda per entrare. Come nei grandi magazzini, c’è tutto ma non quello che cerchi. Come in un aeroporto (senza aerei) o in una stazione (senza treni), lo spazio gigantesco ti fa anonimo. Divertimento da Metropolis post-orwel-liana. E corre voce, intanto, che il Grande Fratello va, di nascosto, a ballare lo swing al vecchio El Morocco.
Gini Alhadeff
Immagine di apertura: Murales di Keith Haring all'interno del Palladium, Ney York, 1985. Foto di Timothy Hursley, Garvey Simon Gallery