Spesso il cambiamento di un paesaggio è determinato da un istante preciso che ne determina il prima e il dopo: l’esplosione. Le fotografie che Andrea Botto ha realizzato in quindici anni di lavoro si concentrano proprio su questa azione rapida e, per quanto controllata, imprevedibile e irripetibile.
“Sono immagini che hanno a che fare con l’uso degli esplosivi in ambito civile” spiega Andrea Botto “quindi la demolizione di edifici, il distacco artificiale di valanghe, l’escavazione, fino alla pirotecnica”.
Il suo libro KA-BOOM The Explosion of Landscape (Èditions Bessard, Parigi 2017) è diventato materia di studio per chi si occupa di riflessioni sul paesaggio non solo in ambito fotografico e, fino a gennaio 2023, una selezione di queste immagini, sarà presentata in due mostre: nella personale di Andrea Botto a Innsbruck con il titolo “Landscape as Performance”, a cura di Hans-Joachim Goegl, e nella collettiva “Paesaggio dopo paesaggio”, a cura di Matteo Balduzzi, al MuFoCo di Cinisello Balsamo.
“Il paesaggio di queste fotografie è una forma di performance perché i veri protagonisti sono la preparazione del lavoro, l’attesa con tutta la sua tensione, il momento della detonazione, fino all’effetto plastico della nuvola di polvere che si sprigiona dopo l’esplosione, con tutto il cambiamento imprevedibile a cui assistiamo. Sono tutti aspetti performativi che hanno come epicentro la detonazione, un evento molto particolare perché, una volta messo in atto, non consente di tornare indietro”.
Non il fotografo delle esplosioni, quindi, ma del prima e del dopo questo istante. “L’esplosione resta un momento invisibile, il mio lavoro è piuttosto sul tema della catastrofe come spartiacque nella nostra percezione del paesaggio”.
Una conversazione, quella con Andrea Botto, in cui ricorre spesso il termine “istante”, e quando si parla di fotografia la mente non può che andare a tutta la tradizione del reportage del ‘900, con il suo “istante decisivo” e i modi in cui la fotografia ha cercato di fermarlo. “No, siamo distanti dalla retorica dell’istante decisivo” dice Andrea Botto “apprezzo quel tipo di reportage, provengo dalla fotografia di paesaggio, ma le detonazioni mostrate nelle mie foto sono una risposta sovversiva a entrambe queste tradizioni. Mi sono detto: devo essere io a scegliere il momento”. In effetti, non sempre è chiaro che l’istante decisivo veniva spesso ritrovato a posteriori, con la selezione dell’immagine su una serie di scatti, quei contact-sheets diventati a loro volta oggetto di studio quanto lo scatto scelto.
Andrea Botto non produce sequenze anche se avrebbe tutti gli strumenti a disposizione, e in questo si è complicato la vita in una situazione già difficile: utilizza una macchina fotografica grande formato 4x5, per cui è impossibile andare per tentativi: una esplosione, una fotografia. Insomma, dal soggetto alla lastra, tutti gli elementi di queste immagini sono irripetibili.
“Per questo, una parte molto importante del lavoro è la preparazione” spiega il fotografo “è una preparazione a stretto contatto con tutti i tecnici che curano l’esplosione. Intanto bisogna sapere dove avverrà, poi occorre studiare attentamente il punto di vista, posizionare la fotocamera e infine attendere anche diverse ore prima dell’evento, imparando a gestire l’ansia dell’attesa e provando a prevedere l’esito dell’immagine che ho in mente.”
Sì, perché in questi casi è fondamentale arrivare sul posto con un’idea chiara di ciò che si vuole ottenere. Inoltre, il più delle volte si tratta di scegliere la giusta distanza di ripresa, non solo per ragioni di sicurezza, ma perché la distanza è l’elemento che determina il vero significato dell’immagine. La demolizione controllata del moncone di Ponte Morandi è un esempio chiaro di questa scelta di Andrea Botto: il ponte non è il soggetto principale, come spesso si è visto in tutte le fotografie di cronaca di quel giorno, ma si apre al paesaggio per inserire il ponte nel suo contesto, riprendendo anche il pubblico che osserva l’evento in lontananza.
“C’è una differenza tra ambiente e paesaggio” dice Andrea Botto “l’ambiente è un sistema di relazioni che esiste a prescindere da un pubblico che lo osserva, il paesaggio esiste solo se l’occhio umano lo guarda. C’è in questo un aspetto contemplativo, ma improvvisamente, può arrivare un evento che ne sconvolge l’ordine”.
La demolizione è sempre stata il tabù non solo per gli architetti contemporanei, ma anche per chi quel paesaggio modificato dall’uomo lo ha fotografato. Era l’addizione, l’inserimento di elementi nuovi in un contesto più o meno naturale (tutti i paesaggi, oggi, sono già stati modificati dall’uomo, in qualche modo), a determinare lo spettacolo da fotografare.
Per decenni il soggetto è stato il costruire, non il distruggere. “Finché non si è iniziato a capire che non puoi costruire senza prima distruggere” dice Andrea Botto “e il mio lavoro riguarda proprio questo processo di trasformazione, di distruzione creativa”.
Chi osserva queste immagini non può fare a meno di domandarsi: perché l’esplosione ha questa potenza estetica? Come fa questo evento distruttivo a diventare qualcosa di “bello”?
“È la domanda che non ha una risposta precisa” dice Botto “intanto è un evento in cui si incontrano arte e scienza. La scienza calcola e progetta ogni aspetto dell’esplosione controllata. L’arte, da parte sua, ci mette tutta l’imprevedibilità degli esiti, ma agisce anch’essa per approssimazioni successive. Entrambe nascono come processi creativi per superare dei limiti”.
Poi c’è la difficoltà tecnica. Andrea Botto, durante le fasi di costruzione della Galleria di Base del Brennero, ha realizzato la prima fotografia di una esplosione sotterranea, ovvero il luogo dove gli ostacoli tecnici sono estremi. Prima di questa immagine, esistevano solamente frame ricavati da video (ecco qui, la sequenza). “Quando fotografi nel sottosuolo, stai facendo una fotografia di un evento istantaneo al buio” spiega Botto “per questo ho dovuto elaborare un sistema che mi permettesse di risolvere diversi problemi. Così ho progettato un rifugio in cemento armato per proteggere la macchina fotografica, collegata a un sistema di flash installati sulla volta della galleria, potenzialmente sacrificabili nel momento dell’esplosione, e un dispositivo che mi permettesse di decidere il ritardo dello scatto, di mezzo decimo in mezzo decimo”.
La particolarità è che la macchina fotografica viene azionata dagli stessi detonatori, “e in questo si compie un’ulteriore azione performativa” continua Botto “in cui il fotografo si fonde con la figura del fochino, che, premendo l’esploditore come fosse un pulsante di scatto, innesca la volata e, insieme, il processo fotografico”.
Il critico Riccardo Venturi, nel testo legato alla mostra di Innsbruck, sposta l’attenzione su un dettaglio: l’esplosione fa boom, il lavoro di Andrea Botto è dare un’immagine a questo suono. “Un suono che arriva in ritardo” aggiunge il fotografo “il boom arriva dopo rispetto a ciò che vediamo, e questo non è secondario quando si tratta di prendere una fotografia. Spesso lo scatto avviene proprio in reazione a questo boom, per questo dico che si finisce sempre per fotografare l’istante successivo all’evento. Quello che vediamo in tutte queste immagini non è l’esplosione, sono i suoi effetti. Come in un esperimento scientifico, conosciamo la causa attraverso il suo effetto”.