Stefano Casciani: Caro Maldonado, sono un po’ emozionato, si ricorda che le ho fatto un’altra intervista una trentina d’anni fa?
Tomás Maldonado: Vagamente...
Tomás Maldonado. L’ultimo degli utopisti
Ricordiamo il designer, pittore e filosofo argentino con l’estratto di un’intervista pubblicata su Domus 935, nell’aprile 2010, in cui ci parlava della sua storia personale e del suo amore per la pittura e l’insegnamento.
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- Stefano Casciani
- 26 novembre 2018
- Milano
Abbiamo parlato di scuole, di formazione nel design in Italia e altrove. Avevo 22 anni, non avevo ancora finito i miei studi e ho intervistato lei, Sottsass, Mari... Le interviste sono state poi pubblicate sulla rivista Modo [nel 1977, n.d.r.] che Alessandro Mendini aveva fondato e dirigeva.
Allora forse lei avrà la sensibilità di capire quel che mi interessa, fare in modo che non esca una versione troppo modificata del mio pensiero...
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Le piace ancora vivere a Milano? Ci sta poco o tanto?
Adesso sto qui, mi dedico molto alla pittura.
Quanti quadri dipinge ogni mese?
Non saprei dire, in questa nuova fase faccio quadri più piccoli di un tempo: finora ne ho dipinti 80.
Ma perché ha ripreso a dipingere dopo moltissimi anni, quasi cinquanta? I suoi primi nuovi quadri sono del 2000...
Quando sono andato in Germania, nel 1954, ho voluto interrompere la mia attività artistica per dedicarmi a un altro genere di sperimentazione: così, alla Scuola di Ulm, ho voluto in parte trasferire le mie precedenti indagini nel campo dell’arte alla didattica. Anche quando mi sono trasferito in Italia ho continuato a coltivare gli altri miei interessi per la semiotica, il linguaggio, la linguistica, la filosofia della tecnica e della scienza... sempre con l’idea di portare qualche contributo innovativo.
Allora anche gli ultimi suoi quadri non sono un semplice ritorno alla pittura, ma un nuovo strumento di indagine sulla realtà?
Credo di sì. In questo senso, in ognuno dei miei ultimi quadri c’è una componente di innovazione: ossia, ciascuno di essi rappresenta un tentativo di introdurre nuovi elementi di sperimentazione. Quello di cui sono sicuro è che faccio oggi a quasi novant’anni quello che ho fatto sempre, da quando ne avevo venti, con la stessa passione e lo stesso rigore.
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A proposito della Scuola di Ulm, com’è conosciuta in Italia, certamente non possiamo riassumere qui tutta la sua vicenda: ma rileggendo il suo libro Disegno Industriale: un riesame, ho trovato la ricostruzione delle vicende del Bauhaus, da cui emerge come estremamente impor tante nell’evoluzione della scuola la figura di Theo van Doesburg, con la sua carica polemica e ‘rivoluzionaria’. Allora, per fare un gioco, anche rispetto alla storia della Scuola di Ulm, lei si sente più Van Doesburg o più Gropius?
È una domanda molto interessante. Un anno fa ho tenuto a Weimar il discorso inaugurale per le celebrazioni del novantesimo anniversario della fondazione del Bauhaus. Sono stati gli organizzatori a chiedermi di usare, per il mio intervento, lo stesso titolo di un mio testo del 1961: “È attuale il Bauhaus?”. Allora io sostenevo che sì, il Bauhaus era “in parte” attuale.
Poi, nella conferenza, ho sostenuto il contrario e questo ha ovviamente causato un certo nervosismo, ma anche entusiasmo da parte dei giovani.
Immagino, ci sarà stata una certa animazione tra i vecchi sostenitori dell’ideologia Bauhaus...
In ogni caso, quando ho analizzato l’esperienza del Bauhaus, quello che mi ha veramente più interessato è stato il ruolo di Hannes Meyer, come lei sa l’ultimo vero direttore (tralasciando il periodo di Mies van der Rohe) con una visione molto marxista dei rapporti tra progetto e società. Così nel mio intervento difendevo la posizione di Meyer, rispetto a quella di Gropius, diventato a sua volta formalista proprio grazie agli interventi di van Doesburg.
Ma dunque per lei il Bauhaus è attuale o no?
Per un certo periodo ho pensato che mantenesse una sua attualità, ma oggi non ne sono più convinto. Conservo l’ammirazione di sempre per quell’esperienza, anche perché nata dal contributo di una generazione di giovani che avevano tutti, con poche eccezioni, tra i venticinque e i trent’anni. Ciò malgrado non possiamo pensare che i metodi del Bauhaus possano essere una soluzione ai problemi che si pongono oggi ai progettisti.
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Com’era l’Italia alla fine degli anni Quaranta, quando ci è arrivato per la prima volta?
Sicuramente molto diversa dall’attuale. Sono arrivato a Genova in nave il 25 aprile del 1948, dopo un lungo viaggio in terza classe. Era una nave passeggeri, ma anche da carico. Si fermava in molti porti del Sudamerica e dell’Europa prima di arrivare a destinazione. Lei aveva, se ho fatto bene i calcoli, ventisei anni di età: deve essere un’esperienza che non si dimentica...
Non c’è dubbio, lo è stata. Malgrado siano trascorsi più di sessant’anni, ricordo tutti (o quasi) i dettagli. I più affascinanti, ma anche i più grotteschi.
Ce n’è uno che ricorda in particolare? Me lo vuole raccontare?Lei è famoso tra i suoi amici per i lunghi racconti di vita vissuta, nella migliore tradizione della letteratura latino-americana...
Un giorno, quando stavamo ancora attraversando l’oceano, ricevo, da parte del capitano, un curioso invito a colazione in prima classe. Ancora oggi ne ignoro il motivo. Sospetto fosse perché mi si riteneva più ‘presentabile’ dei miei compagni di sventura nelle viscere della nave.
Mi decido ad accettare. Metto il mio miglior vestito e salgo in prima classe. Sul ponte intravedo un gruppo di passeggeri italiani che, ho poi saputo, erano in visita turistica al loro Paese d’origine. Ma quello che fu per me motivo d’inaudito stupore fu vedere questi distinti signori, impeccabilmente vestiti di bianco, che sparavano all’impazzata, con le armi che si erano portati dietro, ai gabbiani che, com’era loro inveterata abitudine, inseguivano la nave.
Il capitano mi spiegò poi che questi italiani, incerti sui risultati delle elezioni in corso, e di fronte all’eventualità di una vittoria comunista, si addestravano a difendere sé stessi, e le loro signore, in vista dell’arrivo a Genova. Come si sa, non fu questo il risultato di quelle elezioni e per me, lo confesso, fu una delusione, perché allora ero membro del partito comunista argentino.
Quanto è durato il suo periodo alla direzione di Casabella?
Quattro anni, dal 1977 al 1981.
Ma c’era anche una sorta di ‘collettivo’ direzionale, con Omar Calabrese, Pier Luigi Cerri...
Sì, il collettivo ha avuto un ruolo importante.
A proposito di riviste: recentemente, in un incontro pubblico in Triennale, lei ha fatto un confronto tra la Domus e la Casabella nel periodo in cui erano dirette rispettivamente da Mendini e da lei. Può riprendere l’argomento?
Domus e Casabella esprimevano in quel momento due visioni culturali diametralmente opposte, ma avevano qualcosa in comune. Entrambe, ognuna a suo modo, si rifiutavano di rendere omaggio alla ‘continuità’.
La Domus di Mendini si apriva alla vivacità tematica e grafica della cultura Pop di quegli anni, la mia Casabella, invece, voleva essere interprete della necessità di ridefinire, in un contesto molto più ampio, e tramite numeri monografici, il ruolo della progettazione in una società in profondo mutamento. Nel caso di Casabella, questo orientamento fu recepito molto positivamente da studenti e giovani architetti, ma non altrettanto da coloro che non volevano veder cambiare il suo assetto tradizionale.
Io ero ancora studente e leggevo Casabella con molta attenzione: conservo ancora alcuni numeri di allora, per esempio quello sulla Scuola di Ulm e quello sul Bauhaus. Crede che quella formula sarebbe oggi riproponibile?
Sicuramente no. Ma neppure mi sembra riproponibile oggi la formula della Domus di Mendini di quegli anni. Non credo, almeno: voi volete ripetere quell’esperienza?
No, non la ripeteremo.
Certo, i tempi sono cambiati. Oggi non c’è più spazio né per quel che faceva Mendini, né per quello che volevo fare io e neppure per quelli come Gregotti, legati ancora all’idea di continuità con il moderno. Oggi sembra esserci solo spazio per una vita interamente tecnologica, fatta di informazione velocissima: ma non so che qualità può rappresentare l’informazione sugli edifici in Dubai, o comunque edifici nuovi, solo perché nuovi.
Ecco, m’interessa sapere come vedete voi questa situazione: è interessante capire che cosa fare di una rivista d’architettura in questo momento, non crede?
Per ora posso dirle che il taglio della nostra Domus sarà più di riflessione, di calma, anche visiva. Ci prenderemo un po’ di tempo e di spazio per ragionare e analizzare. Certo, presentare sempre e solo il mainstream non è interessante, e comunque non interessa a noi... non ci interessa rincorrere la frenesia dell’informazione tipica del contagio da Internet.