Nell’arco di tutto il suo percorso, fino al 2009, anno della sua scomparsa, Fabio Mauri ha inteso l’arte come vigilanza critica e come testimonianza di un agire responsabile, che nasce dalla volontà di essere parte di un’epoca e dallo sforzo di vivere la realtà in piena coscienza. Questo l’ha portato a concepire un lavoro totalmente autonomo, consapevolmente distante dai movimenti più appariscenti del tempo, compresa la pop art.
Fabio Mauri
Le due retrospettive al Museo Madre di Napoli e alla GAMeC di Bergamo dedicate alla ricerca di Fabio Mauri contribuiscono, insieme, a restituire un profilo esaustivo di questo grande artista e intellettuale.
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- Gabi Scardi
- 16 gennaio 2017
- Napoli
Il lavoro di Fabio Mauri, variegato nella forma, s’incentrerà invece sull’analisi del rapporto tra realtà e rappresentazione, tra memoria collettiva e individuale, e sul tema della manipolazione del pensiero; sul concetto di ideologia, che ha forgiato la storia del Novecento fino all’apice rappresentato dal fascismo e dal nazismo; fascismo e nazismo sentiti non solo come specifici momenti storici o come fantasmi del passato, ma come fenomeni originati da attitudini tuttora presenti e pervasive nella società, e attive in forma diversa, sin nella nostra ordinaria quotidianità.
La sua prima mostra personale, nel 1955 a Roma, è presentata da Pier Paolo Pasolini, con cui l’artista aveva fondato nel 1942 la rivista Il Setaccio e con cui tornerà a collaborare nel 1975: caso unico di cooperazione di Pasolini con un artista visivo d’avanguardia. Poco tempo dopo, nel 1957, dopo aver realizzato alcuni disegni e collage di carattere informale, ma evidentemente consapevoli degli sviluppi coevi della pop art, Mauri presenta i primi Schermi: monocromi intelaiati che accennano alla tridimensionalità in modo da evocare televisori, totalmente bianchi o riportanti l’enigmatica scritta “the end”; in entrambi i casi, dunque, aperti all’interpretazione dell’osservatore. Lo schermo gli interessa in quanto tramite di quella finzione cinematografica attraverso la quale è possibile agire sull’immaginario collettivo, e manipolarlo.
A partire dagli anni Sessanta, questo interesse per le dinamiche mediatiche si andrà espandendo e coniugando con il tema della guerra, da allora in poi dominante in tutto il lavoro dell’artista. L’arte insomma, per Mauri, ha significato ben oltre l’aspetto linguistico. È un modo per porre domande e per cercare risposte su tematiche rilevanti in relazione al passato e al futuro. Per questo, pur senza mai cedere alla spettacolarità, deve saper colpire. Basti pensare alle prime opere che troviamo al Madre: varcando il portone vediamo, nell’androne d’ingresso, un cavallo di dimensioni reali con paraginocchia in pelle su cui è incisa una stella di Davide; il titolo di quest’opera, come di altre riferite al medesimo pensiero, è semplice e radicale: Ebrea. Tutte le opere di questa serie fanno riferimento ai temi della discriminazione razziale e dei campi di concentramento, che ne rappresentano l’apice; in molti casi si tratta di oggetti che evocano l’uso di realizzare oggetti comuni di vario genere, quali appunto le finiture per cavalli, utilizzando parti del corpo delle vittime. È quella che Mauri definirà “l’esperienza del turpe”. Proseguendo nella visita, subito dopo Ebrea ci si para davanti un muro di valigie, intorno al quale dobbiamo girare: valigie vecchie, di cuoio, di legno, di dimensioni diverse; una metafora di tutti gli esuli e i fuggiaschi del mondo. Si tratta del Muro Occidentale o del Pianto (1993).
Andando oltre, ci troviamo coinvolti in una grandiosa messa in scena: la riunione è in corso; Mussolini e ventotto dei suoi gerarchi, seduti intorno a un grande tavolo a ferro di cavallo, stanno dibattendo su come reagire allo Sbarco in Sicilia e sulla posizione da prendere nei confronti degli alleati tedeschi. Le figure hanno dimensione naturale, indossano abiti militari, le loro posizioni sono verosimili, le braccia appoggiate o alzate, le mani strette per la tensione o allungate verso il bicchiere d’acqua. Le voci risuonano alte e forti. Le decisioni da prendere sono cruciali, le idee sui possibili sviluppi della situazione sono diverse. Quella a cui stiamo assistendo è l'ultima sessione del “Gran Consiglio del Fascismo”. Vi possiamo prendere parte, inoltrandoci tra le due ali del tavolo, osservando da vicino le figure sedute, ascoltando quello scambio di opinioni da cui dipenderanno le sorti del paese e dell’Europa. L’opera, del 1975, s’intitola Sala del Gran Consiglio (Oscuramento), e ci pone faccia a faccia con la storia nel suo farsi; di questa posizione avvertiamo tutto il peso.
La mostra del Madre comprende un grande numero di opere dislocate su diversi livelli: dal piano terra con la sala Re_PUBBLICA MADRE in cui si trovano le installazioni descritte sopra, al mezzanino con film e materiali documentari, al terzo piano, con l’intera infilata di sale dedicate all’interesse di Mauri per l’immagine in movimento. Qui il percorso, articolato per nuclei cronologici e tematici, procede senza soluzione di continuità, in un loop circolare che evidenzia la presenza di elementi ricorrenti in tutto il lavoro dell’artista; il televisore, il proiettore, lo schermo, le immagini cinematografiche, di cui Mauri si appropria per destrutturarle e reinterpretarle in modo da evidenziare i meccanismi linguistici attraverso i quali le coscienze possono essere manipolate; e la parola “FINE”, che compare già nella prima opera, del 1957-1958, intitolata appunto The End, e torna sempre, sino all’ultima opera, in cui sarà tracciata direttamente sul muro: una fine intesa come prospettiva paradossalmente sempre presente e sempre procrastinata.
Si parte con le prime pitture per passare agli anni Sessanta con opere come Braccio di Ferro, del 1960, Cassetto, del 1960, afferente al breve periodo in cui Mauri guarda con interesse all’ambito della Pop Art, mentre già emergono i primi Schermi che da subito spostano l’analisi dall’immaginario collettivo legato alle merci e alle icone di massa a quello legato alla finzione televisiva e cinematografica. La mostra procede con l’opera a 36 schermi Warum ein Gedanke einen Raum verpestet? / Perché un pensiero intossica una stanza? (1972), in cui gli schermi sono un’estensione dell’architettura che li ospita, con l’installazione Luna (1968) che ci porta letteralmente “dentro” lo schermo e dentro le immagini che esso trasmette; nella fattispecie quelle dell’allunaggio. Prosegue con opere come Ricostruzione della memoria a percezione spenta, del 1988, un esperimento teso a dare forma visibile ai pensieri non programmati. Si arriva infine ai primi “zerbini”, fra le ultime serie realizzate dall’artista; come L’ospite armeno (2001), vero e proprio schermo-soglia calpestabile e percorribile dallo spettatore. In una sala centrale è esposta Intellettuale, tratta dalla performance realizzata con Pier Paolo Pasolini nel 1975, in cui il regista divenne “schermo” del suo stesso film, Il Vangelo secondo Matteo.
Una preziosità di questa rassegna è la sezione ospitata nella Sala delle Colonne del Madre e dedicata alle maquette architettoniche che Mauri costruiva – inizialmente da sé, poi, per decenni, grazie al suo stretto collaboratore Claudio Cantelmi. Le maquette, visibili per la prima volta dopo la mostra Modelli da Opere e Azioni (1954-1994) nella Chiesa di Santa Caterina a L’Aquila nel 1994, venivano realizzate in preparazione delle mostre. Come evidenzia Cantelmi stesso, Mauri teneva ad avere una chiara visione della mostra nel suo insieme, e non affrontava un appuntamento espositivo di rilievo senza aver prima predisposto un modellino dello spazio, con copie delle opere in scala. Molti modelli erano “da viaggio”, ossia smontabili, in modo da poter essere portati come bagaglio a mano in occasione delle riunioni; è il caso dei due modelli realizzati per le mostre della Kunsthalle di Klagenfurt (1997) e dello Studio National des Arts Contemporains di Le Fresnoy-Lille (2003). Alle maquette architettoniche se ne aggiungevano alcune nate per visualizzare soluzioni per singole opere; è il caso della Macchina per forare acquerelli, del 1990: un grande pantografo da scultura le cui punte trapassano al centro due acquerelli dell’artista.
Osservando i modelli si constata come nella visione di Mauri gli spazi del “cubo bianco” museale intersechino quelli della “scatola nera” cinematografica e del “palcoscenico” teatrale. Il perfezionismo dell’artista nel determinare le modalità di fruizione di ogni singola opera all’interno del percorso nasce dalla profonda correlazione che egli istituisce tra modalità espositive, modalità espressive e contenuto. Se la ricerca artistica è interpretata come ambito di riflessione in cui affrontare realmente le sfide etiche del presente, gli elementi compositivi del lavoro non si limitano mai a una finalità esteriore, ma rispondono a criteri di necessità. Ognuno di essi deve quindi essere ponderato. Perciò non solo le opere di Mauri sono caratterizzate da una grande tenuta formale, ma le sue stesse mostre, nel loro insieme, erano sempre accuratamente preparate.
Se la mostra del Madre rappresenta una vera e propria retrospettiva e manifesta un carattere filologico, la mostra della GAMeC di Bergamo (“Fabio Mauri. Arte per legittima difesa”, 7.10.2016–15.1.2017) si presentava sin dal titolo Arte per legittima difesa, con l’intento di evidenziare il tema ricorrente dell’ideologia e il costante richiamo di Fabio Mauri a un necessario atteggiamento critico e consapevole. Perché l’esperienza del razzismo mai sopita, continua a riguardarci, così come la violenza viscerale e la terribile attrazione per la guerra i cui frutti vediamo tuttora intorno a noi.
Tra i nuclei forti della mostra c’era una serie di Oggetti Ariani; e ci sono Le Grandi Carte, del 1994: immagini fotografiche selezionate da Mauri, che nella sequenza costituiscono una narrazione del percorso artistico e intellettuale dell’artista. E non è un caso che in questa mostra fossero comprese anche due opere dedicate agli episodi del 3 e 4 giugno 1989 in Piazza Tienanmen. Le opere sono Studenti e Cina ASIA Nuova; in quest’ultima l’artista realizza un nuovo muro di valigie. Si tratta, questa volta, di un’elaborazione della Muraglia Cinese, e le valigie sono di metallo: rigide, moderne, inossidabili. Al centro l’immagine di un’esecuzione in cui soldati e studenti sono entrambi giovani e smarriti: la guerra si nutre sempre dei giovani, facilmente manipolabili, facendone di volta in volta vittime e carnefici. Ancora una volta l’interesse per il racconto mediatico si coniuga con l’urgenza, da parte dell’artista, di trasmettere un messaggio anzitutto etico: ciò che è già accaduto può tornare ad accadere e la scelta di astenersi, lasciando che la coscienza si intorpidisca, o di praticare la nobile arte del dissenso, ci riguarda tutti.
© riproduzione riservata
fino al 6 marzo 2017
Fabio Mauri. Retrospettiva a luce solida
Curatori: Laura Cherubini, Andrea Viliani
Museo Madre, Napoli
27 gennaio 2017, h. 18,30
Riedizione della storica performance Ebrea
Sala delle Capriate di Palazzo della Ragione, in Città Alta
GAMeC, Bergamo