Grace Jones, splendida settantenne, è la protagonista del film Bloodlight and Bami

Attraverso l’aleatorietà di luoghi e non luoghi, come aeroporti, hotel di lusso e nightclub, nel suo ultimo film Bloodlight and Bami, Sophie Fiennes ci parla anche della velocità dei cicli culturali.

C’è un’immagine quasi subliminale nei primissimi minuti di Grace Jones: Bloodlight and Bami: nel bagaglio a mano di Grace Jones, in volo verso la famiglia d’origine in Giamaica, balena un cappello di plastica stampato a Marilyn warholiane. Quel cappello riapparirà verso la fine, in testa alla cantante, preceduto da una trousse sulla quale è stampata una sua foto in compagnia del re della pop art, scattata sicuramente negli anni Ottanta, probabilmente allo Studio 54. Sorprendentemente è l’unica immagine d’epoca di tutto il documentario, interamente dedicato al presente dell’ex “queen of disco”.

Grace Jones. Photo Andrea Klarin
Grace Jones fotografata da Jean-Paul Goude
Grace Jones. Photo Andrea Klarin
Grace Jones. Photo Andrea Klarin
Grace Jones, Bloodlight and Bami
Grace Jones, Bloodlight and Bami
Grace Jones, Bloodlight and Bami

I due oggetti sono oggetti transizionali ma sono anche feticci. Warhol è un’antonomasia degli anni in cui, mescolando arte alta, pop culture e gender bending, Grace Jones si impose – tanto grazie alla musica quanto alle rivoluzionarie fotografie firmate dal marito Jean-Paul Goude – come una figura culturale centrale, in un connubio di glamour e radicalismo. Del resto, erano anni in cui si poteva mescolare efficacemente un edonismo sul crinale dello spirito del tempo reaganiano con gli statement più estremi in fatto di costume, per esempio su artificialità e body modification (i fotomontaggi destrutturati per dare al corpo della Jones posizioni letteralmente contronatura). Quei tempi sono finiti per sempre, infatti vediamo un roadie inquadrato mentre legge un saggio di Chomsky in una suite parigina.


Sophie Fiennes, la regista già autrice delle due bellissime guide perverse all’ideologia e al cinema di Slavoj Žižek, non è sicuramente digiuna di psicanalisi e marxismo se costruisce un documentario nel quale Grace Jones si muove come un fantasma in una haunted house in rovina, costretta a replicare in eterno un rituale compulsivo fatto di ostriche e champagne come simulacri, performance de La vie en rose circondata da ballerine ammiccanti in uno studio tv francese più squallido del peggiore studio Mediaset. Lei si ribella, protesta di non voler sembrare la tenutaria di un bordello, ma si sa che i fantasmi sono inchiodati alla ripetizione. Qui infatti il tema non è tanto quello del viale del tramonto, della celebrità che sceglie di ritirarsi tra i suoi fantasmi, tanto più che Grace Jones appare, specialmente nelle sequenze familiari, quanto mai felice e vitale. Piuttosto è lei a essere un fantasma in visita mentre attraversa in taxi gli Champs-Élysées e considera che “there was more partying in Paris in the old days”.

Fig.1 Grace Jones, Bloodlight and Bami
Fig.2 Grace Jones, Bloodlight and Bami
Fig.3 Grace Jones, Bloodlight and Bami
Fig.4 Grace Jones, Bloodlight and Bami
Fig.5 Grace Jones, Bloodlight and Bami
Fig.6 Grace Jones, Bloodlight and Bami
Fig.7 Grace Jones, Bloodlight and Bami

L’alleanza tra il glamour e i processi di liberazione ed emancipazione è stata definitivamente sepolta dalla crisi economica e le performance della cantante (ripreso da un concerto dublinese appositamente allestito per il film) vestita con un body nero attillato e un copricapo che richiama le velette delle suore possono sembrare un tentativo di tenere il passo con le “provocazioni” di Lady Gaga e delle ultime generazioni di pop star – ovviamente soltanto se non si considera che è stata Grace Jones a inventare praticamente Lady Gaga e tutte le altre. Curiosamente (o forse intenzionalmente?) le scene girate a Tokyo richiamano alla lettera Lost in translation di Sofia Coppola e in realtà uguale è il senso di straniamento mentre ci si aggira in un Paese radicalmente straniero con il quale non si può comunicare. Per altro, con grande efficacia, lo spaesamento viene comunicato anche dall’aleatorietà di luoghi e non luoghi come aeroporti, hotel di lusso e nightclub tra i quali si muove il documentario, giustapposti senza soluzione di continuità, indicazioni inequivocabili o gerarchie temporali, disconessi. Ora siamo a Barcellona o New York? Si tratta di un unico viaggio alla ricerca del “bami” (il pane nel dialetto locale giamaicano ovvero la sostanza, le radici) in montaggio alternato con il tour delle “bloodlight”, delle luci da riflettore delle capitali mondiali, oppure di varie differenti visite?

Manifesto del film Bloodlight and Bami di Sophie Fiennes con Grace Jones

In un periodo nel quale prolifera con alterni risultati (tra i più densi e intensi ricordiamo il dittico 20.000 Days on Earth e One more time with feeling dedicato a Nick Cave) il genere del documentario biografico sulle rockstar in forma di pedinamento, Sophie Fiennes raggiunge l’obiettivo di parlare di Grace Jones per parlare obliquamente della velocità dei cicli culturali. Potrebbe essere un’operazione non particolarmente originale se non fosse che lei, il centro dell’attenzione, non scompare, ma si sposta. Ci si avvicina a Bloodlight and Bami cercando l’icona e se ne trovano alcune proiezioni più o meno mercificate, più o meno seriali. Nel frattempo, nel corso del film, ci si affeziona alla reduce.

Fig.10 Grace Jones, Bloodlight and Bami
Fig.11 Grace Jones, Bloodlight and Bami
Fig.12 Grace Jones, Bloodlight and Bami
Fig.13 Grace Jones, Bloodlight and Bami
Fig.14 Grace Jones, Bloodlight and Bami

In questo senso, un riferimento è il capolavoro Grey Gardens girato nel 1975 dai fratelli Maysles, che rivoluzionò il medium documentaristico. Quando Grace Jones, nuda e coperta solo da una pelliccia, pasteggia a ostriche e champagne nella suite imperiale con vista sulle Tuileries e ripete a se stessa di essere ancora in grado di magnetizzare un pubblico con la sola presenza scenica può ricordare i soliloqui di Little Edie murata nella villa cadente degli East Hampton a rimuginare su una gioventù mitizzata. E ugualmente il livello di empatia e vicinanza al soggetto è tale che riderne sarebbe imperdonabilmente cinico. La differenza è che Grace Jones esce dalla casa infestata, va in Giamaica, ricostruisce la propria infanzia e tra l’altro rintraccia il motivo della propria immagine mascolina e aggressiva (“scary, dominant, male”) nella necessità di esorcizzare il comportamento abusivo, militare e iperreligioso del nonno adottivo, non si limita a guardare indietro con nostalgia, ma pone una distanza critica e ironica nei confronti del passato. In questo documentario, Grace Jones si sdoppia: come funzione della dialettica culturale rappresenta forse qualcosa di sconfitto e confinato nelle riserve, come le Bouvier di Grey Gardens, la reduce di uno dei tanti passati finiti al macero. Al contempo come donna non può che apparire come una splendida settantenne alla quale non si può non volere bene.

  • Grace Jones: Bloodlight and Bami
  • Sophie Fiennes
  • 2017