L’artista ghanese Ibrahim Mahama è stato invitato a MIlano dalla Fondazione Nicola Trussardi per lavorare sulle architetture neoclassiche dei due caselli daziari di Porta Venezia. La sua installazione su scala urbana, realizzata utilizzando centinaia di sacchi di juta, ricopre uno dei luoghi simbolo della città, storicamente denominato la porta d’Oriente poiché in passato rappresentava il confine tra il fabbricato cittadino e la campagna. Intitolato “A FRIEND” e curato da Massimiliano Gioni, l’intervento ha l’obiettivo d’innescare una riflessione sui temi della migrazione, della globalizzazione e della circolazione di persone e merci attraverso i confini nazionali.
Ibrahim Mahama a Milano impacchetta Porta Venezia, ma non chiamatelo Christo
Ibrahim Mahama ha ricoperto i caselli daziari di Porta Venezia a Milano con centinaia di sacchi di juta. Un'opera d'arte pubblica che parla di migrazione, globalizzaione, circolazione di merci e persone attraverso i confini nazionali.
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- Angela Maderna
- 12 aprile 2019
- Porta Venezia, Milano
Iniziamo dal titolo, “A FRIEND”, perché questo titolo?
“A FRIEND” deriva da un libro che in inglese s’intitola “So Long a Letter” (“Amica mia” in italiano - n.d.r.) scritto da Mariama Bâ. La storia narra del rapporto tra una donna e il marito, un conflitto all’interno del matrimonio in relazione alla società del tempo. Negli ultimi due o tre anni ho usato spesso i titoli dei libri che, come punto di partenza, raccontano di crisi ambientate entro il tardo XX secolo. “A FRIEND” è la versione inglese della traduzione italiana di questo libro. È molto semplice e rimanda anche al tema della migrazione e allo stesso tempo della relazione tra Europa e Africa attraverso i secoli, si pensi allo sfruttamento del lavoro e all’esportazione delle materie prime.
I sacchi di juta hanno un significato preciso nella tua ricerca, ce ne puoi parlare?
In qualche modo spiegano la vita ad un livello microscopico. I sacchi di juta sono tradizionalmente utilizzati per trasportare il cacao e il Ghana è stato il maggior esportatore di cacao nel XX secolo. Dopo l’indipendenza, negli anni Cinquanta, la maggior parte dei soldi guadagnati con il cacao furono destinati alla costruzione di infrastrutture sociali, che non sono mai state davvero realizzate. C’era un potenziale e l’architettura, che fu associata ad esso, instaurò una relazione con l’est Europa, perché molti architetti provenienti da quell’area lavorarono in Ghana a questi progetti sociali, mai davvero completati. Mi sembra che questa storia sia stata in qualche modo assorbita in quella di questo materiale, che oggi viene prodotto in India e Bangladesh, portato in Ghana (e in altri paesi africani) per poi essere utilizzato per il trasporto di materie prime. Ma sono molto più interessato al paradosso messo in atto da questo materiale così semplice, la fatica contenuta nelle merci che vi vengono messe all’interno è moltissima. Queste merci vengono spedite in occidente e poi il materiale resta, assume altre forme e tutte le lavorazioni e le composizioni precedenti entrano a farne parte, ancora e ancora, fino al punto in cui sembra che stia per distruggersi. Mi interessa quel punto preciso, nel quale tutte queste storie sono entrate in quella materia organica semplice. Penso che spieghi qualcosa sull'umanità e sul modo in cui è costruito il mondo.
Lavori spesso con migranti per cucire i sacchi di juta, è successo anche in questo caso?
Questo lavoro è in produzione da molto tempo, ho iniziato questa ricerca nel 2011 e buona parte del materiale che è stato utilizzato qui proviene da altri progetti, questo materiale ha viaggiato ed è significativo. È stato a Venezia, Kassel, in Canada, in Inghilterra, in Ghana. Per cucirlo in genere lavoro con differenti comunità, questo intervento è una sorta di assemblaggio dei progetti degli ultimi cinque anni.
Qual è la tua relazione con il contesto urbano e in particolare qual è stato il tuo approccio a Milano e a questo luogo nello specifico?
In questo caso il luogo è stato una proposta del curatore (Massimiliano Gioni - n.d.r.) e della Fondazione Trussardi e ho pensato che fosse interessante. Ho prevalentemente realizzato progetti indipendenti per i quali viaggiavo in cerca di luoghi specifici in relazione all’opera, ma in questo caso mi è piaciuta la proposta.
Che aspettative hai rispetto a questo lavoro a Milano?
Probabilmente è difficile da capire in anticipo, perché quando ci si ritrova davanti a questo lavoro per la prima volta non si sa come relazionarcisi, non è neppure bello perché è fatto di materiali molto vecchi e molto usurati. Non ho aspettative precise. Penso solo che se le persone ci si confronteranno quotidianamente (anche solo passandoci in mezzo e vedendolo mentre sono al volante) lascerà in qualche modo un’impressione nella loro mente.
Hai realizzato questo tipo di intervento anche in altre città. Lavorare nello spazio urbano implica il relazionarsi a un pubblico eterogeneo: come credi che sia stato ricevuto nelle città in cui l’hai presentato?
Molte persone l’hanno apprezzato perché erano interessate alle implicazioni politiche che porta con sé, ma allo stesso tempo ci sono molte persone che l’hanno odiato totalmente proprio per quelle stesse implicazioni politiche, perché non sono conformi al loro modo di pensare il mondo. La forma è l’aspetto più importante dell’estetica del lavoro e il modo in cui questa estetica è politica, ciò che propone e come chiede alle persone di decidere come sentirsi quando si relazionano a essa.
Questo lavoro è stato comparato con gli impacchettamenti di Christo e con i sacchi di juta di Alberto Burri. Quali sono gli artisti di riferimento per la tua ricerca?
Conosco il lavoro di Christo sin dai tempi della mia formazione, mi ha molto motivato dal punto di vista del trasporto e dello spirito della produzione, ma in termini di motivazioni politiche siamo molto differenti, il nostro modo di pensare all’arte e alle implicazioni politiche del materiale è molto diverso. Credo che le persone siano abbastanza sensibili per leggerlo, perché sono abituate a comprendere il mondo in maniera visiva e non da un punto di vista filosofico, così se si guarda ai sacchi di juta e al tessuto che utilizza Christo si capisce che si tratta di due cose separate, le implicazioni, le motivazioni e il sistema che attraversa i sacchi di juta è molto differente, anche in termini di produzione. Un artista come Robert Rauschenberg è stato molto importante per me, Doris Salcedo, Theaster Gates, Santiago Sierra e anche Anselm Kiefer e il modo in cui pensa ai materiali in relazione alla storia dell’arte. L’architetto Francis Kere che ha realizzato molti progetti sociali con materiali provenienti dalla terra. Ne potrei elencare moltissimi...
Foto d'apertura: Marco De Scalzi
- "A FRIEND"
- Ibrahim Mahama
- Massimiliano Gioni
- 2 - 14 aprile 2019
- Porta Venezia
- Fondazione Nicola Trussardi