L’immagine scelta per la locandina della mostra di Franco Mazzucchelli al Museo del Novecento di Milano è una fotografia in bianco e nero di una periferia urbana: si vedono anonimi caseggiati (siamo a Torino ed è il 1971) e, al centro, un enorme galleggiante bianco. Tutt’attorno stanno alcuni bambini in età scolare, con il grembiule e il tascapane. In primo piano, lo zainetto di una piccina voltata di schiena si fa notare per due piccoli cartelli della segnaletica stradale cuciti in corrispondenza delle chiusure metalliche: il cerchietto blu con la freccia bianca (segno di obbligo) e il cerchietto rosso con la barra bianca (segno di divieto).
Franco Mazzucchelli: periferie, gonfiabili e ansia da abbandono
Il Museo del Novecento di Milano ripercorre la storia dei celebri gonfiabili che l’artista per 15 anni ha lasciato liberi nello spazio pubblico per un utilizzo imprevedibile.
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- Ilaria Bombelli
- 15 maggio 2018
Il lavoro di Mazzucchelli (qui liofilizzato in un gruppo di fotografie documentative e residui di opere messo insieme fra il 1964 e il 1979 ed esposto per la prima volta) – che consiste, semplificando molto, nel pompare aria in grossi gonfiabili in plastica, per lo più bianchi o neri, attorti a spirale, a forma di sfera o ciambella (come quelli parcheggiati sul tetto del Museo del Novecento), per poi mollarli in una piazza o in un parco (da qui il loro eloquente nome: Abbandoni), e in seguito nel farla circolare in strutture in polietilene trasparente (Sostituzionie Riappropriazioni) – comunica anzitutto, a noi che ci troviamo a vivere uno spazio pubblico sotto vetro, strizzato appunto fra obblighi e divieti, dove solo uno zaino incustodito genera allarme, l’idea di un mondo in presa diretta, accessibile e agibile.
Questa disponibilità permette a Mazzucchelli d’immaginare un paesaggio del corteggiamento, per via di un gesto che egli qualifica con il nome di “abbandono” (presto troverà per i suoi gonfiabili la formula A.TO.A., art to abandon), parola che ha in sé qualcosa di brutale nel suo recidere, stando al vocabolario, ogni rapporto di convivenza e responsabilità. E pure di negoziabilità, come tengono a dire i curatori della mostra, Iolanda Ratti e Sabino Maria Frassà, che ribadiscono il ruolo sociale e anti-mercato di quest’arte “incustodita”– va detto, senza appetiti polemici (tant’è vero che il lavoro dell’artista è di recente stato oggetto di una personale alla galleria ChertLüdde di Berlino e a giugno verrà presentato alla fiera Art Basel Future).
Tutta la portata del gesto di Mazzucchelli è già e soprattutto nel suo primo abbandono (avvenuto, significativamente, al buio). È il 26 maggio 1964, l’artista ha 25 anni e si trova a Saintes-Maries-de-la-Mer con lo zio che stava girando un film. Quando scende l’oscurità, gonfia una specie di elica di plastica bianca e la abbandona nella piazza. Sono proprio le foto di questa azione ad aprire la mostra: è notte fonda, la piazza è vuota. Nella sua solitudine crepuscolare, questo gonfiabile ha un che di alieno. Qualche mese più tardi, Mazzucchelli torna nel piccolo centro della Camargue, questa volta con la moglie Giovanna, e abbandona, sulla spiaggia deserta (è pieno inverno), un altro gonfiabile a spira. Giovanna entra in una foto, in un’altra si vede un cavallo, ma si capisce come l’opera non sia ancora quello strumento catalizzatore di presenza all’interno di un regime di attendibilità che ne definirà il carattere.
Perché questa fisionomia si delinei bisogna attendere il 1970 e l’azione in piazza San Fedele a Milano, e quella, del febbraio successivo, in via Traiano, sempre a Milano (città natale dell’artista), davanti alla fabbrica dell’Alfa Romeo: qui diverse decine di gonfiabili, inizialmente abbandonati in un parco giochi, vengono corteggiati e presi in ostaggio da alcuni operai in pausa pranzo, che li buttano di qua e di là, ridendo. L’adulto prende il posto del bambino: gioca. E il gonfiabile è il pallone che rende possibile questo gioco. Un elemento di mediazione e di credulità (ci illude), di circuitazione del desiderio. È grande per farci tornare piccoli.
La funzione dell’opera pare ora essere quella di verificare l’esistenza di una rete di relazioni, appunto per curare l’ansia da abbandono. La situazione che viene a crearsi (e questa mostra è tutta costruita attorno a questo sguardo monitorante) somiglia un po’ a quegli esperimenti con cui la teoria dell’attaccamento osservava i rapporti fra madre e figlio dopo a una separazione (un tipico caso studiato è proprio “il primo giorno di scuola”, perciò l’immagine della locandina è così indovinata). L’artista dice di abbandonare la sua opera, eppure non se ne va (difatti la mostra titola “Non ti abbonderò mai”e apre nientemeno che con un gonfiabile a forma di catena). Se ne sta invece a osservarla, la fotografa, la filma; registra le voci che le si fanno vive attorno, le trascrive. Torna a riprendersela: in mostra vediamo esposti parecchi gonfiabili cosiddetti “superstiti”, o ciò che resta della loro vecchia cotenna.
La parola “superstite”, così come la parola “prigioniero” (Mazzucchelli parla dell’aria nei gonfiabili come di “aria prigioniera”), introducono, nel loro forzare un comportamento organico in una matrice inerte, la mostra che l’artista allestì nel 1972 alla Galleria Diagramma, intitolata Caduta di pressione,e composta da diverse opere, tutte qui esposte: il barometro che misurava l’aria sottratta alla stanza da ogni visitatore che entrava; la tabella dov’era riportato il calcolo dell’ossigeno consumato; le testimonianze scritte di esperimenti condotti su prigionieri ebrei durante la guerra in camere di decompressione (“finché i loro polmoni scoppiavano”). Colpisce una serie di autoritratti in cui si vede Mazzucchelli occludersi bocca e narici con tubi e oggetti di plastica e venire così meno alla propria respirazione. Al posto del gonfiabile, si fa qui posto all’uomo, e a una riflessione sull’arco di vita tragicamente breve, di entrambi.
- Non ti abbandonerò mai. Franco Mazzucchelli, azioni 1964-1979
- 4 marzo – 10 giugno 2018
- Museo del Novecento
- piazza Duomo, Milano
- Iolanda Ratti, Sabino Maria Frassà