Nella performance Rest Energy del 1980, Marina Abramović e Ulay, suo storico compagno nella vita e nell’arte, si reggono in equilibrio tendendo un arco e una freccia puntata dritta al cuore di lei, rischiando, al minimo rilascio di tensione, di trafiggerla. L’opera è da una parte la rappresentazione di una fiducia assoluta nell’altro e contemporaneamente della difficoltà di comunicazione che in una coppia può arrivare a ferire e perfino a uccidere. Un’azione minimale, semplice, immediatamente leggibile, dall’impatto potentissimo. Quello che ancora oggi colpisce profondamente di questa pioniera della performance, è proprio la capacità di radicalizzare, di creare con pochi basilari elementi immagini dall’altissimo livello empatico. Parte proprio da qui The Cleaner, colei che fa pulizia, che riduce all’essenziale per tenere solo il necessario; la prima grande retrospettiva italiana di Marina Abramović raccontata in più di 100 opere.
L’arte dev’essere il più possibile disturbante. Marina Abramović in mostra a Firenze
A Palazzo Strozzi, una grande mostra ripercorre la parabola artistica della coppia di performer Abramović e Ulay che dal 1975 vive e lavora come un unico grande organismo, indissolubile e simbiotico.
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- Beatrice Zamponi
- 22 ottobre 2018
- Firenze
Foto Alessandro Moggi
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Al rapporto tra Marina e Ulay la mostra dedica ampio spazio; è infatti noto che, a partire dal 1975, la coppia vive e lavora come un unico grande organismo, indissolubile e simbiotico. In varie performance mettono in scena il complesso rapporto uomo-donna arrivando a rappresentarne anche la fine. Con The Lovers (1988) decidono di lasciarsi realmente, dandosi appuntamento al centro della Grande Muraglia cinese. Dopo aver percorso a piedi 2.500 km ciascuno, quando finalmente si scorgono, si abbracciano per poi proseguire, nutriti dalla memoria del rapporto avuto, ognuno per la sua strada. Si tratta di una delle opere più poetiche mai realizzate sulla separazione.
A Palazzo Strozzi il loro legame offre anche l’occasione di partecipare dal vivo ad azioni di re-performance. Nel 2010 Abramović ha aperto l’istituto MAI, qui attraverso il suo “metodo” si dedica all’insegnamento dell’azione performativa, alla preparazione fisica e mentale necessaria per affrontarla e al complesso tema di come conservarla e mantenerla viva nel tempo. L’ingresso al piano nobile è segnato dalla riedizione di Imponderabilia, la celebre performance del 1977 in cui Marina e Ulay si erano trasformati negli architravi del portale d’ingresso della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna. Totalmente nudi e posti l’uno di fronte all’altra a una distanza ravvicinata diventavano la sensibile e sottile membrana attraverso cui il pubblico doveva passare per entrare essendo obbligato ad avere un contatto fisico con gli artisti. Oggi sono performer scelti accuratamente da Marina a mettere in scena l’azione che come l’originale prevede immobilità e rigore totale. A 40 anni di distanza, l’impasse di scegliere se rivolgersi verso il proprio sesso o quello opposto durante l’attraversamento rimane immutata, sottolineando la profonda attualità della ricerca dell’artista.
Foto Martino Margheri
Foto Martino Margheri
Foto Martino Margheri
Foto Martino Margheri
Foto Martino Margheri
Foto Martino Margheri
Foto Martino Margheri
In mostra non mancano i lavori più estremi, molti dei quali realizzati per la prima volta in Italia, dove Marina offre il proprio corpo come materia viva di esplorazione. Sono opere in cui si relaziona con la disciplina, la sopportazione del dolore, il superamento dei propri limiti psichici e fisici, l’autolesionismo. In Rhythm 0, presentata a Napoli nel 1974, Abramović si abbandona al pubblico per sei ore in un atto di fiducia totale; chiede d’intervenire liberamente su di sé, mettendo a disposizione dei presenti vari oggetti tra cui perfino una pistola e un proiettile. Alla fine si ritrova nuda con l’arma carica puntata dalla sua stessa mano alla gola. La performance aveva generato una tale tensione che furono proprio alcuni dei presenti a proteggerla dai gesti dei più violenti. Salvata dal suo pubblico, Abramović afferma un principio fondamentale: la performance non è fatta dall’artista, ma dalla relazione con lo spettatore; a interessarla non è quindi il risultato, ma il processo, la complessa comunicazione tra le parti che di volta in volta si scaturisce.
Nell’opera Art Must Be Beautiful/Artist Must Be Beautiful (1975) una giovane Marina si pettina convulsamente fino a graffiarsi la cute ripetendo all’infinito le parole: l’arte deve essere bella, l’artista dev’essere bella. Il violento e masochistico gesto stabilisce un altro punto nodale nella sua poetica; la ribellione profonda verso un’idea estetica dell’arte: l’arte non deve essere né bella né brutta, deve avere un contenuto ed essere il più possibile disturbante per permettere al pubblico di attivare processi critici.
© Ulay/Marina Abramović. Courtesy of Marina Abramović Archives. Marina Abramović by SIAE 2018
Courtesy of Marina Abramović Archives. Marina Abramović by SIAE 2018
Courtesy of Marina Abramović Archives. Marina Abramović by SIAE 2018
Courtesy of Marina Abramović Archives. Marina Abramović by SIAE 2018
Courtesy of Marina Abramović Archives e Lisson Gallery, Londra, MAC/2017/025. Marina Abramović by SIAE 2018
Ph. Nebojsa Cankovic. Courtesy of Marina Abramović Archives. Marina Abramović by SIAE 2018
Courtesy of Marina Abramović Archives e Lisson Gallery, Londra, MAC/2017/030. Marina Abramović by SIAE 2018
Courtesy of Marina Abramović Archives. Marina Abramović by SIAE 2018
Statens Museum for Kunst, Copenhagen, MAC/2017/027. Marina Abramović by SIAE 2018
Courtesy of Marina Abramović Archives e LIMA, MAC/2017/038. Marina Abramović by SIAE 2018
© Ulay/Marina Abramović. Courtesy of Marina Abramović Archives. Marina Abramović by SIAE 2018
Courtesy of Marina Abramović Archives e LIMA © Marina Abramović. Marina Abramović by SIAE 2018
Courtesy of Marina Abramović Archives e Sean Kelly, New York, MAC/2017/072. Foto Attilio Maranzano. Courtesy of Marina Abramović Archives Marina Abramović by SIAE 2018
Courtesy of Marina Abramović Archives and LIMA, MAC/2017/073. Marina Abramović by SIAE 2018
Courtesy of Marina Abramović Archives. Marina Abramović by SIAE 2018
Courtesy of Marina Abramović Archives. Marina Abramović by SIAE 2018
Fotografia Marco Anelli. Courtesy Marina Abramović Archives Marina Abramović by SIAE 2018
Forse nessuna opera racconta meglio quest’idea di Balkan Baroque che nel 1997 le valse il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia. Nell’azione l’artista restava seduta per sei ore al giorno, in uno scantinato dell’Arsenale a scarnificare una montagna di ossa sanguinolente e putride, oppressa da un’aria nauseabonda. La performance era un commento al drammatico conflitto che sconvolgeva in quegli anni i Balcani; una metafora di come il sangue resti indelebile, non possa essere cancellato o rimosso. Ancora una volta in un gesto semplice ma potentissimo l’artista serba restituisce tutta la violenza, il dolore e il senso del male generato dalla guerra.
Alla domanda quale sia stato il lavoro più difficile nella sua carriera, Abramović risponde senza esitazione The Artist is present, la performance eseguita al MoMA di New York nel 2010. Qui sedeva immobile e in silenzio senza mai perdere il contatto visivo con ben 1.675 visitatori che singolarmente si susseguivano davanti a lei. Come un serpente uroboro, l’opera torna a esprimere un primo concetto chiave della ricerca dell’artista: la necessità della completa apertura e vulnerabilità nei confronti del pubblico. Necessità così totalizzante da espandersi negli anni anche su un piano temporale per passare da una durata limitata delle prime performance fino a tre mesi consecutivi di The Artist is present, mostrando una capacità di dedizione esponenziale dell’Abramović. La prossima performance è attesa per il 2020 alla Royal Academy di Londra, chissà quanto ancora potrà evolversi la straordinaria possibilità di dare di questa inesauribile artista.
- Marina Abramović. The Cleaner
- Arturo Galansino, Fondazione Palazzo Strozzi, Lena Essling, Moderna Museet, con Tine Colstrup, Louisiana Museum of Modern Art, e Susanne Kleine, Bundeskunsthalle Bonn
- fino al 20 gennaio 2019
- Palazzo Strozzi
- piazza degli Strozzi, Firenze