Pubblicato in origine su Domus 606/maggio 1980
La prima visita al Lightning Field mi ha
preso circa dieci anni. È iniziata intorno al
1970, quando Walter De Maria mi accennò
il progetto, e si è conclusa, a febbraio, con
il sopraluogo, in New Mexico, del lavoro finito.
In quest'arco di tempo ne ho sentito
la musica, cioè le immagini che si accumulavano
nella mente, attraverso le voci e
le descrizioni del processo di realizzazione,
e formavano ai miei occhi una variante del
Bed of Spikes (1969), portata alla macroscala
del Mile Long Parallel Walls in
the Desert (1961-63). E tempo, musica e
immagini sono rimasti l'impianto specifico
della mia esperienza. La dimensione temporale
è data dalla condizione espansa della
esecuzione e dalla permanenza: per essere
eseguito il Lightning Field ha richiesto
oltre cinque anni, dal 1973 al 1979, ed è previsto
come opera permanente. Questa dilatazione,
mentre rende esplicita l'analogia,
nella land art, tra quantità di spazio e quantità
di tempo, rende possibile l'equivalenza
tra l'età del lavoro e l'età della Terra. Critica
quindi gli interventi, spettacolari ed effimeri,
sul territorio e rifiuta l'informazione
dei mass-media a favore di un'esistenza
continua e di un'esperienza diretta. Non
più attimo illuminante e pirotecnico, ma
tensione e distensione espanse, dove l'insieme
vive sulla presenza e non sul ricordo e
sull'illustrazione registrata.
The Lightning Field, Walter De Maria
Commissionata dalla Dia Art Foundation negli anni '70, quest'opera di Land Art realizzata nel deserto del New Mexico, deve essere fruita per almeno ventiquattr'ore, così da partecipare di tutti gli incidenti e le incidenze naturali.
View Article details
- Germano Celant
- 21 giugno 2011
- Western New Mexico
Il processo di recezione diventa primario, perché la richiesta di partecipazione intensa comporta il massimo grado di magicità e di isolamento: il Lightning Field è visitabile, ogni settimana, da un numero ridotto di persone, non più di sei, e ogni sopraluogo deve durare almeno 24 ore, così da partecipare, dall'alba al tramonto, di tutti gli incidenti e le incidenze naturali. L'impostazione è musicale. Si sollecita un ascolto prolungato della materia, in modo da individuarne le modulazioni e aggrapparsi sensorialmente a esse. Negli anni sessanta Walter De Maria si è trovato a decidere se essere un batterista o un artista. Dopo aver suonato, dal 1964 al 1967, con i Velvet Underground e Blondie, scelse la ricerca visuale, tuttavia il bisogno di una partecipazione costante e viva del visitatore/ spettatore gli è rimasto.
Le indicazioni per l'ascolto inducono a un'altra constatazione: il Lightning Field rovescia la logica museale, e a una quantità enorme di spazio fa corrispondere un unico lavoro d'arte e un numero ridotto di visitatori. Come l'esperienza sonora che dilaga nello spazio e isola, singolarmente, i suoi ascoltatori, esso trasferisce tale condizione all'arte e rende l'intangibile una realtà personale. La conseguenza potrebbe essere quella di disporre individualmente di un museo o di un grattacielo per un giorno intero, così da percorrerlo senza interferenze altrui. C'è da chiedersi allora se le caratteristiche, che si mostrano durante la visita, si modifichino e quanto tempo, in termini di giorni, stagioni ed anni, occorre per osservarle. La partitura è infatti la stessa, ma l'esecuzione dell'ambiente muta di continuo. Nel lavoro di Walter De Maria l'accompagnamento dei fenomeni naturali è parte del lavoro, ne è supporto costruttivo e sensoriale. Risulta quindi impossibile individuare i fattori che concorrono a formare l'opera qualsiasi descrizione, come la fotografia, è parziale, tuttavia alcuni elementi della partitura possono darsi, lasciando a ognuno l'esecuzione e l'arrangiamento immaginari.
Nel lavoro di Walter De Maria l'accompagnamento dei fenomeni naturali è parte del lavoro, ne è supporto costruttivo e sensoriale.
Innanzitutto descrivo il viaggio che, secondo
Walter De Maria, partecipa già del lavoro.
Parto da New York, dopo essermi accordato
con la Dia Foundation sul periodo
della visita, per arrivare ad Albuquerque.
Il tragitto aereo, di diverse ore, serve ad
adattarmi psicologicamente all'incontro e a
tentarne delle previsioni. Influenzato dalla
aspettativa di un enorme letto di spine di
acciaio, nello staccarmi da Manhattan, vedo
i grattacieli trasformarsi visualmente in un
campo d'erba industriale, mentre Albuquerque,
all'arrivo, mi appare quale vasta
pianura desertica, occupata da una bidonville.
Giunto in New Mexico, alla guida
di una macchina (altro filtro di deculturazione
rispetto alle variazioni del paesaggio
locale), ho percorso in quattro ore il tragitto
che divide la scena urbana dalla pianura
dove è situato il Lightning Field.
Questa è un'enorme distesa desertica, situata
a circa 2000 metri sul livello del mare,
circondata da montagne che, a vista d'occhio,
sembrano lontane decine e decine di
chilometri. Quasi al centro di questa superficie
piatta, ricoperta solo di arbusti, all'improvviso
seguendo un bagliore del sole che
si rifletteva su una superficie d'acciaio, noto
la presenza di uno stelo metallico. Aguzzando
la vista, ne scopro altri, finché il
numero diventa incontrollabile. Sono infatti
400, disposti a griglia, alla distanza di 220
piedi l'uno dall'altro, e formano un rettangolo
di un miglio per un chilometro di lato. Nell'avvicinarmi, comincio a percepirlo come
oggetto e, considerata la mia tradizione
nel vedere, mi sembra una megascultura,
la cui cornice espositiva è data dal pianoro.
Quando mi avvio a percorrerne l'intero
perimetro (i cui lati sono formati da
25/16/25/16 steli), la relazione muta. La
camminata per compiere l'intero percorso
prende dalle 2 alle 3 ore, durante le quali
il mio rapporto con il lavoro si personalizza.
L'altezza del mio corpo si fa misura
relativa all'altezza degli steli, mentre la lunghezza
dei lati diventa il metro per ipotizzare
la dimensione della pianura e la distanza
dalle montagne. Rimanendo sempre
all'esterno del campo, tento di immaginarmi
come fotografarlo. Penso a una ripresa
aerea, ma questa mi appare immediatamente
irrealizzabile, poiché qualsiasi angolazione
dall'alto, farebbe sparire otticamente la
presenza degli steli. Perseverando in questa
impostazione scultorea, mi allontano per diverse
miglia e noto altre caratteristiche. Alla
superficie colorata del terreno corrisponde
la superficie trasparente ed invisibile che
unisce tutte le punte degli steli: è un rettangolo
d'aria che trova il suo corrispettivo nella
superficie del cielo. Le interferenze tra
Lightning Field e natura si rivelano così
gradatamente e rendono impossibile la separazione
dei dati. Pieno e vuoto, tangibile
ed intangibile, superficie terrestre e celeste,
immagini verticali ed orizzontali, luce e riflesso,
pianura vuota e polarizzata, osservatore
e oggetto osservato, steli naturali ed artificiali
formano l'insieme dell'opera. Impossibilitato
quindi a restarne fuori, ritorno
al Lightning Field e mi incammino tra la
griglia di steli, così da percepirne i particolari.
E, man mano che mi inoltro, l'oggetto si trasforma in situazione.
Siccome la superficie formata dalle punte
metalliche è, rispetto alla superficie della
pianura, il punto più alto, nell'arco di decine
di miglia, e in caso di temporale gli eventuali
fulmini tendono ad indirizzarsi e a cadere
sul Lightning Field, prendo a considerare
le condizioni atmosferiche e faccio
attenzione agli accumuli nuvoliformi che, a
volte, oscurano improvvisamente il sole. Nel
giorno del mio sopraluogo, la temperatura
ha oscillato da meno 17 a più 21, con neve e
pioggia improvvise, ma niente fulmini, per
cui ho sentito il pericolo della mia situazione,
ma non l'ho percepito visualmente, come
può accadere, tra maggio e giugno, quando
i fulmini si scaricano sugli steli, sino a
renderne incandescente la punta. Notando
però i riflessi solari sulle superfici degli steli,
mi sono fatto un'idea del fulmine come
di una luce che si riflette, con maggior potenza,
sul campo. Tuttavia quest'esperienza
mi è mancata, per cui ho deciso per una seconda
visita. Germano Celant