Vincitore nel 2019 del Pritzker Prize for Architecture, comunemente associato alla denominazione di archistar, Arata Isozaki ha attraversato negli oltre 60 anni della sua carriera le stagioni più importanti dell’architettura giapponese e di quella mondiale, da quella dei metabolisti al brutalismo, dal postmoderno all’high tech e al parametrico.
Nato a Oita, nell'isola di Kyūshū, nel 1931, dopo gli studi alla Tokyo University lavora con Kenzo Tange e con lo studio URTEC dal 1954 al 1963: partecipa in quegli anni al progetto del piano Tokyo 1960, l’iconica megastruttura da realizzare da realizzarsi sulla baia della città, divenuta simbolo della successiva stagione metabolista. Da questa onda, Isozaki si distingue abbastanza rapidamente già dall'apertura, nel 1963, del suo studio Arata Isozaki Atelier (oggi Arata Isozaki & Associates), esplorando forme differenti, quelle brutaliste come quelle delle geometrie pure, posizionandosi all'origine di quella che Kenneth Frampton definisce New Wave giapponese, espressa nella sua prima opera autonoma, la filiale di Oita della Fukuoka Mutual Bank (1966).
Dopo il disastro culturale di Japan 68 e il fallimento dell’Expo 70, mi pareva fosse giunto il momento di ricondurre alle radici ogni gesto formale.
Isozaki si posiziona come “intellettuale critico e architetto di opere pubbliche” (Frampton, 2000), ed estende presto questo posizionamento ad una scala internazionale, fin dalla sua partecipazione alla XIV Triennale di Milano (1968) con il Labirinto elettrico, installazione esperienziale dedicata alla tragedia di Hiroshima. La molteplicità di influenze legata a questa apertura internazionale si esprimerà poi in altri simili progetti, dalla natura e scala ibrida, quale il robot per la Festival Plaza dell'Expo di Osaka del 1970. Isozaki raggiunge una prima sintesi della sua traiettoria critica con il Gunma Prefectural Museum (1971-74), una struttura impostata su un modulo cubico di 12 metri di lato, in cui la mistica giapponese delle ombre viene combinata con una ricerca di forme sensibile alla contemporaneità e alle tendenze pronte ad affermarsi di lì a poco.
É praticamente impossibile ridurre l’architettura alla scultura, poiché gli edifici devono soddisfare determinati requisiti funzionali. Tuttavia, dovunque sia possibile introdurre delle qualità scultoree senza diventare formalisti, ciò costituisce un’esperienza interessante.
Le facciate est e ovest ell'edificio si specchiano su bacini artificiali, in cui il livello dell'acqua è mantenuto costant. Isozaki attribuisee la genesi di questo progetto a una prima ricognizione del sito dall'elicottero, quando il terreno sottostante ricoperto dalla vegetazione gli suggerì un oceano, ed egli concepi l'immagine di un edificio a forma di nave
Ark Nova
Arata Isozaki e Anish Kapoor (architetto/artista), Ark Nova, struttura mobile gonfiabile per spettacoli, Matsushima, Giappone, 2013
Le facciate est e ovest ell'edificio si specchiano su bacini artificiali, in cui il livello dell'acqua è mantenuto costant. Isozaki attribuisee la genesi di questo progetto a una prima ricognizione del sito dall'elicottero, quando il terreno sottostante ricoperto dalla vegetazione gli suggerì un oceano, ed egli concepi l'immagine di un edificio a forma di nave
Ark Nova
Arata Isozaki e Anish Kapoor (architetto/artista), Ark Nova, struttura mobile gonfiabile per spettacoli, Matsushima, Giappone, 2013
Un discorso che viene ampliato con la Fujimi County Clubhouse (1973-74), la biblioteca centrale di Kitakyushu (1973-74) e il Kitakyushu City Museum of Art, (1972-74), con una integrazione tanto della classicità occidentale quanto della capacità comunicativa dell'architettura quale C.N. Ledoux la intendeva nel suo concetto di architecture parlante (Framprton, 2000).
A Parigi, in una libreria di fronte all’École des Beaux-Arts, mi ero imbattuto nella raccolta completa delle opere di Ledoux. Costava quasi quanto tutto il viaggio, ma ero così entusiasta (era forse il primo libro importante per me) che la acquistai. Era un’architettura puramente europea, senza alcun riferimento all’opera di Tange, alla tradizione architettonica giapponese o a qualunque cosa fosse stata costruita o fosse stata detta nel 1964. Era una cosa completamente differente, più significativa.
Con lo Tsukuba Center Building (1979-83), Isozaki porta poi questo discorso agli estremi della citazione, assemblando allusioni a Michelangelo, Fischer von Erlach, Ledoux con le rovine esistenti: punto emergente di un processo di massima apertura a diversi linguaggi e sistemi di riferimento architettonico, sintetizzabile in un ampio eclettismo, pienamente radicato nell’onda del Postmoderno, che verrà espresso e indagato in una grande varietà di forme, destinazioni, committenze e ambiti disciplinari
Attraverso gli anni ’80, infatti, si vedrà Isozaki figurare nella Strada Novissima della Biennale di Venezia del 1980, partecipare come giurato alle commissioni del neonato Aga Khan Prize, fondare assieme ad Ettore Sottsass il leggendario marchio di arredi Memphis, progettare il club Palladium a New York (1985) — erede dello Studio 54, di cui i committenti Steve Rubell e Ian Schrager erano stati fondatori — e il MOCA Museum of Contemporary Art di Los Angeles (1981-86) dove nuovamente si articolano forme pure in coesistenza con echi tecnologici e classici allo stesso tempo. Isozaki alternerà questi diversi retaggi linguistici ancora negli edifici degli anni successivi, con più netta distinzione tra progetto e progetto — si pensi alle geometrie della Art Tower Mito (1986-90), confrontate con le forme del Nagi Museum of Contemporary Art (1994), o con il gioco cromatico e plastico pienamente “disneyano” del Team Disney Building di Orlando (Florida, 1991).
Attualmente mi interesso agli incalcolabili limiti di concetti architettonici, ai rapporti tra i miei scritti e i miei edifici. Ogni nuovo edificio dovrebbe essere fondato su un’altrettanto specifica idea o strategia, che non sia stata ancora costruita o non sia stata ancora accettata dal pubblico.
In quegli anni, prolifico pubblicista e teorico oltre che professionista, Isozaki è ormai diventato a pieno titolo un membro della galassia archistar, e riceve il Leone d'oro alla Biennale di Venezia del 1996, che va ad unirsi alla Medaglia d’Oro del RIBA del 1985, e al Pritzker Prize che successivamente coronerà la sua carriera nel 2019.
La sua attività dagli anni ‘90 si amplia di scala sia in termini di progetti (alla scala urbana, il programma Kumamoto Artpolis avviato nel 1988 e il progetto urbano Nexus World a Fukuoka, 1988-91) sia di mercati e committenze: sviluppa numerosi progetti in Cina (Shenzhen Cultural Center,1998- ; Zendai Himalayas Center, Shanghai, 2003-) e in Europa, come il Manggha Center of Japanese Art and Technology di Cracovia (1990-94), ripercorrendo un ultimo tratto della sua traiettoria di ricerca prima attraverso un ritorno alle forme geometriche pure, platoniche, per poi volgersi all'eredità della high tech e dell’architettura parametrica.
In questa fase è importante la creazione di un ramo italiano del suo studio, Arata Isozaki & Andrea Maffei Associati, aperto con Andrea Maffei nel 2005. In Italia, Isozaki ha realizzato strutture pubbliche come il Palahockey per le Olimpiadi Invernali di Torino (2003-06) e concepito progetti come la proposta per la stazione Alta Velocità di Firenze (2002) e la Stazione Centrale di Bologna (2008, vincitore di concorso, realizzato parzialmente), e la loggia per il nuovo ingresso agli Uffizi di Firenze, prossima alla realizzazione dopo un dibattito. ventennale. Tra le più recenti realizzazioni, la Torre Allianz nella area di trasformazione urbana CityLife a Milano (2004-15).