Per quanto possiamo essere consapevoli del fatto che l’arte in realtà (come forse ogni cosa) è tutta politica, ci sono mostre, come quelle di Carlos Garaicoa, per cui ancor prima di entrare si è predisposti ad affrontare un denso magma di significati da sciogliere, spesso indigesti o quantomeno faticosi da mandare giù.
Carlos Garaicoa: arte, architettura e politica
Alla Fondazione Merz di Torino, l’artista cubano Carlos Garaicoa ci mette di fronte a una serie di riflessioni politico-sociali: un’antologia di simboli, strumenti e rappresentazioni del potere parte integrante del suo modo di raccontare il mondo.
View Article details
- Angela Maderna
- 13 novembre 2017
- Torino
Invitato a esporre le proprie opere alla Fondazione Merz di Torino, l’artista cubano non ha disatteso le aspettative, mettendoci davanti a una serie di riflessioni politico-sociali che sono ormai parte integrante del suo modo di guardare e raccontare il mondo attraverso la lente dell’arte. Ci ritroviamo, dispiegata davanti agli occhi, un’antologia di simboli, strumenti e rappresentazioni del potere, che diventano narrazioni polifoniche dentro alle quali la Storia non è mai una sola, diversamente dalle logiche binarie che fanno capo ai vinti e ai vincitori con cui siamo abituati a interpretarla. Tra il bianco e il nero, c’è una lunga scala di grigi (non a caso concretizzata nell’opera Sobre el bien y el mal se han escrito miles de páginas, nell’ultima sala al piano terra): il che significa che il sistema dovrebbe diventare quantomeno ternario, come suggerisce il titolo stesso della mostra.
Il campionario degli strumenti della propaganda non poteva che aprirsi con i tanto cari billboard, che l’artista da tempo inserisce sui disegni di architetture trasformandoli appunto in Edificios parlantes. A fare loro da cassa di risonanza ci sono anche due enormi cartelloni pubblicitari metropolitani, sui quali scorrono messaggi e immagini che impiegano un’estetica d’inizio Novecento. Evidente, e ancora una volta preponderante, è il ruolo che Carlos Garaicoa riserva all’architettura, sia come elemento pubblico che dà forma al mondo antropizzato e metropolitano in cui viviamo, sia come espressione dei poteri politico (non solo totalitario, ma anche democratico) ed economico.
Per molti dei suoi lavori l’artista si avvale dell’aiuto di architetti professionisti, portando le sue idee a un livello di definizione altissimo, come accade in Campus or the Babel of Knowledge (già esposto a Documenta 11 e tra i suoi lavori più celebri) dove in un preciso sistema di prescrizioni e dentro a una struttura architettonica definita si tenta di regolamentare l’acquisizione del sapere.
Come si diceva, tra il bianco della colomba della pace e il nero dell’aquila c’è una lunga zona grigia, un non-colore apparentemente neutro come quello che l’artista utilizza per la ricostruzione in scala degli edifici che troviamo nella seconda teca centrale, parte dell’opera che dà il titolo alla mostra: El Palacio de las Tres Historias. Racchiusi dentro un elegante volume che richiama le forme dello spazio che lo ospita, ci sono le ricostruzioni di architetture che hanno un legame con la storia politica del nostro Paese, in particolare con quello fascista. A inizio ottobre il New Yorker ha pubblicato un dibattuto articolo di Ruth Ben Ghiat a proposito dei simboli fascisti tutt’ora conservati in Italia e come è riemerso in questa occasione, la riflessione in proposito è molto complessa e non può risolversi all’interno della logica buoni-cattivi. Lo dimostrano bene gli edifici che Garaicoa mette in bacheca: il Sacrario militare di Oslavia, la Torre di Maratona dello stadio di Torino, il palazzo della Civiltà Italiana di Roma, la Casa del Fascio di Como, la panoptica urbana del Villaggio operaio SNAI di Torino, un progetto (non realizzato) per i caduti sul Monte Grappa e la Torre Littoria torinese. Allineati all’interno di un unico grande plastico, uniformati attraverso la privazione di colori e materiali caratteristici e riambientati in una sorta di raffinatissimo acquario surreale, questi edifici da cui fuoriescono molli bolle di vetro alla Dalì, si prestano così a raccontare un’altra storia, forse ancora da scrivere.
Un po’ come è accaduto alla Cavallerizza Reale di Torino, luogo storico che in anni recenti un gruppo di cittadini ha restituito alla città riaprendolo con una vocazione socio-culturale e che l’artista qui ci permette di esplorare attraverso le immagini fotografiche degli spazi interni, corredate dal racconto audio di alcuni di quelli che hanno ridato vita a questo posto. Per ascoltarlo si è costretti a infilarsi le cuffie avvicinandosi alle vetrate della Fondazione Merz (dove ci attendono altre registrazioni), portandosi dietro la sensazione di far parte di una delle tante storie che un edificio può raccontare.
L’ultimo tassello di questa magnifica mostra, equilibratissima anche nell’allestimento, da cui traspare uno studio sugli spazi, sulle forme e sui volumi, si trova nel piano interrato ed è un ipnotico video – nato dalla rappresentazione teatrale dei discorsi di Hitler – in cui su un fondo bianco e sulle note di Pour la Fin Du Temps di Olivier Messiaen, gesticolano due mani, disegnate quasi come fossero studi rinascimentali a sanguigna, in bilico tra la direzione d’orchestra e l’enfasi di un inudibile comizio pubblico.
- Carlos Garaicoa. El Palacio de las Tres Historias
- 30 ottobre 2017 – 4 febbraio 2018
- Fondazione Merz
- via Limone 24. Torino